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Archivio tag: MUSICA

Se telefonando playlist

“Lo stupore della notte spalancata sul mar

Ci sorprese che eravamo sconosciuti io e te

Se telefonando è uno dei più famosi brani di Mina, considerata una delle cantanti migliori nella storia della musica italiana, nota specialmente per la sua voce particolare e riconoscibile, con la quale ha fatto innamorare dall’inizio della sua carriera negli anni Cinquanta, milioni di persone.

Il testo di questo brano, uscito nel maggio del 1966, è stato scritto da Maurizio Costanzo e Ghigo de Chiara, mentre per l’arrangiamento e la musica si occupò il grande Ennio Morricone, ispirandosi «al suono delle sirene della polizia» come dichiarò all’uscita del brano.

Poi nel buio le tue mani d’improvviso sulle mie

È cresciuto troppo in fretta questo nostro amor

Il significato della canzone è facilmente riconoscibile e individuabile all’interno del testo; esso è concentrato su un contrasto di emozioni totalmente differenti e dall’inizio capiamo che i protagonisti di questa splendida canzone sono due giovani.

Questi si ritrovano in una meravigliosa spiaggia sotto la luce della luna probabilmente di una serata estiva.

Se telefonando (lyrics) - YouTube

I due non si conoscono bene, ma per un motivo inspiegabile razionalmente, sentono l’uno per l’altra una passione e un’intesa incontrollabili. In breve infatti vengono travolti dall’amore.

Se telefonando io potessi dirti addio

Ti chiamerei

Se io rivedendoti fossi certa che non soffri

Ti rivedrei

Se guardandoti negli occhi sapessi dirti basta

Ti guarderei

Per la donna quella che apparentemente può sembrare una storia occasionale prende la forma di un vero e proprio amore, ma di fronte ad esso lei non sa come reagire, perché quelle emozioni così forti e prorompenti non le conosce, non le ha mai provate.

Sentimenti sconosciuti si trasformano perciò in paura e questa conseguentemente spinge la giovane donna a chiudere un rapporto in realtà nemmeno iniziato.

Ed ecco che “Se telefonando io potessi dirti addio, ti chiamerei” è la frase che spiega precisamente la sua intenzione e che precede una serie di altre frasi con le quali l’ascoltatore intuisce il suo stato d’animo, cioè la paura di soffrire.

Ma non so spiegarti che il nostro amore appena nato

È già finito

Un brano commovente per svariati motivi: la sua melodia, il suo testo, la magnifica voce di Mina travolgono emotivamente l’ascoltatore.

Se telefonando fa capire di fatto quanto le prime esperienze insegnino, e facciano scoprire la propria persona, la propria interiorità, quindi ciò che realmente si ha dentro.

Bravo Lupita, 1 A Classico

The Five Coolest Scenes From the Harry Potter Movies That Weren't In the  Books - Willamette Week

Nicholas Edward Cave, in arte Nick Cave, è un compositore australiano e autore, durante un periodo mesto e malinconico della sua vita, di O Children (2004).

Fondatore assieme a Mick Harvey della band Concrete Vulture e rinominata in seguito Boys Next Door, pubblica il suo primo brano di successo Door Door raggiungendo la fama a livello internazionale.

Un successo che ahimè si trasforma in un giudizio a dir poco critico quando trasferitosi a Londra con la band ormai nominata The Birthday Party diventa noto per l’esuberanza animalesca sul palco e per i concerti rissosi, dovuti perlopiù all’abuso di alcool e di droga. Situazione che porta la band a sciogliersi nel 1983.

“The cleaners are coming, one by one” ossia I pulitori stanno arrivando uno a uno dice O Children, il brano che parla della deportazione nazista nei campi di concentramento dal momento iniziale, quello del viaggio sul treno della morte.

Il significato della canzone è molto profondo: il testo sembra infatti una sorta di discorso fatto dagli adulti ai bambini, prima del viaggio verso il campo di lavoro, un viaggio senza ritorno, un viaggio verso la morte.

A colpire, oltre alle parole del testo, è il ritmo malinconico di questo brano musicale, dal quale emergono le difficoltà e le paure, ma allo stesso tempo la voglia di reagire, di viver.

Il messaggio è infatti l’amore che trionfa nonostante tutto e la speranza di una vita ricca di gioia e di serenità.

Nick Cave, in arrivo un'autobiografia illustrata e una mostra :: News ::  OndaRock

Nel discorso ai bambini, gli adulti a tratti nascondono loro la verità, descrivendo il viaggio come una gita verso un regno, a tratti invece chiedono scusa, sia per i momenti e le liti in famiglia, sia per il futuro che aspetta ai propri figli e nipoti, un futuro incerto e pieno di sofferenze.

Matt Biffa, supervisore musicale di Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1, ha spiegato in un’intervista di aver scelto questo brano come colonna sonora del film perché si identificava con i suoi testi a livello personale, poiché si stava separando dalla moglie in quel momento ed era preoccupato come questa situazione avrebbe influenzato i loro due figli piccoli:

«C’era qualcosa di veramente edificante in O Children , con frasi come rallegrati / alza la tua voce e tutte quelle cose. Stavo pensando ai miei figli. I testi dicono Perdonaci per quello che abbiamo fatto».

Un brano malinconico e capace di far riflettere, ancor più famoso e celebre tra le nuove generazioni per la scena del ballo tra Harry e Hermione nel film Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1, rimasta alla memoria del pubblico come momento cult dell’intera pellicola.

