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Archivio tag: DIVISMO

Accadde una notte, traduzione dal titolo americano It happened one night è un film in bianco e nero del regista Frank Capra uscito nelle sale cinematografiche nel 1934 da inserire nel quadro epocale entro cui si muove il cinema americano di quegli anni.

Tra il 1927 e il 1933 il cinema stava maturando la sua evoluzione dal muto al sonoro, era cioè nella fase di transizione in cui veniva vagliato ogni pro e contro di questa nuova tecnologia che al contempo aveva generato una crisi quasi spirituale per gli addetti ai lavori.

L’opera di Capra sancisce definitivamente non solo l’avvento del sonoro al cinema ma avvia la teorizzazione sulla nascita dei generi, quelle categorie che per stile, per scelta del profilmico, per la narratività del racconto corrispondono a una precisa collocazione.

In questo caso si può parlare di screwball comedy, la commedia bizzarra oltreoceanica che vede come protagoniste coppiette litigiose da dove fa capolino quasi sempre la figura dell’ereditiera bisbetica.

Lo stile americano classico predilige il cosiddetto montaggio continuo orientato al racconto in una composizione leggibile ove il “problema” passa dal “conflitto” alla “risoluzione” che sfocia irrimediabilmente in un lieto fine.

Tale tecnica esalta lo sguardo dei personaggi come si riscontra appunto in Accadde una notte in cui i due protagonisti si guardano raramente negli occhi come a voler rafforzare l’idea di un distacco e una diversità non solo a livello di ceto sociale ma anche umano e valoriale.

Caratteristica che spiega perché lo spettatore viene solo di rado coinvolto emotivamente nei pensieri intimi che si alternano nelle menti dei protagonisti.

Nasce inoltre in questo periodo ciò che comunemente viene chiamato Star System, lo “sfruttamento commerciale” dei divi hollywoodiani.

Se un attore piaceva ed era richiesto dal pubblico veniva ingaggiato per lavorare in un determinato film e lo spettatore “affezionato” sarebbe andato a vederlo non tanto per la storia ma per rivedere l’attore amato sul grande schermo.

Perciò si ha la sensazione di non essere coinvolti dalla sceneggiatura del film, la quale passa in secondo piano rispetto alla comparsa dell’icona cinematografica.

Il divo qui in oggetto è Clark Gable nel ruolo di Peter, giornalista dalla facciata dura e cinica che non vedremo nelle prime inquadrature della pellicola, secondo il classico trucco adottato per far crescere l’attesa nello spettatore: posticipare la sua entrata nel racconto filmico.

Conosciamo però già dalle prime sequenze l’attrice Claudette Colbert nel ruolo della giovane ereditiera Ellie intenta a discutere con il padre – ricco banchiere incapace di imporsi ai capricci della ragazza – a bordo di una nave.

Il clima è particolarmente confuso: Ellie vuole sposare l’aviatore King, decisione alla quale il padre si contrappone, ma al culmine di quella che apparentemente sembrerebbe la solita lite familiare, la giovane scappa gettandosi in mare.

Raggiunta la riva trova la stazione più vicina facendo attenzione a non lasciare tracce con l’intento di arrivare a New York e sposare l’amato, non sapendo che nel frattempo il padre ha allertato le forze dell’ordine e la stampa giornalistica fissando una ricompensa per chi fosse riuscito a portare indietro sua figlia.

Ed ecco che entra in scena l’insensibile giornalista Peter che Ellie incontra nel tragitto per New York e che sin da subito progetterà un piano per firmare l’articolo di un ghiottissimo scoop relativo al ritrovamento della ragazza.

La viziata ereditiera, inizialmente indisponente verso chiunque osi rivolgerle la parola, sarà costretta, visto il mondo poco magnanimo che le si pone davanti, a fidarsi di Peter, l’unico sembrerebbe in grado di tenerle testa.

Interessante è l’evoluzione psicologica di due personaggi apparentemente superficiali.

Peter, che incarna la figura del tuttologo, del sapiente conoscitore di ogni qualsivoglia materia di discussione agli occhi di Ellie, in realtà manifesta infatti nel corso della commedia di Capra una sorta di trasformazione morale, presentandosi sotto una veste diversa, quella dell’uomo gentile e di qualità.

