Loading...
Cerca

Archivio categorie: Recensioni

Il treno dei bambini (Einaudi editore, 2019), romanzo di Viola Ardone, ruota attorno a una vicenda storica poco nota del nostro più recente passato: l’invio di migliaia di giovanissime vite al Nord e al Centro Italia, su iniziativa del Partito Comunista italiano, per strapparle alla fame e alla miseria maturate in conseguenza all’ultimo conflitto mondiale.

Protagonista della storia è Amerigo, un bambino napoletano sveglio e vivace, figlio di una ragazza madre, Antonietta, che gli racconta sempre di quel padre non conosciuto partito per l’America in cerca di fortuna e che chissà quando tornerà per strappare entrambi dalla miseria.

La miseria di una quotidianità fatta di bassi chiassosi, sfogliatelle calde divise a metà con l’amico del cuore Tommasino, tra una scorribanda e l’altra, ed il sugo “alla genovese” dei giorni di festa.

Lungo quei binari si compie il destino del bambino, che sale sul treno diretto al Nord, inconsapevole che quel viaggio cambierà per sempre il corso della sua esistenza.

A Modena viene accolto da Derna e dalla sua famiglia, proprio lui che una famiglia vera non l’aveva mai conosciuta. Per la prima volta non deve più “faticare”, ma soltanto andare a scuola e giocare.

Ora può vivere con la spensieratezza che appartiene all’infanzia, lontano dai doveri oppressivi di una realtà in cui si cresce troppo in fretta e dove non si è abbastanza piccoli per non lavorare.

Attraverso una scrittura originale che filtra la realtà attraverso il punto di vista del bambino su cose e persone, l’autrice si lascia andare ad una scrittura ingenuamente pura, innocente e semplice ma intrisa di emozione e di sentimento.

Grazie ad essa abbiamo modo di assistere al percorso interiore di Amerigo, a quei dissidi dell’anima che lo rendono combattuto tra la vita che si sta lasciando alle spalle e quella nuova che il destino gli offre di trasformare in qualcosa più di una semplice possibilità.

A tutti gli effetti quello della Ardone può legittimamente rientrare nel filone del romanzo di formazione: ripercorre infatti l’infanzia e poi la maturità del protagonista, sempre in viaggio sui binari che la vita gli offrirà di percorre durante la sua ineluttabile corsa.

Segue la sua dimensione emotiva, giustifica e legittima il maturare di certe scelte.

Solo lui potrà decidere quali treni aspettare e su quali binari, divenendo in questo modo l’uomo che sarà, mai immemore delle proprie radici e di quel cappotto lanciato dal finestrino verso la madre nell’inverno del 1946.

Quel bambino senza cappotto con le scarpe troppo piccole lo porterà per sempre con sé, nell’intimità più profonda del suo Io.

Francesca Mazzino

Viola Ardone (Napoli 1974) è laureata in Lettere e ha lavorato per alcuni anni nell’editoria. Autrice di varie pubblicazioni, insegna latino e italiano nei licei. Fra i suoi romanzi, oltre a Il treno dei bambini, ricordiamo: La ricetta del cuore in subbuglio (2013) e Una rivoluzione sentimentale (2016) entrambi editi da Salani.

Vitale, estrosa, alternativa. Qualità decisamente associabili a una delle icone artistiche più importanti a livello mondiale, Frida Kahlo.

Tutte vere certo, ma c’è solo questo? In realtà no e questo emerge dalla lettura de Il diario perduto di Frida Kahlo, romanzo d’esordio della scrittrice e psicologa messicana Alexandra Scheiman edito da Bur Rizzoli Narrativa.

Il diario racconta la storia della pittrice messicana nella sua essenza e si direbbe nella sua tristezza, dall’infanzia con tanto di diagnosi di poliomielite, al drammatico incidente all’età di diciotto anni, dall’amore passionale con Diego Rivera, al suo intenso legame con l’arte.

Ne viene fuori una prospettiva diversa sotto tanti aspetti, potrebbe dirsi nuova.

La protagonista della biografia infatti non è “Frida la pittrice”, vero mito artistico, ma è una donna debole nella sua forza. Un personaggio differente, decisamente reale, con le sue sofferenze e la sua determinazione.

Una descrizione mai banale non solo per l’oggettiva drammaticità degli eventi, si direbbe mai noiosi, che hanno accompagnato la vita della Kahlo, ma anche perché a renderla unica è la tematica mistica che la caratterizza.