Muca Gloria, Ricca Lorenzo Linceo, Lanteri Matilde, 1 A Classico


Same Love | Discogs

Same Love, uscito nel 2012, e’ un brano musicale di Macklemore e Ryan Lewis, artisti americani molto conosciuti.

Macklemore – pseudonimo di Benjamin Hammond Haggerty – è nato nella città più piovosa d’America, Seattle, ed è cresciuto insieme ai suoi genitori fino al periodo del liceo, quando la coppia decide di separarsi.

Dopo aver seguito un corso sulle arti liberali, frequenta un programma focalizzato sull’identità culturale e l’educazione, grazie al quale scopre qualche segreto per raggiungere più facilmente il pubblico musicale, composto prevalentemente da giovani.

Nonostante la sua non sia una famiglia di musicisti, i suoi cari hanno sempre approvato la sua scelta di diventare cantante in quanto già da bambino dimostrava un grande interesse verso la musica.

Si racconta infatti che già all’età di sei anni avrebbe cantato la sua prima canzone hip hop e di come da ragazzo amasse trascorrere i weekend in tenda con gli amici ad ascoltare radio e a fare mixtape di canzoni.

Anche Ryan Lewis nasce nello stato di Washington, dove frequenta la Ferris High School per poi diplomarsi alla Roosevelt High School di Seattle e laurearsi presso la University of Washington.

Dopo essere diventato un importante fotografo professionista inizia nell’estate del 2006 a lavorare con il rapper Macklemore, instaurando con lui una forte amicizia oltre alla collaborazione lavorativa che emergerà fortemente dal 2008, anno in cui nasce la Macklemore & Ryan Lewis.

Collaborazione musicale caratterizzata dalla produzione di diversi album e dal raggiungimento di numerosi riconoscimenti come ad esempio quattro Grammy Award, tra cui uno al miglior artista esordiente, due American Music Awards, due Billboard Music Awards e due MTV VMAS.

Tornando a Same Love, questo può considerarsi un brano dedicato al supporto dei diritti gay e della legalizzazione dei matrimoni omosessuali.

È presente difatti un riferimento al “Washington Referendum”, una riforma in merito all’approvazione o all’abrogazione della legge del Febbraio 2012 che legalizzò i matrimoni omosessuali nello stato di Washington.

Il testo in sé parla di uguaglianza dell’amore tra tutte le persone, di qualunque sesso esse siano. Nel video musicale analogo viene narrata infatti la storia di un ragazzo e delle difficoltà che deve affrontare quotidianamente insieme al suo compagno.

Con questo componimento gli artisti erano indubbiamente intenzionati a diffondere un messaggio di rivoluzione dell’hip hop su questo tema, il quale tra l’altro emerge dalla copertina del singolo, in cui sono ritratti lo zio di Macklemore con il suo compagno.

In conclusione possiamo affermare che oltre a toccare un tema delicato, accompagnato da una melodia orecchiabile e molto efficace nella sua leggerezza, questa canzone può divenire fonte di ispirazione per la sensibilizzazione di questa tematica, ancora oggi in alcuni paesi discriminata e accantonata.

Cresta Elisabetta, Maraucci Giada, Dedej Giorgia, 2 A Classico

Red Hot Chili Peppers - Californication, il video che anticipò GTA

Californication, brano dei Red Hot Chili Peppers pubblicato l’8 Giugno 1999 in collaborazione con la casa discografica Warner Records, appartiene all’omonimo album Californication.

Un pezzo molto apprezzato in tutto il mondo per la sua musicalità e per il suo essere completamente privo di filtri.

Nel giro di pochissimo tempo ha infatti raggiunto più di un milione di vendite, vincendo il Disco di platino in Italia e il Disco d’oro in ben tre paesi: gli USA, la Danimarca e il Regno Unito.

Da un punto di vista musicale, il pezzo è classificabile come funky alternative rock presentando un ritmo e un metronomo relativamente lenti se comparati ad altri pezzi degli stessi autori come Can’t Stop, o Scar Tissue.

Buy "Californication" - Red Hot Chili Peppers - Microsoft Store

Tuttavia, se combinato con il video musicale, acquisisce il sound funky tipico dei Red Hot, con una chitarra accattivante e una coordinazione del basso elettrico che sviluppa la sua parte principalmente in arpeggi di accordi con la batteria unica i quali, verso la fine del brano, hanno persino il loro spazio da “solisti”, per quanto non facciano improvvisazioni come nel vero jazz.

In generale, il pezzo è perfettamente a metà tra jazz e pop, ed è a parer nostro il vero capolavoro del suo album.

Emerge inoltre un significato implicito molto profondo e interessante da frasi come It’s the edge of the world and all of Western civilization o The sun may rise in the East at least it’s settled in a final location, per citarne solo alcune.

Tutte frasi che sembrano indicare uno stesso concetto: l’occidentalizzazione del mondo che sta avvenendo sempre più velocemente e la conseguente perdita del valore dell’autenticità.

Il testo lascia intendere come ormai la cultura americana sia “il sole del mondo” , come ogni altra cultura stia prendendo spunto da essa e come il mondo intero stia perciò acquisendo un ritmo sempre più serrato, cadendo in una spirale di falsi sogni e fantasie irrealizzabili.

La canzone inoltre insiste su una similitudine: l’industria dei film, quindi Hollywood, nota località nel cuore di Los Angeles (California), sta ad indicare come gli Stati Uniti siano la terra delle Meraviglie per tutti, tranne che per chi ci vive.