Un cambiamento che riscontriamo ancor di più nel personaggio femminile, che da ricca ereditiera, bambina viziata si direbbe, evolve diventando una semplice donna in una America straziata dalla Grande Depressione che l’ha colpita.

Evoluzioni non da poco se si tiene conto del mutamento che trasmettono gli stessi dialoghi tra i due: dai botta e risposta pungenti e senza esclusione di colpi nella stanza di un hotel della grande mela, in cui una tovaglia da tavola fa da divisorio tra i due (le mura di Gerico), si giunge a congetture sentimentali e al raggiungimento di un amore bello perché semplice.

Semplice come la sceneggiatura di una commedia romantica, leggera, ma per questo non banale e mai debordante in tratti volgari e nel facile sentimentalismo nei quali spesso si può inciampare.

Una pellicola capace di far sognare lo spettatore, intrisa di genuinità e di valori, in cui il messaggio predominante è che la felicità non è così difficile da conquistare se si è dotati di onestà e principi positivi.

Qualità non da poco attestate dal grande successo di pubblico riscosso, così come dagli Oscar ricevuti facendo di Accadde una notte il primo film nella storia ad aver vinto le cinque migliori statuette ambite (miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista).

Desirée Formica

Siamo abituati a pensare a Joker come la nemesi di Batman, il genio del male, un criminale psicopatico amante di omicidi.

Questa volta è qualcosa di più. Il Joker di Todd Phillips, Leone d’oro al Festival di Venezia 2019, è un personaggio studiato nel dettaglio, la raffigurazione della disuguaglianza e del degrado sociale, nonché la rabbia dei giorni nostri.

È il 1981. Arthur Fleck è un clown affetto da un disturbo psichico che gli provoca incontrollabili attacchi di risate in momenti di tensione. Vive con l’anziana madre Penny a Ghotam City e ha un sogno: diventare un comico di successo.

Lotta con educazione e in punta di piedi per raggiungere il suo progetto, senza però ottenere nulla di concreto rimanendo lo zimbello da prendere in giro e bullizzare.

Fino a che non si trasforma ne “l’assassino dei ricchi”, in una sorta di “eroe della follia” per la massa degradata che abita nei quartieri altrettanto deteriorati di Ghotam e che come lui non ha possibilità di emergere in un sistema in cui solo il potente privo di valori e indifferente verso il prossimo ha la meglio.

La stessa folla che fino a poco prima non aveva considerato Arthur o al massimo lo aveva emarginato.

Si assiste dunque alla trasformazione di Fleck in Joker e della sua vita che “da tragedia diventa commedia”. Un cambiamento che rende sempre più evidenti i suoi disturbi della personalità, legati a un’infanzia abusata da una madre altrettanto malata.

Ed è così che viene fuori la storia di Joker per quella che è, raccontata da un punto di vista inusuale e assolutamente originale, diretta da un regista che aveva in mente un personaggio differente dalle precedenti versioni cinematografiche.

Un thriller psicologico in cui il protagonista è nato da un progetto a quattro mani avviato assieme all’attore che lo ha interpretato, Joacquin Phoenix, il quale è decisamente entrato nella psiche di Joker per poterla rappresentare al meglio.

Un ruolo degno di Oscar, non facile da mettere in atto, ma riuscito positivamente, come se Phoenix si fosse oggettivamente trasformato in Arthur/Joker.

E lo abbia fatto non solo dal punto di vista psichico ed emotivo, ma anche fisico come dimostrano i 23 kg in meno dovuti a una dieta ferrea, le inquietanti espressioni del viso e gli angoscianti movimenti del corpo che lo rendono meno umano e sempre più grottesco, ma anche più leggero ed elegante ricordando per certi aspetti le maschere della tragedia greca e della commedia dell’arte.

Nel raffigurare il disagio di Arthur, Phillips non ha fatto altro che portare a galla ciò che è la società attuale, apatica e priva di senso comune, ma soprattutto di riferimenti reali e perciò portata all’anarchia da assassini e criminali.

Ghotam è quindi il mondo di oggi in cui c’è chi emerge facendo buon viso a cattivo gioco come Murray Franklin, presentatore di talk show che contribuisce al crollo psichico di Joker, interpretato da Robert De Niro che, dal punto di vista attoriale, definisce il suo ruolo nel film un omaggio al Re per una notte (1983) di Martin Scorsese.