Visioni, sensazioni, energie diverse prendono forma all’interno del testo. Si materializzano nell’immagine di un Messaggero dal cavallo bianco, portavoce della Morte, o in quella della donna-velata, più volte presente nella vita della pittrice.

Momenti dai quali emerge una Frida contemplativa, spirituale, legati a un contesto più ampio, qual è il legame secolare Morte-Messico.

Ed ecco che Frida, pur presentandosi spesso accompagnata da figure importanti da un punto di vista politico oltre che artistico, dimostra ne Il diario perduto di essere prima del personaggio, dell’icona, del mito irraggiungibile, semplicemente una donna che Ama.

Non è più dunque estrosità l’aggettivo primario, ma Sacrificio è il termine che più le si addice. Metaforicamente esso è legato al patto che Frida stipula con la Morte, quello di sopportare il dolore in cambio della felicità dei suoi cari o di un istante in più di vita terrena.

E poi viene l’arte, intesa come la liberazione, la gioia colorata nella sua vita grigia.

L’arte che è capace di esprimere con le sue tonalità i colori dei frutti, il profumo del cibo, il sapore delle sue ricette culinarie, protagoniste indiscusse alla fine di ogni capitolo del diario. Ma allo stesso tempo il tentativo di manifestare ciò che lei, diva incontestata, sentiva dentro.

Maria Pettinato

Un Natale perfetto, con una famiglia perfetta, in un casa perfetta. Il sogno di chiunque, anche di chi apparentemente odia la festa più importante al mondo.

È il desiderio di Leone (Sergio Castellito), protagonista di Una famiglia perfetta, pellicola diretta da Paolo Genovese nel 2012.

Per poter passare il Natale in compagnia e nella perfezione decantata anni prima dall’ex compagna Carmen (Claudia Gerini), Leone, uomo solitario, ricco e potente, decide di scrivere un vero e proprio copione e di affidarlo alla compagnia di attori di cui fa parte la stessa Carmen (ma questo lo scopriremo alla fine!) .

A coronare le ventiquattro ore scritte e studiate da Leone, uno splendido casale in Umbria addobbato al Natale, proprio come lo desiderava lei, una tavolata ricca di pietanze, una messa di mezzanotte, ma anche tanti colpi di scena, tra cui la morte della nonna Rosa, interpretata dalla splendida attrice Ilaria Occhini.

Ma nel tentativo di dimostrare a Carmen che le cose sarebbero andate come lei sognava, il carattere autoritario di Leone, la sua superbia, vengono fuori ugualmente, manifestando l’esatto contrario, e cioè il non essere mai cambiato.

Emerge in questo modo l’esatta verità: la perfezione scritta, visionata, studiata nel dettaglio fatta di quattro figli, una moglie, un fratello (Fortunato, Marco Giallini), una cognata (Sole, Carolina Crescentini), una nonna, non è tale.

Può difatti definirsi imperfezione allo stato puro, pur dotata di qualità ed essenza. È protagonista una famiglia reale, litigiosa sì, ma che comunque si ama.

Una famiglia che l’amore lo dimostra nella volontà di non lasciarsi travolgere dal corteggiamento di Leone e di Sole rispettivamente indirizzato a Carmen e Fortunato, marito e moglie nella vita vera.

Una trama artificiosa, studiata nel dettaglio, capace di presentare allo spettatore, mediante il comunemente definito “teatro nel teatro”, un risultato coinvolgente e riflessivo.

Ne viene fuori infatti una commedia amara e per questo capace di attrarre a sé lo spettatore offrendogli un momento di riflessione, oltre che di intrattenimento.

Ed ecco che la maestosa interpretazione di Sergio Castellito ci riporta a teatro, alla drammaturgia pirandelliana o alla De Filippo, ai Sei personaggi in cerca d’autore, incapaci di andare avanti perché non più in grado di comprendere la differenza tra realtà e finzione, o a Natale in casa Cupiello e alle diatribe familiari tipicamente natalizie.

Un film a mio parere straordinario, nonostante le negative opinioni giornalistiche, e allo stesso tempo molto attuale.

È evidente infatti, anche se in modo molto sottile, la volontà da parte di Genovese di esprimere una critica alla società che ad ogni costo deve vivere nella perfezione agli occhi degli altri, e ahimè di se stessa.

E non importa se l’amore, la stima e il rispetto non ne fanno parte, ciò che conta è vivere l’evento natalizio (e non solo) come gli altri anche se questo, in fondo, significa trasformarsi in un attore e recitare un ruolo.

Maria Pettinato

Si dice che ci sia un tempo per ogni cosa e, per Richard Gere, gli “anta” sono tempi assai fortunati.