Riguardo al video musicale ciò che salta di più all’occhio è sicuramente l’ambientazione in cui i quattro membri del gruppo sono inseriti, la quale è palesemente ispirata a videogames come il celeberrimo Grand Theft Auto.

Il video infatti si apre con l’inquadratura su un menu di selezione dei personaggi che riprende quelli tipici dei videogiochi anni ‘90. Il chitarrista John è il primo ad apparire, correndo per la famosa Walk of Fame di Hollywood; la sua sequenza, come tutte le altre, si conclude quando afferra il logo dei Red Hot Chili Peppers.

Dopo un breve intermezzo dove il gruppo in carne ed ossa suona in cima ad una collina, intento a fare snowbard si presenta Chad, il batterista del gruppo, il quale però, cadendo da un burrone, si ritrova ad atterrare su un treno in corsa.

Il terzo, in una tipica ambientazione surreale è il cantante Anthony, riprso mentre nuota in mezzo a degli squali. Completa il cerchio in corsa Flea, il bassista, intento a tirare pugni a persone, alberi e orsi.

La scelta in pieno stile videogame chiaramente legata al tema della canzone. I membri della band infatti compiono azioni totalmente impensabili e irrealistiche, azioni che, nell’immaginario collettiv, sono irrealizzabili dovunque… meno che in America.

Amoretti Francesco, Barberis Francesco Marcos e Ramoino Eleonora, 2 A Classico

1703, Francia di Luigi XIV. Sebastian è un giovane diciassettenne che poco sa di guerra e di vendetta e che poco conosce ciò che si nasconde dietro un regno come quello del Re Sole fatto di insidie e scontri tra i suoi uomini, i Dragoni del Re, e i rivoltosi Camisards.

Privo di informazioni fino al giorno in cui non gli appaiono le anime di questi ultimi, i quali hanno perso la vita nel tentativo di uccidere il re assoluto, tra cui quella di Pierre, padre di Sebastian morto nella stessa circostanza a insaputa del figlio sino a quel momento.

Un incontro sconvolgente per un ragazzo come lui che da quel momento cambierà totalmente il suo essere e allontanerà le persone a lui care tra cui la madre Dominique e l’amata Céline, spinto dal desiderio di vendetta, trasformandosi in Angel, un guerriero munito di doti eccezionali grazie agli insegnamenti del miglior maestro d’armi di Francia, Jerome, e del veggente Dreamer.

E ciò che viene fuori da L’Angelo d’Oro, un racconto nato per essere un dramma in musica in due atti, è la capacità dell’autore Roberto Longo, di descrivere egregiamente il viaggio interiore di Sebastian-Angel.

I suoi turbamenti, le sue passioni, i suoi dubbi, la sua rabbia, ma anche il ritorno alla sua essenza naturale offerti dall’energia positiva materializzata nell’Angelo d’oro, ciondolo sacro appartenente ai Templari.

Ne scaturisce un vero e proprio studio dei personaggi, della musica, dei dialoghi tra le figure delineate, presentando non solo una storia toccante e riflessiva, ma anche una scrittura colta, dettagliata e coinvolgente, degna di dramma musicale.

Può infatti definirsi un mix di generi diversi. La prosa, la canzone, la poesia sono aspetti della stessa medaglia che, unendosi alla descrizione di un’epoca vera per quanto distruttiva sia stata, tocca emotivamente un lettore oggi più che mai consapevole di momenti surreali simili a quello.

Un periodo storico raccontato nel libretto di Longo con un’attenzione particolare per ciò che in realtà si dimostrerà alla fine il vero vincitore della storia, l’amore incondizionato per il quale Sebastian-Angel metterà via la sete di vendetta, che nemmeno la lettura di un futuro tragico era riuscita a fermare.

Amore, rispetto, rinascita della propria essenza si dimostrano i veri protagonisti di un racconto avvincente e simbolico, degno di qualità teatrali e musicali non da poco alle quali auguro la rappresentazione fisica.

Maria Pettinato

Roberto Longo è professore associato di elaborazione di segnali digitali e intelligenza artificiale, nonché musicista con un vivo interesse per la storia e il teatro. Segna con l’Angelo d’Oro il suo debutto come autore. Vive ad Angers (Francia).

Se l’impianto ideologico di Fluxus, basato sull’azione totale, quale esperienza sensoriale attiva, prima ancora che artistica, si sviluppa primariamente all’interno dell’ambiente musicale americano, le sue caratteristiche di indeterminatezza e di concettualità, insieme ad un concreto esprimersi, non mancano di coinvolgere ben presto l’intero mondo artistico gravitante attorno all’area più sottilmente attenta all’evoluzione creativa.

Mentre ancora alla fine degli anni Cinquanta, attorno alla 5° strada si intrecciano le vicende di mercato, legate alla produzione artistica come business per cui l’opera deve essere materialmente fruibile e creare delle precise gerarchie di valori commerciali, e invece negli ambienti culturali stava evolvendosi lo strutturalismo influenzato dalle tesi scientifiche di una metodologia razionale di ricerca, l’intellettualismo giovanile risentendo di tutte quelle spinte che la complessità della società americana esercitava sulla sua formazione, si stava sempre più avvicinando ad un punto di rottura.

