Loading...
Cerca

Archivio tag: IL LIBRO DEL MESE

Amazon.it: Yemen l'eterno. Un viaggio emozionale nella vita e nella storia  - Boffo, Mario - Libri

Questa donna piange…

questa donna raccoglie la legna…

questa donna cammina…

Nessuno sa

che facesse questa donna

prima di divenire un albero…

Sawssan Al Ariqi

Esistono luoghi così eterei, così ricchi di intensi e profondi sentimenti che raramente scompaiono dalla memoria di chi li ha vissuti. Sono i Paesi della memoria, delle emozioni, delle tradizioni, di tutte quelle storie e leggende che sono state raccontate e che mai scompariranno dalla mente di chi le ha ascoltate.

Uno di questi paesi è sicuramente lo Yemen, un luogo poco conosciuto, ma impeccabilmente raccontato nel libro Yemen l’eterno. Un viaggio emozionale nella vita e nella storia (Stampa Alternativa, 2019), scritto da Mario Boffo, ambasciatore d’Italia nel luogo eterno dal 2005 al 2010 e autore del romanzo Femmina strega (Stampa Alternativa, 2017).

Attraverso una scrittura lineare, scorrevole e si direbbe emozionale, Boffo è riuscito a descrivere questo luogo con estrema enfasi raccontando gli aspetti antropologici di un Paese ricco di passione e tradizione e che, ahimè, sono ad oggi oscurati da una storia triste e a dir poco amara, la guerra civile che aleggia da ormai sei anni.

Pace in Yemen. Si può fare - The Science of Where

Ed ecco che lo Yemen, “il luogo dello spirito”, come viene definito dall’autore, è raccontato in tutti i suoi aspetti come se fosse il diario degli intensi cinque anni lì trascorsi. Suddiviso in cinque parti, La città eterna, Il Paese di Bilqis, Lo Yemen e l’Italia, Epilogo e Luoghi-Persone, Boffo ne offre una panoramica completa.

Le prime parti offrono la descrizione di ciò che è lo Yemen nella sua parte più profonda, caratterizzata da racconti e tradizioni dello splendido popolo yemenita. Emergono aneddoti, figure, modi di pensare diversi, ma tutti uniti da un elemento comune: la fierezza di essere yemenita.

Sono Saleh, il guardiano delle stelle, pellegrino alla Mecca, rispettoso dell’identità del suo popolo, o Abdallah, il cantore dei matrimoni, dalla voce calda e suadente, ma anche le Nere presenze, donne yemenite coperte interamente da una tunica nera, alcuni dei protagonisti di un racconto quasi mistico, quasi favola si direbbe da quanto è travolgente.

Un quadro dettagliato riguarda poi i rapporti che lo Yemen ha da sempre con l’Italia, fortemente rispettata e apprezzata dal popolo yemenita. Aspetti diplomatici e di amicizia emergono infatti in questa penultima parte.

Ma il capitolo che più di tutti a mio avviso comunica nel profondo l’identità di questo Paese è decisamente quello ornato dalle immagini di paesaggi naturali e architettonici, e di persone, di volti e di sguardi.

Yemen, la bellezza avvilita - La Stampa

Le fotografie che decorano il libro riescono a comunicare qualcosa di davvero intenso. Gli occhi luccicano, emozionati perché sono ammirati e immortalati, così come i sorrisi dai quali traspaiono felicità e orgoglio.

La cultura dello sguardo si direbbe viene fuori mediante la bellezza di queste immagini, come la mia preferita, quella della bambina che orgogliosa guarda verso la macchina fotografica. I suoi occhi sono così puri e profondi da emozionare chi li guarda, un osservatore forse inconsapevole di ciò che lì, in quel luogo così apparentemente lontano dal nostro, avviene quotidianamente.

Yemen, la bellezza avvilita - La Stampa

E poi la cultura della poesia, della volontà di scrivere ciò che si vive, ma soprattutto ciò che si sente. Anche quella viene comunicata nelle pagine di questo libro, così toccante da spingere il lettore ad assaporare con lentezza le pagine che lo compongono.

Immagini e parole che fanno riflettere su ciò che sta accadendo oggi nel “luogo dello spirito”, e proprio su quegli occhi e sui quei sorrisi che, magari, nonostante tutto, stanno continuando a brillare nella speranza di un futuro diverso e migliore.

Maria Pettinato

Falling Star - Daria D. - Libro - Brè - | IBS

I tempi cambiano, i miti crollano.

Hollywood è considerata di certo la città dei sogni e dei successi. Il luogo in cui tutto è possibile, la casa di dive e divi di talento, irraggiungibili e fortunati.

Ma è realmente così?

Dalla lettura di Falling Star. Fotogrammi cinici di Hollywood e altre follie (Brè Edizioni, 2021), pungente romanzo della scrittrice Daria D., pseudonimo di Daria Morelli, sembrerebbe di no. Ad emergere è infatti un mondo diverso da come ce lo immaginiamo quando pensiamo alla patria del cinema.