Nell’immagine collettiva, probabilmente, ci si ricorda dell’attore in età matura più che in gioventù, un attore nato “buono” che ha molto spesso interpretato ruoli da innamorato con gli occhi a cuoricino in commedie rosa o drammatiche.

In Autumn in New York, pellicola del 2000 diretta dalla regista Joan Chen, Gere viene mostrato meno romantico del solito.

Nel film si allude ad un altro cliché, quello che presenta la borghesia americana come custode di vizi.

Il protagonista Will Keane (Richard Gere) è un famosissimo chef e anche un inguaribile dongiovanni (certo, mi direte, fino a quando non incontra l’amore vero) e non è facile per lui riconoscere un sentimento importante tra le mille donne che gli passano sotto il naso.

E il lieto fine? Non funziona sempre tutto come in Pretty Woman.

Quella che apparentemente si presenta come una commedia romantica da guardare sul divano per alleggerire un po’ l’atmosfera cambia registro prima di tutto sulla base del confronto tra la diversità caratteriale della protagonista femminile, Charlotte, interpretata da Winona Ryder e le cattive abitudini di Will.

Charlotte è una giovanissima ragazza di ventidue anni che sembra essere cresciuta in un batuffolo di neve: vive con la nonna tra perline e cappellini artigianali, ma sotto il suo sorriso smaliziato e due occhioni scuri qualcosa rende viva e tangibile ogni sua parola.

Nessuna chioma fluente e sensuale ma un nerissimo pixie cut fa risaltare la sua pelle diafana e la sua figura corporea fragile e minuta. La sincerità, nella voglia di mangiarsi il mondo, è il risultato di una grave malattia incurabile che presto la porterà via dal mondo terreno.

La giovane è un filo sottile tra il presente e il passato dello scapolo più ambito di New York.; la sua presenza porterà a galla fantasmi che Will aveva sedato e riposto nel dimenticatoio e adesso tornati per una resa dei conti senza esclusione di colpi.

Ma cosa sono i vizi se non malattie dell’anima? Will lo sa bene e ci convive
tradendo la fiducia di chi diceva di amare e per la quale affermava di essere
cambiato confermando quella sensazione di tragedia annunciata a cui lo
spettatore incredulo sperava di non dover assistere.

Le donne intorno a Will sono troppe e pretenziose, ma non tutte rivendicano la stessa ragione. L’atmosfera tipica dell’autunno newyorkese, i colori caldi e brillanti, riscaldano la prima parte del girato per poi raffreddarsi e schiarirsi nella neve man mano che avanza l’inverno.

Un naturale cambio di stagione che allude a quel ciclo vitale che noncurante del nostro permesso sopravvive.

Desirée Formica

Mors tua vita mea!

Bologna oggi. Dante ed Elena sono una coppia di giovani innamorati nel pieno della loro infelicità sociale. Svolgono una vita come tante altre, alienata e integrata nel sistema malsano in cui si trovano.

Lui vive alla giornata, per lo più fatto ed ubriaco, in attesa dell’ispirazione per scrivere il suo romanzo, lei lavora tutto il giorno come dama di compagnia presso la signora Scalpini, un’anziana arrogante e molto ricca.

E fino a qui Dante e la tartaruga, romanzo d’esordio di Vincenzo Spinelli, edito da Il Seme Bianco (2019), presenta una trama apparentemente “normale”, caratterizzata da personaggi mediocri, come tanti altri, immersi nelle proprie vite senza un futuro florido.

Ma le cose cominciano a cambiare forma quando viene fuori da parte dei due una sorta di insolubrità, una malvagità latente che prende piede quando decidono di comune accordo di compiere un omicidio avvelenando la signora Scalpini e di fuggire con l’eredità di quest’ultima.

Ad emergere è la psicologia dei protagonisti di questa storia più che la trama in sé. È la capacità perversa di studiare nel dettaglio il disegno che li porterà al raggiungimento (facile) dei propri obiettivi: rilevare la libreria Shakespeare and Company di Parigi e vivere nella tranquillità di coppia.

E soprattutto, in questo senso, a venir fuori con maggiore forza è il mutamento psicologico di Elena la quale, se inizialmente sembrava una figura succube del compagno, e a dir poco sfruttata da lui, nel corso del romanzo si trasforma a mio parere nella più malvagia.

Malvagità presente nel tentativo di persuadere il notaio o anche semplicemente nel lasciare sperare con grinta e consapevolezza che l’assassinio si compierà nonostante le cose sembrano a un certo punto avere poca speranza.