Itinerario che doveva necessariamente passare attraverso quella introspezione intellettiva e profonda, senza barriere dogmatiche e pregna di volontà conoscitiva che è poi la linea essenziale di Fluxus, sulla quale si muoveranno le molteplici personalità che senza dar vita a un gruppo o ad una tendenza, appropriandosi del diritto di espressione insito in Fluxus e dell’estrema libertà di azione nell’azione, pensiero e movimento, né dilateranno le possibilità e la presenza.

Quando George Maciunas, oriundo lituano, musicologo e laureto in Storia dell’Arte, incontra LaMonte Young durante i corsi tenuti da Maxfield in Madison Avenue, egli intuisce l’importanza delle teorie della nuova avanguardia musicale e come queste andassero ben oltre i confini della musica stessa aprendo orizzonti più vasti.

LaMonte Young lavora in quel momento a sperimentazioni sonore sulla ripetizione ed esecuzione costante di un suolo suono. Sulla stessa linea di iterazione sonora o melodica si muove tutta la scuola californiana: da Walter De Maria a Terry Riley, a Simone Forti.

L’influenza orientale è molto palese ma ad essa si aggiunge una concretizzazione del concetto astratto di Arte che viene a coincidere con “le possibilità ovvie di azione”; e poiché ovvie, naturalmente estetiche.

Questo, secondo Dick Higgins, si riallaccia e riprende la visione classica del concetto di estetica, riportando la musica e l’Arte in generale ad una “forma di speculazione (intellettiva ed oggettiva) sui principi delle cose” non tanto in senso strettamente formale, quanto in senso metafisico e quindi sublimale.

Importanti in questo periodo le due serie di performances tenute tra il 1960 e il 1961 nello studio di Yoko Ono in Camper Street, con LaMonte Young come responsabile, e nella Galleria di Medison Avenue a cura dello stesso George Maciunas.

La poliedrica personalità di Maciunas, vero asse portante ed elemento coesivo delle diverse ideologie, tematiche ed orientamenti esistenti in Fluxus, realizza a partire dal 1960 una serie di pubblicazioni tra cui le riviste Fluxus V Tre ed il libro Anthology, pubblicato nel 1963 da LaMonte Young e Mac Low, con materiali della disciolta rivista Bestitud.

In queste pubblicazioni vengono raccolti testi teorici e poetici, saggi linguistici, critiche funzionali sul ruolo dell’arte e dell’artista nella società moderna.

Ad esse collaboreranno molti Fluxus-artisti e filosofi quali Dick Higgins, Wott, Anderson, gli europei Claus Bremer, Diter Rot, Emmet William, il coreano Nam June Paik ed Henry Flynt; con quest’ultimo Maciunas in seguito firmerà uno scritto sull’impostazione sociale del dibattito artistico: I comunisti devono dare una leadership rivoluzionaria alla Cultura.

Testo contenente almeno quattro punti importanti: critica alla cultura sovietica come espressione elitaria, riscoperta e valorizzazione delle culture etniche in rapporto al progresso sociale, valorizzazione del cinema documentaristico, pianificazione architettonica, per la quale Maciunas progetta un complesso di abitazioni prefabbricate.

Nel novembre del 1961 George Maciunas parte per la Germania. In Germania esiste un fertile terreno. Nam June Paik, Joseph Boys, Gaul, Goet, Wolf Vostell e altri si riuniscono nello studio di Mary Bauermeinster (moglie di Stockhausen), divenuto una sorta di alter alla ufficialità di Radio Colonia, studio di musica elettronica diretto da Stockhausen stesso.

Qui vengono presentate opere di Brecht, LaMonte Young e Cage e lavori del gruppo. Paik ha già realizzato nel novembre del 1959 alla Galleria 22 di Dusseldorf, un suo lavoro di musica elettronica per tre magnetofoni e un vetro da spaccare, con rovesciamento finale di un pianoforte, il cui titolo è: Omaggio a Cage.

Vostell si interessa alla visione elettronica, al suono ed alla strutturazione fonetica del linguaggio, pur discostandosi dalle tendenze musica-azione del gruppo, che giudica meno importanti dell’azione stessa.

Nel 1961 Colonia appare ricca di fermenti soprattutto presso la Galleria Hauro Lauhus, luogo di incontro di personaggi come Rotella, Cardew, Wewesca, Patterson e gli stessi Paik e Vostell, e dove il gruppo realizza Action music.

Maciunas al suo arrivo in Germania si mette subito in contatto con Paik con il quale corrispondeva da New York, per organizzare una serie di Fluxus-concerti in tutta Europa.

Inizia in questo periodo il momento dei Festivals e delle tournèe che vede protagonista il gruppo storico di Fluxus: Ben Patterson, George Maciunas, Robert Fillious, Allison Knowles, Higgins, Keopke e Mercure, Willis Williams, Wellin, Boys, Paik e Vostell, sia pur tra divergenze organizzative, competizioni e diversità ideologiche all’interno della sua eterogenea formazione.

I grandi progetti di Maciunas per una concert agency europea vengono ridimensionati da parte di Paik, Higgins e Vostell e, nel giugno 1962 a Dusseldorf, viene presentato Neo-Dada in der Musik, comprendente lavori di LaMonteYoung, Brecht, Higgins, Knowles, Wotts, Riley, Williams, etc

Wiesbaden in settembre ospita quattordici Event; ad Amsterdam la serie di concerti è presentata con il titolo: Parallele auffuhrungen neuester musik; a Londra come The Festival of Misfits.