Non mancano infine chiari riferimenti a Charlie Chaplin che si ritrovano esplicitamente nella canzone Smile, da lui composta per Modern Times, o nelle scene che lo raffigurano, ma anche nella sua visione tragica sui “tempi moderni”, direi azzeccata oggi come allora.

Maria Pettinato

Viale del tramonto (1950), Billy Wilder.
Protagonista: Gloria Swanson

Il cinema può definirsi l’espressione della vita, la sua rappresentazione. Ha infatti la capacità di trasmettere attraverso i suoi film, le sue scene, le sue inquadrature, i suoi fotogrammi ciò che noi viviamo quotidianamente, da un gesto a un’abitudine, da una sensazione a un’emozione.

Quante volte capita di ritrovarsi in un film, in una trama o semplicemente di rivedere in quella scena montata con quella determinata musica un momento vissuto o una persona o un luogo. O magari è un colore ad attrarci, una parola, un paesaggio. Ed ecco che viene fuori appunto l’essenza cinematografica.

Ma, come in tutti i film che si rispettano c’è chi colpisce più di altri, c’è il personaggio che fa sognare, che fa pensare, che semplicemente affascina: il/la protagonista. Ma pensateci, questo non accade anche nella nostra quotidianità?

Pretty woman (1990), Garry Marshall.
Protagonista: Julia Roberts

Ebbene sì, perché nella vita di tutti i giorni la nostra attenzione è palesemente orientata, oggi più che mai, verso chi emerge, chi trasmette qualcosa nel bene o nel male e che ci riesce proprio perché dotato di autenticità.

Noi quel qualcuno, propriamente detto protagonista, lo giudichiamo positivamente o negativamente, ma eccome se questo giudizio è figlio di pensiero ed emozione.

Johnny Stecchino (1991), Roberto Benigni.
Protagonista: Roberto Benigni

Questo avviene nel quotidiano come in un film in cui le azioni del personaggio principale sono osservate, assorbite, giudicate dallo spettatore e accade perché esso è dotato di qualità che pochi possiedono.

Esterna una magia unica, straordinariamente semplice e così forte da colpire non solo chi ha vicino, ma anche chi per puro caso si imbatte in lui/lei.

Io sono leggenda (2008), Francis Lawrence.
Protagonista: Will Smith

Pensate a una Julia Roberts o a un Will Smith ad esempio? Ce li vedreste nei panni di un personaggio secondario? Credo proprio di no.

Oscurerebbero attraverso movenze, espressioni, modi di fare e di comunicare l’attore/attrice di turno.

Moulin rouge (2001), Baz Luhrmann.
Protagonista: Nicole Kidman

Sono poche le personalità che affascinano oggettivamente e il cinema, dotato di occhio e consapevolezza tecnica, ne estrapola le peculiarità e le trasmette poi al pubblico, dotandosi di attori/attrici che palesemente e naturalmente sono i protagonisti.

Maria Pettinato

Il Festival di Venezia 2019, o meglio la 76° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, sta per concludersi e anche quest’anno ha garantito l’occasione per esporre le proprie creazioni filmiche, ma anche e soprattutto per esporsi.

Perché è ormai chiaro a tutti il fatto che il Festival di Venezia in realtà non sia solo e semplicemente un evento culturale, un momento di dibattito intellettuale, la Manifestazione cinematografica con la “M” maiuscola, organizzata con passione e competenza dalla rinomata Biennale di Venezia.

Eh no, cari miei! Venezia a fine estate è il Festival, è la Rassegna, è l’Occasione tanto attesa per pubblicizzarsi, presentarsi, mostrarsi tra tanti e tante.

Ma in realtà ahimè, a emergere dalla passerella rossa, nella massa di attori, fashion blogger (o presunte tali!), influencer e tutti i nuovi personaggi di questi disastrosi anni (e spero che rimarranno solo anni!), aleggia aria di talento ed eleganza molto raramente.

E dalla famosa pedana a distinguersi dalle altre, perché dotata di inconfondibili finezza, sensualità, talento e unica bellezza c’è Penélope Cruz, in concorso a Venezia con il film Wasp network di Olivier Assayas, thriller politico nel quale la vediamo nei panni di Olga, moglie di René Gonzalez, dissidente anti-castrista fuggito in Florida, “moglie del traditore” in pieno regime a Cuba 1990.