E se lei può definirsi l’artefice fisica dell’omicidio, vedi per il dialogo con il notaio, vedi per l’avvelenamento stesso, Dante altro non è che il mandante razionale dell’intero piano, è colui che lo studia e che incarica terzi.

Un modo per venirne fuori con maggiore facilità nel caso in cui le cose si sarebbero messe male? O semplicemente perché è lui in realtà il vero assassino in qualità di regista?

Non è facile rispondere a questi interrogativi, ma emerge comunque la sua prontezza intellettuale, anche solo nei dialoghi che lui svolge quotidianamente con figure importanti a livello storico, ad esempio Socrate o Giulio Cesare per citarne alcuni.

Personalità che lo spingono a studiare il piano accompagnandolo intellettualmente nella progettualità dello stesso.

Dante e la tartaruga può definirsi dunque un thriller psicologico caratterizzato da una struttura surreale, in cui realtà e finzione vanno di pari passo, in cui il sogno e la ragione diventano una cosa sola.

Ed ecco che leggendolo tornano alla mente i romanzi surrealisti di Antonin Artuad o le pellicole cinematografiche di Robert Wiene, in cui spiccava la stessa semplicità di comunicare e progettare situazioni che in realtà con la semplicità hanno ben poco in comune.

Emerge senza dubbio una cura discorsiva nelle parti in terza persona presenti all’interno del romanzo, ma allo stesso tempo una bonarietà onirica e visionaria che lo rende discorsivo e appagante.

Discorso simile anche per le parti scritte in prima persona da Dante in cui viene fuori un’asprità di fondo, la quale potrebbe essere interpretata come rabbia repressa da parte di un individuo infelice della propria esistenza e colpito da tale sentimento fin da bambino per l’incapacità personale e/o causata da altri soggetti, di trasformare il sogno nella realtà.

Un romanzo da leggere, coinvolgente quanto basta, anche quando la malvagità vince sulla volontà di raggiungere i progetti tanto ambiti da Dante, la pubblicazione del romanzo e l’apertura della libreria.

O forse no? A voi l’interpretazione!

Maria Pettinato

Vincenzo Spinelli nasce a Como nel 1985, corriere di giorno e scrittore di notte, amante della letteratura surrealista, satirica, dell’assurdo, nel 2016, al Salone Internazionale del libro di Torino, nell’ambito del concorso 88.88 indetto dall’associazione culturale YOWRAS, riceva una menzione per il racconto In bilico vacillo su un mio capello perso sul cuscino. Da lì ha iniziato a scrivere.

Ti chiedi se capita solo a te, se sei l’eccezione, o se esistono madri che, come te, piangono durante l’ora della favola.

Amélie Cordonnier

È una donna senza nome, privata di emozioni e della propria dignità da un uomo che le dice di amarla, la protagonista di L’Amore malato (Gremese-Narratori Francesi Contemporanei, 2018), romanzo d’esordio della giornalista francese Amélie Cordonnier, tradotto in italiano da Maria Stella Tataranni.

Una donna che va avanti, giorno dopo giorno, credendo sia un incubo dal quale prima o poi si sveglierà, una madre che vive per i suoi figli, Romane e Vadim, ma che in realtà è consapevole del dolore da loro provato per ciò che vedono e sentono quotidianamente, una moglie molestata psicologicamente e fisicamente di nuovo, dopo sette anni in cui aveva creduto che tutto il marcio vissuto negli anni precedenti fosse svanito.

Aveva vissuto nell’illusione che lui fosse guarito. Lei aveva imparato ad andargli incontro, lui ora faceva la spesa. Lei gli aveva dato un secondo figlio, lui la coccolava. Lei lo faceva sentire importante, lui finalmente non si arrabbiava più.

Semplicemente un’illusione però che spinge la donna senza nome ad annotare gli insulti e le oscenità rivoltale quotidianamente da Aurèlien autoconvincendosi che così facendo avrebbe trovato la forza di lasciarlo definitivamente e che quel giorno sarebbe stato quello del suo quarantesimo compleanno, il 3 gennaio, il giorno in cui sarebbe rinata.

Un modo per trovare la forza, un modo per ripercorrere nella mente i momenti, le gioie, i dolori, le illusioni, i perdoni, le scuse, i “non succederà mai più” e i “non sono riuscito a controllarmi”, ma anche le offese e gli schiaffi.

Il metodo per non dimenticare, per non lasciarsi più abbindolare, che le permette di trovare la forza di scappare via, sperando che la fuga sia quella definitiva, anche se il finale lascia ahimè immaginare tutt’altro.