A Copenhagen viene operata una selezione di giovani sia americani che europei, musicisti ed artisti visivi, i quali interagisco con i fattori tempo, spazio e suono (rumore); seguirà Parigi dove Daniel Spoerri e Thomas Schimdt si uniscono al gruppo con il lavoro teatrale Domaine poetique, quindi Dusseldorf con Boys, Stoccolma e Oslo solo per Allison Knowles e Higgins, Copenhagen e Amsterdam di nuovo nel giugno del 1963, infine Nizza dove il gruppo incontra Ben Vautier.

L’organizzazione delle performances avviene in modo del tutto autogestito. Gli artisti partecipano gratuitamente e si spostano a proprie spese presso le sedi, la maggior parte delle volte locali che Maciunas o qualche amico è riuscito a trovare a prezzi irrisori o gratuitamente nelle varie città.

Il repertorio comprende l’esecuzione di brani di quasi tutti i compositori dell’area Fluxus, ai quali non verranno mai pagati i diritti d’autore.

Non esiste una vera e propria coesione tra i componenti del tour, i problemi e le discussioni che ne seguono contribuiscono alla crescita individuale e collettiva degli artisti stessi, i quali, malgrado la precarietà ed appunto l’indeterminatezza dell’organizzazione, la diffidenza della critica e la mole di lavoro da compiere, riescono negli intenti che si sono preposti: far conoscere una ideologia ed uno spirito di vita che si sposa con l’Arte e con la semplicità culturale di espressione.

(to be continued)

Cristina M. D. Belloni

Il Festival sta per concludersi lasciando di sé il ricordo di una settimana davvero eccezionale dal punto di vista della conduzione, dell’organizzazione, ma anche delle esibizioni come si è potuto constatare prevalentemente dalla terza serata del concorso.

Una puntata all’insegna delle cover e dei duetti in cui sono emersi brani che hanno fatto la nostra storia musicale coinvolgendo così non solo il pubblico del Teatro Ariston, ma anche gli spettatori a casa.

Premiati Tosca, i Pinguini Tattici Nucleari e Piero Pelù i quali hanno spiccato maggiormente sull’Orchestra votante e direi una scelta azzeccata visto il coinvolgimento di pubblico.

A emergere dal mio punto di vista nella serata di coppia musicale sono stati decisamente Marco Masini-Arisa con Vacanze Romane, Levante-Francesca Michielin-Maria Antonietta con Si può dare di più, Enrico Nigiotti-Simone Cristicchi con Ti regalerò una cosa ed Elodie-Aeham Ahmad con Adesso tu, dimostrando quest’ultima il grande carisma che sta manifestando dal primo giorno.

Una terza serata in cui la musica italiana si è unita alla presenza di un altro nostro orgoglio nazionale, Roberto Benigni, portatore di allegria e di quella sana saggezza che può fare solo bene al nostro paese.

Un’Italia tanto stimata come si è potuto notare dai continui elogi della conduttrice albanese Alketa Vejsiu (forse un po’ troppo marcati?) e dalla presenza di Georgina Rodriguez, moglie di Cristiano Ronaldo, troppo serio a detta di Fiorello ieri sera.

Il comico siciliano che per nostra gioia ieri sera era di nuovo in prima fila con i suoi travestimenti e la sua allegria. Una spensieratezza ancora protagonista durante la quarta serata, la serata di Francesca Sofia Novello e di Antonella Clerici, la cui conduzione è spiccata sulle altre probabilmente per le esperienze precedenti a Sanremo o forse per l’ottimo rapporto con l’amico-collega Amadeus.

Una quarta puntata in cui è stato incoronato vincitore delle Nuove Proposte Sanremo 2020 Leo Gassman con il brano Vai bene così. Una vittoria abbastanza contestata da un pubblico prevalentemente orientato verso la finalista Tecla, il quale ha giudicato il risultato finale vedendovi come requisito non la bravura, ma l’appartenenza alla famiglia Gassman.

Una puntata in cui finalmente è arrivato il colpo di scena, come è giusto che sia a Sanremo: l’abbandono del palco da parte di Bugo causato sembrerebbe da una lite tra lui e Morgan sfociata nella modifica del testo da parte di quest’ultimo, le cui parole sono un visibile segno di disprezzo nei confronti del collega.

Il tutto lasciando Amadeus nel totale imbarazzo, una situazione salvata dalla comicità di Fiorello. Un momento inaspettato che rimarrà sicuramente nella storia di Sanremo e che, conoscendo Morgan, è il risultato di una delle sue tante provocazioni mediatiche.

Da aspettarsene ancora tante stasera come detto da Fiorello! Perché il 70° Festival della canzone italiana non è ancora finito.

Maria Pettinato

Una serata all’insegna dei rapporti personali quella di ieri sera al 70° Festival della canzone italiana.

Caratteristica sulla quale, tra l’altro, si basa l’intero festival come ha specificato Amadeus annunciando sul palco Paolo Palumbo, ventiduenne malato di Sla che con la canzone Io sto con Paolo ha provocato in noi una riflessione molto forte su ciò che è in realtà la vita, e che ahimè spesso noi non vediamo, un viaggio ricco di doni e possibilità.

Attraverso la sua esibizione Paolo ci ha mostrato uno dei tanti rapporti trapelati dalla seconda serata a Sanremo, quello tra lui e suo fratello, il quale per amore ha scelto di abbandonare tutto e stargli accanto.