Olga (Penélope Cruz) in Wasp network di Olivier Assayas in concorso alla 76° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia

Conosciuta nel mondo per le sue capacità attoriali, oltre che per la sua bellezza, la Cruz è esempio di determinazione, riuscita e riservatezza.

Ma a contraddistinguerla vi è il sacrificio, come ha dimostrato il periodo delle porte sbattute in faccia, degli incontri con persone sbagliate, di rinunce, che si è trasformato poi nel periodo dello studio, della determinazione, delle conoscenze positive come quella avvenuta con il maestro e amico Pedro Almodòvar, che ha creduto in lei contribuendo così alla trasformazione di Penélope ne “La Madonna di Madrid” prima e di icona mondiale poi.

Momenti belli e brutti, ma fondamentali perché è anche grazie a essi che lei oggi è ciò che è, una donna umile, portatrice di valori, una di Noi, la ragazza della porta accanto che ce l’ha fatta, che proviene da una famiglia altrettanto umile.

Diva “raggiungibile”, amata e innamorata del suo pubblico come attesta la passione impressa nei suoi occhi, la dolcezza del suo sorriso, l’ironia tipicamente spagnola, la volontà di tenere fuori dai riflettori la sua vita privata.

Qualità così vere da toccare i presenti che solo a guardarla in una foto pubblicata sui social de L’Artefatto decidono di votare lei preferendola alle altre che, pur dotate di fascino e qualità come dimostrano Monica Bellucci, Alessandra Mastronardi e Cristiana Capotondi – tutte presenti sul red carpet veneziano – spicca diffondendo “luce propria”.

Maria Pettinato

Buonasera carissimi Artefattini! Oggi è un giorno particolarmente importante perché si apre questa nuova e entusiasmante avventura!

Per questo motivo ho scelto di cominciare offrendovi come primo articolo un argomento che mi appassiona molto e da anni direi: il divismo cinematografico, il fenomeno che forse più di tutti ha suscitato nello spettatore fascino, speranza, voglia di sognare, ma allo stesso tempo un senso di irraggiungibilità verso ciò che si vedeva sul grande schermo.

Ebbene sì, cari lettori, mi riferisco all’epoca in cui il cinema ci offriva le più grandi dive mai esistite, da Marilyn Monroe a Audrey Hepburn, da Sophia Loren a Anna Magnani. Era il cinema degli anni Cinquanta.

Il cinema sbarazzino, quello che voleva lasciarsi alle spalle la guerra, divertente, leggero e spensierato. Era il tempo in cui andare al cinema voleva dire “andare a sognare”, immedesimarsi in Sophia Loren, imparare la mossa di Pane, amore e… e imitarla a casa con le amiche senza mai più dimenticarla oppure nella Hepburn sognando di indossare un giorno un tubino nero come il suo in Colazione da Tiffany.

La diva era colei che nella vita ce l’aveva fatta e magari aveva vissuto come la ragazzina  che la guardava sul grande schermo, ma era dotata di quell’eleganza, di quell’attrattiva fisica e di quel talento che le avevano permesso di emergere e diventare Lei.

Ma la domanda che sorge spontanea è: ma il divismo esiste ancora? La mia risposta è sì. Sono dive diverse, ma con un punto in comune: la bellezza, mezzo necessario per portare guadagno ai media.

Non nascono nel cinema, non hanno talenti, o almeno nella maggior parte dei casi, ma emergono, sono belle, vendono, fanno emozionare le giovani donne e ammaliano gli uomini. Cosa le spinge al successo? Ma è chiaro: sono i reality show, i programmi trash ormai di moda, da Uomini e donne al Grande fratello, ma anche le discoteche, dove vengono ospitate per aumentare la clientela, e i social media.

Sono irraggiungibili anche loro, così come sono imitate, anche se forse in un modo più pericoloso rispetto alle dive nostre, quelle vere, non ritoccate da Photoshop e con qualche chilo in più che faceva solo che bene in quegli anni.

E’ cambiata la mentalità, il modo di sognare e il mezzo per poterlo fare. Questi sono i motivi che hanno portato alla trasformazione, i motivi per i quali tutto è superficiale ed effimero.

E chissà se il volto della tronista rimarrà impresso nella mente di questa generazione tra cinquant’anni come quello delle dive di altri tempi. Io credo di no, ma staremo a vedere. E voi, Artefattini, che ne pensate?

Maria Pettinato