Una storia come quella di tante raccontata dall’autrice con l’intento di toccare il lettore nel profondo.

E lo fa attraverso una scrittura documentaria, ma allo stesso tempo nervosa, capace di descrivere dettagliatamente le singole emozioni vissute da una donna non rispettata dall’uomo che le aveva giurato amore eterno.

È infatti la descrizione di ciò che la vittima sente dentro, del volerlo giustificare, comprendere, e anche analizzare trasformandosi oggi in una psicologa e domani nel suo sacco da box sul quale lanciare insulti di vario genere, quelli che fanno più male dei pugni e dei calci.

Ad emergere è la cronaca di una vita, non diversa da quella di molte donne che ancora oggi, nonostante la frequenza attiva con cui si parla di violenza sulle donne e delle moltissime associazioni presenti, vivono nell’oppressione e nel terrore, ma anche semplicemente nella convinzione di essere loro quelle sbagliate.

Un romanzo crudo e vero nella sua semplicità, capace di far riflettere, consigliato non solo a chi ha bisogno di capire che ciò che le viene offerto in realtà non può definirsi amore, ma a tutte le donne, anche alle altre, a quelle che giudicano volente o nolente.

Maria Pettinato

È giornalista dal 2002. Dopo aver lavorato per l’emittente Europe 1, nonché per il quotidiano La Tribune e il settimanale Le Journal du Dimanche, dal 2014 è diventata responsabile della rivista Femme Actuelle. L’Amore malato (Trancher, 2018) è il suo primo romanzo, cui è seguito nel 2020 Un loup quelque part, entrambi pubblicati in Francia da Flammarion.

Con Il colibrì Sandro Veronesi si è aggiudicato quest’anno (meritatamente) il prestigioso Premio Strega, bissando la vittoria già ottenuta nel 2006 con lo struggente Caos calmo.

Protagonista del romanzo è Marco Carrera, il colibrì del titolo, un uomo che da sempre ha impiegato tutte le sue energie per rimanere risolutamente e stoicamente fermo, ancorato a un’immobilità rassicurante mentre il mondo intorno a lui cambiava inesorabilmente, preda di un vortice di dolore e instabilità emotiva.

Eroe della normalità ma anche oggetto di coincidenze fatali apparentemente inspiegabili, Marco si pone al centro di una struttura narrativa caratterizzata da una solida architettura, dalla quale affiorano una serie di personaggi dalla raffinata fisionomia psicologica.

Fondamentale è il complesso rapporto di amore e affezione instaurato con l’universo femminile. Ne sono un esempio la sorella Irene, verso cui prova affetto ma anche una consapevole amarezza per non averla mai conosciuta
veramente, la moglie Marina, amata in un primo momento e poi odiata e Luisa, che incarna l’ideale perfetto, la donna di una vita, con la quale si lega in un rapporto platonico fatto di perpetui allontanamenti e riavvicinamenti.

L’unico amore vero e puro, stabile e perdurante, è quello per la figlia Adele, un legame che persiste e si rafforza negli anni andando ben oltre la dimensione padre-figlia.

Lo stile della narrazione è fluido e scorrevole, copre un arco temporale che va dai primi anni Settanta ad un ipotetico futuro prossimo ed è ravvivato dai continui salti temporali che caratterizzano i capitoli, che si succedono tra le lettere d’amore scambiate con Luisa, gli elenchi degli oggetti della casa genitoriale redatti per il fratello Giacomo, le telefonate scambiate con lo psicanalista della moglie.

Resilienza è il carattere che contraddistingue sopra tutti la vita del dottor Marco Carrera e il suo atteggiamento verso i dolori e le perdite della vita (particolarmente toccante è la descrizione della malattia e dipartita dei genitori, che assiste con la professionalità di un medico quale è e con sincera devozione filiale).

È un uomo che resiste, non si piega alle sventure seminate dal destino lungo il proprio cammino, impegnato nel suo sforzo d’immobilità esattamente come il colibrì.

(…) tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro.

L’unica parte del romanzo che ha suscitato in me qualche perplessità e delusione è l’epilogo, ambientato in un futuro prossimo, dal quale si erge la figura dell’uomo nuovo, incarnata da Miraijin, nipote di Marco e frutto della sua resilienza.

Al di là del valore simbolico di questo finale, (l’autore vuole sottolineare come la vita del protagonista avesse come scopo precipuo allevare questo individuo fuori dal comune), la narrazione qui cede il posto ad un’improvvisa lentezza, dando anche modo di far trovare spazio anche ad una tematica importante come l’eutanasia.