E accanto alle relazioni familiari, i rapporti di amicizia si sono rivelati i protagonisti, da quello tra i due conduttori Fiorello e Amadeus a quello che ricorda affettuosamente Fabrizio Frizzi. E poi finalmente la ritrovata amicizia tra i componenti dei Ricchi e Poveri, di nuovo assieme su quel palco dopo quarant’anni, talmente affiatati da far ballare il pubblico dell’Ariston.

Per non parlare della stima e della professionalità venuta fuori dal duetto Massimo Ranieri-Tiziano Ferro sulle note di Perdere l’amore.

Un festival vincente dal punto di vista dei sentimenti anche ieri sera dunque, capace di unire divertimento e serietà creando un connubio perfetto a livello emozionale e canoro, soprattutto grazie alla presenza di personalità importanti, da Tosca a Zucchero ad esempio, assenti da un po’ all’evento dell’anno, ma sempre comunque eccezionali!

E in tutta questa bella leggerezza e divertente atmosfera però la domanda che ci poniamo in tutta franchezza è la seguente: ma i concorrenti dove sono?

È un concorso un po’ diverso quello di quest’anno. Ciò che emerge è infatti una serata divertente, ma decisamente poco gara. E traspare molto nel maggior spazio concesso agli sketch di Fiorello, alla conduzione di Amadeus e agli ospiti rispetto agli anni passati che, per quanto mi riguarda, fornisce grande coinvolgimento di pubblico, ma allo stesso tempo rischia di dilungare troppo i tempi televisivi.

Ma la seconda domanda che ci poniamo è: sono davvero questi momenti ad aver oscurato i cantanti in gara (la maggior parte!), oppure sono semplicemente i cantanti in gara ad averci lasciato così poco da oscurarsi da soli?

Che dire… a mio avviso cari lettori le esibizioni canore di ieri sera poco hanno lasciato. Si sono presentate senza quella caparbietà che dovrebbe distinguerle dalla musica di tutti i giorni. Questo è infatti Sanremo… l’eccellere sul quotidiano!

E per quanto apprezzi fortemente questo festival dal punto di vista della conduzione – anche se ieri sera ho trovato la presenza femminile priva di contenuti rispetto alla prima puntata – non posso finora dire lo stesso per ciò che riguarda i brani in gara.

Speriamo che questo sia l’andazzo di una sola serata, se no quello del 2020 sarà ricordato come lo show di Sanremo e con come il Festival della canzone italiana.

Maria Pettinato

Una prima serata all’insegna del divertimento quella del 70° Festival della canzone italiana, ma anche ricco di tradizione e di temi importanti.

Ma cominciamo con ordine soffermandoci su ciò che, a mio avviso, da questa prima serata è venuto fuori nel bene e nel male…

Le prime figure importanti a riguardo sono la coppia Amadeus-Fiorello. Quando ha cominciato a circolare la notizia della loro presenza a Sanremo, automaticamente nella mente sono riaffiorati gli anni Novanta, il Festivalbar, le risate e la spensieratezza di quelle estati infinite.

La leggerezza è tornata alla ribalta più che mai ieri sera con due veri professionisti artistici… e finalmente aggiungerei! Sin da subito si è presentato il “Festival di Sanremo”, quello dei tempi d’oro, quello divertente, ma allo stesso tempo elegante e ricco di contenuti.

Una prima serata incentrata su temi importanti, molto “all’insegna delle donne” come già si era predetto, ma anche sul passato-tradizione della musica italiana.

Un riferimento che va non solo alla coppia Albano-Romina, concorrenti dopo venticinque anni e ospiti portatori di quella tradizione e di quel successo popolare che ancora aleggia nell’aria come ha dimostrato la foga di un pubblico coinvolto da un’esibizione che, pur vista e rivista, dimostra di piacere ancora molto, ma anche all’esplosiva Rita Pavone, come sempre eccezionale nella sua eccentricità, nel suo essere pura energia vitale.

Ma sono le esibizioni di Tiziano Ferro quelle che più di tutte riecheggiano la nostra storia musicale. Con Volare e Almeno tu nell’universo il cantante di Latina ha emozionato tutti noi e ha coronato il suo sogno: cantare quella meravigliosa canzone al femminile di Mia Martini, “sfidando” Bruno Lauzi che in passato aveva specificato l’impossibilità di declinare al maschile questo brano. E anche se non è riuscita perfettamente sul finale non importa, l’importante è vedere negli occhi di Tiziano la commozione per averci comunque provato.

E la storia della nostra musica, che in fondo è la storia della nostra Italia, si fa notare anche quando si parla de Gli anni più belli, il film di Gabriele Muccino in uscita il 13 febbraio, il cui cast ci riporta alla mente ricordi passati ricoprendoci di sana nostalgia.

Un’apertura che si è rivelata anche l’occasione per fare emergere la forza delle donne, troppo spesso oscurata quando si tratta di televisione e di carriera. Quella forza che unita all’energia ci rende anime pure e che è venuta fuori nella spontaneità che ha contraddistinto Diletta Leotta e Rula Jebreal, qualità non da poco per un palco come quello di Sanremo, spesso motivo di imbarazzo come dimostrato molte volte in passato.

Donne che hanno affrontato temi di grandissimo impatto sul pubblico dell’Ariston e sugli spettatori in mondo visione: il tempo che passa raccontato dalla Leotta e ancor più la violenza sulle donne esposta dalla giornalista palestinese sotto forma di monologo.