Si tratta di un libro nel suo complesso bello, importante, denso di significato e di vita soprattutto, in grado d’inoltrarci nelle pieghe più nascoste e inavvicinabili di un animo umano, comune ma straordinario proprio per questo.

Francesca Mazzino

Chloe di Atom Egoyan è il nome scelto per il remake americano di Nathalie (2009), versione francese del 2003 scritta e diretta da Anne Fontaine.

La ginecologa Catherine Stewart, interpretata da un’eccezionale Julienne Moore, organizza una festa di compleanno a sorpresa per il marito David (Liam Neeson), un professore di musica.

Gli invitati sono arrivati e si attende solo l’arrivo del festeggiato ma la donna riceve una chiamata nella quale lui le comunica di aver perso l’aereo di ritorno.

Il giorno seguente Catherine trova sul cellulare del marito un messaggio inviatogli da una studentessa: “grazie per la bella serata, baci” e in allegato una foto in cui sono insieme in atteggiamenti amicali, cosa che inizia a far sospettare la donna su un presunto tradimento del marito.

Il figlio Michael (Maximillion Drake Thieriot) non fa che peggiorare la situazione: è schivo con la madre, ha un atteggiamento tipicamente adolescenziale, porta la fidanzata a casa di nascosto e infrange le regole di buona convivenza. In un dialogo tra Catherine e un amico si deduce che Michael in passato possa avere avuto qualche leggero problema a livello neurologico.

Una famiglia-modello acclamata e invidiata anche dalla stampa con un positivo equilibrio tra carriera e famiglia in realtà si sta disfacendo dentro quel loft curato davanti agli occhi impotenti della matriarca.

In una cena tra amici Catherine, entrata alla toilette, e sentendo piangere una ragazza le chiede se va tutto bene ed è lì che iniziano a parlare: un’interazione minima che per Chloe (Amanda Seyfried) sembra necessaria.

Finge infatti di aver trovato a terra una spilla per capelli e chiede a Catherine se fosse sua ma lei risponde di no. Allora la ragazza gliela porge regalandogliela ma la donna rifiuta gentilmente e torna dal marito in sala. Questa preziosa spilla sarà il simbolo di un legame tra le due donne che non è destinato a spezzarsi.

Chloe è una ragazzina di facili costumi e Catherine se ne accorge osservandola al tavolo con un uomo che sembra avere più anni di lei. Ha lo sguardo spento seppur gli occhi grandi esprimano un forte bisogno di attenzioni.

La moglie del professore intuisce di poter usare questo legame per scongiurare l’inclinazione al tradimento del marito.

Le due donne si accordano per vedersi e decidere le dinamiche di questa prova di fedeltà ma già al primo incontro tra Chloe e David le notizie non sono tranquillizzanti: la ragazza racconta a Catherine di averci flirtato fino a farlo cadere in tentazione.

Il piano continua così come gli presunti incontri tra i due amanti che vengono narrati minuziosamente alla moglie. Catherine sprofonda nelle sue stesse insicurezze fino al punto di vedere in Chloe un espediente per non rovinare definitivamente il suo matrimonio.

La ragazza dai lunghi capelli biondi diventerà lo specchio di quell’amore intenso che l’ha spinta a sposarsi: un amore carnale che adesso si alimenta attraverso il corpo di una terza persona.

Il filo rosso di questa tela fatta di sensazioni implose è lo sguardo, tutto il non detto è espresso magnificamente dalla capacità interpretativa degli attori. La conoscenza tra Cloe e Catherine inizia in un ristorante e finisce (almeno per quest’ultima) in un caffè.

I coniugi sono seduti a un tavolo e Catherine aspetta che arrivi Chloe che scappa fuori, David chiede a Catherine chi fosse quella ragazza ed è in questo momento che viene svelata la grande menzogna: Chloe non aveva mai incontrato né visto quell’uomo, quelle storie sui loro incontri erano false e servivano a Chloe affinché Catherine non sparisse dalla sua vita.

La ragazza sembra essersi legata così tanto alla ginecologa da sviluppare una sorta di dipendenza affettiva generatrice di vendetta. Approfitterà infatti del ritardo di Michael per creare un flirt e ledere così l’equilibrio della famiglia che la coppia di sposi aveva da poco ritrovato.

Desirée Formica

Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960, in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan”

da Middlesex di Jeffrey Eugenides

Questo è l’incipit di Middlesex, romanzo dello scrittore statunitense Jeffrey Eugenides, pubblicato nel 2002 e vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2003.

Protagonista (nonché voce narrante) è Calliope Stephanides, un raro caso di ermafrodito che nasce e vive come ragazza e soltanto dopo un lungo e travagliato percorso interiore rinasce ad una nuova vita come Cal.

Dalla lettura emergono sempre più nitidi i turbamenti e le frustrazioni di Callie, consapevole fin da piccola di essere unica, diversa dalle proprie coetanee e per questo relegata ad una condizione di solitudine e marginalità.

L’interiorità della ragazza è indagata con acume e finezza psicologica; dettagliata è la descrizione della sua iniziazione sessuale a quattordici anni con una coetanea e quella del suo corpo che non si decide a farla sbocciare come donna, ma assume sembianze gradualmente sempre più mascoline.

Il gene impazzito nel suo DNA, responsabile di questa singolare condizione, viene interpretato come espiazione di una colpa primordiale che pende sulla sua famiglia, della quale è lei stessa a raccontarci la storia.

È così che l’autore riesce abilmente a coniugare il romanzo di formazione alla saga familiare: attraverso Calliope veniamo a conoscenza della storia degli Stephanides, il cui nucleo originario ritroviamo ad inizio ‘900 a Bitinio, un villaggio greco della Turchia.

Qui i fratelli Eleutherios (Lefty) e Desdemona, dopo un devastante incendio, decidono di migrare alla volta di più fortunati lidi.

Innamorati l’uno dell’altra, si sposano sulla nave che li conduce negli Stati Uniti, convinti di poter seppellire tra le onde del mare il segreto che li unisce e di poter vivere senza problemi nel nuovo continente la loro singolare condizione di sposi-fratelli.

Da questa unione incestuosa nascono due figli, Milton (padre di Callie) e Zoe. Ma la maternità è vissuta da Desdemona come una condizione di cui vergognarsi, un’onta terribile, esattamente come il sesso condiviso con il fratello-marito.

Teme che la punizione per questa unione “sbagliata” investirà le generazioni future, esattamente come lo schema di una tragedia greca. La donna emerge sicuramente in quanto uno dei personaggi più riusciti dell’opera, drammatica ma con tratti ironici e di comicità straordinari, come quando suole appoggiare un cucchiaio sulle pance delle donne in attesa per predire il sesso dei nascituri.

Ironia e drammaticità si ritrovano diligentemente coniugate dallo scrittore nell’intero universo dei personaggi, a tratti pittoreschi, che come un mosaico popolano le pagine del romanzo.

Tutti contribuiscono a restituire un’umanità eterogenea, il cui comune denominatore è la ricerca di una condizione di felicità e benessere individuale da vivere su questa Terra, ora e subito, a qualunque costo e al di là di qualunque barriera reale e mentale.

La rottura e lo scardinamento di ogni convenzione sociale e morale hanno la propria esemplificazione massima in Calliope: incapace di sottostare alla Medicina (che ne vorrebbe fare una cavia per studiarla) e ai genitori (che la vorrebbero ragazza per sempre, cancellando la parte maschile che coabita in lei), scappa da tutti e facendo l’autostop attraversa il suo Paese fino ad approdare in California.

L’esperienza variegata del viaggio la costringe a guardarsi dentro, ad ascoltare se stessa, inducendola, anche dopo la riconciliazione con i genitori ed il ritorno a casa, a diventare per sempre Cal.

Con questo (riuscitissimo) romanzo Jeffrey Eugenides affronta, attraverso la parabola di Callie/Cal, un tema attuale ed importante come la disforia di genere, trattandolo con una sensibilità estranea al pregiudizio ed evidenziando allo stesso tempo la volontà di essere artefici di se stessi, del proprio destino e del proprio corpo, in una società che ci relega sempre più in ruoli e categorie prestabilite.

Francesca Mazzino

Accadde una notte, traduzione dal titolo americano It happened one night è un film in bianco e nero del regista Frank Capra uscito nelle sale cinematografiche nel 1934 da inserire nel quadro epocale entro cui si muove il cinema americano di quegli anni.

Tra il 1927 e il 1933 il cinema stava maturando la sua evoluzione dal muto al sonoro, era cioè nella fase di transizione in cui veniva vagliato ogni pro e contro di questa nuova tecnologia che al contempo aveva generato una crisi quasi spirituale per gli addetti ai lavori.

L’opera di Capra sancisce definitivamente non solo l’avvento del sonoro al cinema ma avvia la teorizzazione sulla nascita dei generi, quelle categorie che per stile, per scelta del profilmico, per la narratività del racconto corrispondono a una precisa collocazione.