Un racconto vero perché sentito, il quale unito alla lettura di canzoni scritte da uomini per le donne, da La cura di Franco Battiato a Sally di Vasco Rossi, ha vinto vista la sua capacità di toccarci come non mai e di farci riflettere su un problema attuale oggi più che mai!

E infine degna di nota è la novità che ha contribuito a rendere la prima serata così coinvolgente, e cioè l’esibizione di Emma Marrone per il pubblico di Piazza Colombo.

Serata di qualità, assolutamente promossa dalla critica e dal pubblico, come ha dimostrato l’elevato numero di ascolti. Ma non positiva allo stesso modo quando si parla di un paio di esibizioni: mi riferisco alla coppia Albano-Romina che da concorrenti dopo moltissimi anni di assenza hanno deciso di cantare in playback, e ad Achille Lauro, al quale è fortemente consigliato di modificare il modo con il quale vuole provocare se ha intenzione di fare il cantante anche in futuro.

Aldilà della sua musica che può piacere e non piacere, a mio avviso hanno fatto bluffe tutti e tre. La coppia ha manifestato una sorta di superiorità “intaccando” le regole del concorso, mentre il giovane cantante continua a sbagliare nello scegliere qualcuno da imitare per emergere a Sanremo: l’anno scorso era Vasco Rossi, quest’anno è Renato Zero. La provocazione fa bene all’arte, ma l’imitazione direi di no.

Maria Pettinato

Di tutti i campi collaterali al mondo dell’arte, sembra che lo studio per le copertine degli album musicali a 33 giri abbia a lungo tempo offerto lo scopo principale per l’evoluzione creativa del disegno commerciale.

Fino a che il compact disc non ha rivoluzionato il mercato dell’ascolto e le dimensioni degli involucri, sono state prodotte milioni di copertine e un numero considerevole di queste sono ancora in circolazione.

Una buona collezione di dischi rappresenta di solito una parte importante e significativa nella vita di chi ama la musica, e di conseguenza anche le copertine assumono lo stesso significato, certamente non ridotto alla sola funzione protettiva.

Le informazioni che esse forniscono sul contenuto del disco non si limitano solo alle parole ma vengono espresse più chiaramente e immediatamente dal disegno o dalla risoluzione grafica o fotografica che spesso denota e sottolinea il contesto in cui è collocabile il disco stesso, facendone al contempo un fattore pubblicitario facilmente riconoscibile ed efficace.

Mentre la ricerca di immagini e la ricchezza delle tecniche utilizzate è dovuta principalmente alla loro qualità di oggetto destinato a durare nel tempo, a differenza ad esempio degli involucri per cibo o per profumi a cui vengono invece attribuiti criteri di impatto commerciale, e che vengono gettati via quando il prodotto è stato consumato.

Differentemente anche dalle copertine dei libri che “soffrendo” della loro tradizione per così dire “classica”, tendono a rimanere anonime rispetto al contenuto e solo sporadicamente riportano immagini quasi sempre non rilevanti dal punto di vista artistico o di costume.

Questo ha portato dunque alla considerazione che il contesto grafico della copertina di un long playing potesse e dovesse avere prerogative tali da essere validamente considerato come risultato artistico, facente parte della compiutezza stessa dell’opera musicale, rispecchiandone o annunciandone il feeling ma anche avendo essa stessa prerogative, sfumature, riferimenti o significati propri.

Lo spazio modulare di 12 pollici per lato e da una parte può costituire una limitazione alla verve creativa, e peraltro anche una valida sfida alla ricerca ed interpretazione immaginativa, la quale trova nelle dimensioni standard degli ‘LP una condizione imprescindibile di sintesi, dove poter esprimere adeguatamente e in modo fantasioso concetti, idee o intuizioni, in rapporto al momento musicale e soprattutto di costume che quel determinato prodotto discografico rappresenta.

La grande varietà e diversità degli stili musicali ha aperto infinite possibilità al cover design, sia pur molte volte in disaccordo con la politica commerciale delle grosse case discografiche, le quali tendono a non sentire come necessario uno studio approfondito di tale settore reputato marginale e secondario rispetto ai costi di realizzazione.

Nelle grandi compagnie spesso le diverse fasi di produzione non entrano in contatto tra di loro, ed il lavoro è mosso da criteri di valutazione legati sopratutto ad una logica di mercato più che alla validità complessiva del prodotto.

Sono invece le piccole etichette indipendenti ad aver avuto il merito di essere state maggiormente consapevoli di questo potenziale apporto artistico.

Avendo un totale coinvolgimento in tutto l’iter della creazione di un disco, i piccoli operatori hanno sviluppato un genuino interesse nel collegare l’approccio musicale a quello visuale, insieme alla maggiore capacità di rischiare commercialmente anche dal punto di vista musicale.

Alla musica jazz degli anni ‘40 va il grande merito di aver rivoluzionato il sistema discografico. Dall’ingombrante e poco capiente 78 giri si è passati al più veloce sistema di ascolto del 33 giri e un terzo stampato in vinile, materiale che possedeva anche prerogative di minor peso, maggior resistenza e fedeltà di riproduzione rispetto alla ceramica dei primi dischi in commercio.

Il jazz di quell’epoca è una musica che si impone come rivoluzionaria, rispetto all’ambiente di provenienza popolare e di derivazione culturale “nera”, sia proprio dal punto di vista della composizione musicale, dei tempi e delle interpretazioni tra i vari strumenti.