In questo caso si può parlare di screwball comedy, la commedia bizzarra oltreoceanica che vede come protagoniste coppiette litigiose da dove fa capolino quasi sempre la figura dell’ereditiera bisbetica.

Lo stile americano classico predilige il cosiddetto montaggio continuo orientato al racconto in una composizione leggibile ove il “problema” passa dal “conflitto” alla “risoluzione” che sfocia irrimediabilmente in un lieto fine.

Tale tecnica esalta lo sguardo dei personaggi come si riscontra appunto in Accadde una notte in cui i due protagonisti si guardano raramente negli occhi come a voler rafforzare l’idea di un distacco e una diversità non solo a livello di ceto sociale ma anche umano e valoriale.

Caratteristica che spiega perché lo spettatore viene solo di rado coinvolto emotivamente nei pensieri intimi che si alternano nelle menti dei protagonisti.

Nasce inoltre in questo periodo ciò che comunemente viene chiamato Star System, lo “sfruttamento commerciale” dei divi hollywoodiani.

Se un attore piaceva ed era richiesto dal pubblico veniva ingaggiato per lavorare in un determinato film e lo spettatore “affezionato” sarebbe andato a vederlo non tanto per la storia ma per rivedere l’attore amato sul grande schermo.

Perciò si ha la sensazione di non essere coinvolti dalla sceneggiatura del film, la quale passa in secondo piano rispetto alla comparsa dell’icona cinematografica.

Il divo qui in oggetto è Clark Gable nel ruolo di Peter, giornalista dalla facciata dura e cinica che non vedremo nelle prime inquadrature della pellicola, secondo il classico trucco adottato per far crescere l’attesa nello spettatore: posticipare la sua entrata nel racconto filmico.

Conosciamo però già dalle prime sequenze l’attrice Claudette Colbert nel ruolo della giovane ereditiera Ellie intenta a discutere con il padre – ricco banchiere incapace di imporsi ai capricci della ragazza – a bordo di una nave.

Il clima è particolarmente confuso: Ellie vuole sposare l’aviatore King, decisione alla quale il padre si contrappone, ma al culmine di quella che apparentemente sembrerebbe la solita lite familiare, la giovane scappa gettandosi in mare.

Raggiunta la riva trova la stazione più vicina facendo attenzione a non lasciare tracce con l’intento di arrivare a New York e sposare l’amato, non sapendo che nel frattempo il padre ha allertato le forze dell’ordine e la stampa giornalistica fissando una ricompensa per chi fosse riuscito a portare indietro sua figlia.

Ed ecco che entra in scena l’insensibile giornalista Peter che Ellie incontra nel tragitto per New York e che sin da subito progetterà un piano per firmare l’articolo di un ghiottissimo scoop relativo al ritrovamento della ragazza.

La viziata ereditiera, inizialmente indisponente verso chiunque osi rivolgerle la parola, sarà costretta, visto il mondo poco magnanimo che le si pone davanti, a fidarsi di Peter, l’unico sembrerebbe in grado di tenerle testa.

Interessante è l’evoluzione psicologica di due personaggi apparentemente superficiali.

Peter, che incarna la figura del tuttologo, del sapiente conoscitore di ogni qualsivoglia materia di discussione agli occhi di Ellie, in realtà manifesta infatti nel corso della commedia di Capra una sorta di trasformazione morale, presentandosi sotto una veste diversa, quella dell’uomo gentile e di qualità.

Un cambiamento che riscontriamo ancor di più nel personaggio femminile, che da ricca ereditiera, bambina viziata si direbbe, evolve diventando una semplice donna in una America straziata dalla Grande Depressione che l’ha colpita.

Evoluzioni non da poco se si tiene conto del mutamento che trasmettono gli stessi dialoghi tra i due: dai botta e risposta pungenti e senza esclusione di colpi nella stanza di un hotel della grande mela, in cui una tovaglia da tavola fa da divisorio tra i due (le mura di Gerico), si giunge a congetture sentimentali e al raggiungimento di un amore bello perché semplice.

Semplice come la sceneggiatura di una commedia romantica, leggera, ma per questo non banale e mai debordante in tratti volgari e nel facile sentimentalismo nei quali spesso si può inciampare.

Una pellicola capace di far sognare lo spettatore, intrisa di genuinità e di valori, in cui il messaggio predominante è che la felicità non è così difficile da conquistare se si è dotati di onestà e principi positivi.

Qualità non da poco attestate dal grande successo di pubblico riscosso, così come dagli Oscar ricevuti facendo di Accadde una notte il primo film nella storia ad aver vinto le cinque migliori statuette ambite (miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista).

Desirée Formica