Musica veloce, ritmata, di rottura rispetto a tutta la tradizione musicale occidentale, si diffonde con successo tra le giovani generazioni americane prima, ed europee in secondo tempo, proprio per la sua anima libera dai condizionamenti della greve cultura classica.

Di conseguenza anche gli involucri di carta prima e di cartone poi, che contengono i dischi jazz vengono studiati in modo che abbiano un impatto “colorato” sul pubblico.

Sia nell’iniziale studio formale e cromatico del marchio discografico, che appariva preponderante nelle prime edizioni musicali, sia successivamente nella vera e propria costruzione della copertina l’impronta jazz era facilmente riconoscibile.

La grafica, ancora molto semplice, evidenzia più le prerogative della casa discografica che quelle vere e proprie della registrazione o dell’artista, andando però via, via, sviluppando la tendenza ad inserire immagini a colori dell’autore o dell’orchestra ritratti di solito in modo semplice e diretto.

Il primo dato sociologico con cui dovrà confrontarsi il design degli album discografici si presenterà più tardi, negli anni ‘50, quando il blues ed il sound di colore prenderà piede nei gusti del grande pubblico.

All’epoca le copertine erano spesso corredate da immagini fotografiche degli esecutori, ma nella democratica America veniva ancora considerato socialmente e moralmente degradante mostrare le immagini di artisti di colore.

Per questo motivo la maggior parte delle Cover-production Blues di quel decennio riproduce un’idea “bianca” riconducibile ad un contesto “etnico” della musica blues: personaggi anonimi del popolo nero, seduti in un patio o in cammino quasi sempre con la chitarra, nel suggestivo paesaggio del Sud.

Dopo aver faticosamente superato l’impatto razziale, per molti anni le Jazz-cover hanno teso ad una sostanziale sobrietà realistica dell’immagine per distanziarsi ed evidenziarsi rispetto al “romanticismo tradizionale” o alla seriosità datata che abbondano invece sulle copertine dei dischi di musica classica, mai, peraltro, approdate ad un linguaggio stilistico tale da rendere merito alle profondità immaginifiche che la musica classica possiede.

Nell’ambito jazz degli anni ‘60 è da ricercarsi anche la prima copertina apribile a due ante, edita dalla Impulse Records americana ed i pregevoli lavori fotografici di Wolff, per la Blue Note, di Bob Fischer per la RCA e di Toni Frissel per la United Artist Records.

Per la Blue Note tra il 1957 e il 1958 lavorerà anche Andy Warhol nella realizzazione di due cover per altrettanti ‘LP di Kenny Burrell.

Con il passare del tempo la ricerca jazz è andata intellettualizzandosi, e fondendosi con altre sonorità musicali, staccandosi sempre più dall’ambito popolare che l’ha vista nascere.

Perciò, essendo sempre più rivolta ad un pubblico specifico, la produzione jazz non ha avuto bisogno di immagini eclatanti e colori sgargianti, né di seguire particolari condizionamenti delle mode, pur non mancando mai di giocare linguisticamente con temi grafici molto diversi tra loro come l’umorismo, il mondo delle fiabe, il collage surrealistico.

Esistono anche esempi di primitivismo etnico, di riferimenti all’Arte Moderna o di feroce satira verso la produzione classica: senza però che sia mai stato abbandonato un certo stile sobrio ed elegante.

Ne sono conseguite scelte raffinate e molto curate delle fotografie, delle impostazioni scritturali e grafiche ed una ricerca estetica dell’impaginazione che ha creato vere e proprie linee di tendenza stilistiche per cui data una copertina già si riconosce l’impronta inconfondibile dello stile e del tipo di ricerca musicale proprie della casa discografica che l’ha prodotta.

Emblematica in tale senso è l’etichetta tedesca ECM Records (Eicher Club Music) fondata nel 1979 da Manfred Eicher per coniare un nuovo modo di intendere il jazz nei suoi risvolti di perfezione tecnica, di ricercatezza delle sonorità o di fusione etnologica.

Nell’ECM sono confluiti musicisti come Don Cherry (scomparso recentemente), John Abercrombie, Gavin Bryars, Jon Hassell, Ralph Towner ed altri della stessa levatura.


Manfred Eicher ha sempre avuto una particolare sensibilità verso gli involucri dei suoi album, curatissimi dal punto di vista ipaginativo.

Fotografi come Roberto Casotti, Franco Fontana, Luigi Ghiri e Frieder Grindler sono pregevoli autori di molte delle covers ECM, mentre l’aspetto grafico è quasi sempre affidato al raffinato gusto estetico di Barbara Wojirsch. Del 1980 è la copertina firmata Michelangelo Pistoletto dell’album Ah per il quartetto di Enrico Rava.

Per quanto riguarda il jazz inglese, soprattutto degli anni ‘70, vorrei infine soffermarmi sulla casa discografica Vertigo Records, la quale ha posto come etichetta tonda al centro del disco di vinile una delle “spirali” di Marcel Duchamp che ruota di fatto quindi, proprio a spirale come è nello spirito originale dell’opera duchampiana.

Della Vertigo Records vorrei citare le copertine di Ian Carr e dei Nucleus realizzate in stile cartoon da Keith Davis o da Roger Dean che più tardi svilupperà l’illustrazione fantastica nell’ambito pop, in particolare le copertine degli Yes e di altri noti gruppi rock inglesi dell’epoca.

Cristina M. D. Belloni