Billy Wilder ci aveva parlato di un mondo diverso da quello tanto decantato già un bel po’ di anni fa nel capolavoro cinematografico Viale del tramonto, quando l’avvento di una Hollywood nuova e per certi aspetti spogliata della magia delle origini si stava facendo strada intaccando la personalità di attori e attrici che avevano creduto in qualcosa che andava ben oltre il puro e semplice apparire: il talento.

Ora, con un linguaggio differente, ma con un simile messaggio nascosto tra le righe, assistiamo ad una descrizione che va ben oltre l’apparenza.

Protagoniste non sono infatti le tanto decantate stelle di Los Angeles, belle, impenetrabili e per questo dotate di fascino, ma sono figure amareggiate, disperate si direbbe, private del loro successo a causa dei vizi che la fama incontrollabile comporta o della volontà di non cedere alle richieste del grande pubblico.

O sono semplicemente scrittori, registi, attori che vogliono continuare a credere nelle proprie capacità, e soprattutto nei loro sogni e che per questo cadono nell’oblio del tormento interiore.

Personaggi inseriti in brevi racconti, per l’appunto fotogrammi, da Daria che, mediante un linguaggio capace di comunicare tanto proprio perché ricco di semplicità ed ironia, presenta una Hollywood più vera e meno cinematografica, un luogo peraltro ben conosciuto dall’autrice che ha vissuto nella “città degli angeli” per ben dodici anni.

Divertente e amaro quanto basta, Falling Star è quindi la descrizione di ciò che si nasconde dietro alla facciata.

L’immagine della perversione, delle sconfitte, della determinazione, del voler raggiungere il successo nonostante tutto e tutti, ma soprattutto di se stessi, dei valori e dei principi che un tempo, da bambini magari, erano alla base del sogno.

Ecco che quindi Hollywood si presenta per ciò che realmente è: il luogo delle deluse aspettative e delle contraddizioni, il mondo in cui prima o poi la maschera cala e viene fuori ciò che si è veramente.

Maria Pettinato

Il giallista: News: DENTE D'ORO di Daria D. - Bré Edizioni

Daria D., pseudonimo di Daria Morelli, è scrittrice, attrice, modella, regista, sceneggiatrice. Veneta di nascita, laureata al Dams di Bologna si stabilisce a Roma per intraprendere la carriera di attrice. Durante la sua permanenza a Los Angeles è assistant manager alla libreria Rizzoli di Beverly Hills e chauffeur di limousine, esperienze lavorative che la spingeranno a pubblicare nel 2020 la sua antologia di memorie Diario di una chauffeur e altre storie americane per Brè Edizioni. Casa editrice per la quale pubblica nel 2019 il romanzo noir Dente d’oro e nel 2021, oltre a Falling Star, Torneremo ad abbracciarci assieme ad altri autori sul tema della pandemia. Tra le altre mille esperienze come attrice e articolista ha posato come modella per due importanti libri fotografici del regista e sceneggiatore Gian Pietro Calasso: Narcissu’s Eros- L’Eros di Narciso, edito da Mondadori Electa nel 2002, e Los Angeles Now-here Nowhere con prefazione di Ennio Morricone, edito da De Luca Editori d’arte nel 2009.

Malala Yousafzai. Io sono Malala | arte.go.shop

Nella sua autobiografia, Io sono Malala (Garzanti, 2018, corrispondente Christina Lomb), l’attivista pakistana Malala Yousafzai, racconta i primi anni della sua adolescenza vissuta in Pakistan, prima del trasferimento a Londra.

Protagonista è un’adolescente che desidera una vita normale, un sogno calpestato dai conflitti imposti nella Valle di Sevat, luogo in cui abita. Conflitti mai sventrati da parte di una politica incapace di intervenire.

Emerge quindi la vita di una giovane donna che, solo per il fatto di essere tale, viene privata dei diritti fondamentali come quello di istruzione e di libertà.

Una situazione ancor più grave, ma allo stesso tempo necessaria al cambiamento, si presenta però quando Malala viene colpita da un proiettile.

Occasione quest’ultima che le permette di raggiungere con un’ambulanza aerea la città di Londra dove viene curata e salvata.

Ma anche l’occasione che le permette di inviare il suo diario, scritto all’età di undici anni, alla BBC e portare alla luce internazionale una problematica così importante come quella della violenza in Pakistan e di tutte le conseguenze ad essa associate.

Il libro è infatti ricco di informazioni sia di ambito storico-geografico, vista la minuziosa descrizione dei crimini di guerra, dell’esistenza di società segrete e di derivate cospirazioni, sia di ambito sociale, in quanto emerge la visione di una giovane donna piena di sogni in un contesto ingiusto come quello in cui ha vissuto, e in cui donne come lei ancora oggi vivono.

Il fatto che sia un’autobiografia passa inevitabilmente per i pensieri e i sentimenti di Malala, così come ripercorre la sua vita accanto alla sua famiglia, elemento questo corredato di fotografie scattate dalla stessa autrice ai genitori e al fratellino.

Sicuramente la giovane grande donna, protagonista e autrice allo stesso tempo, ha dimostrato un grande coraggio, tanto da essersi avvalsa del Premio Nobel per la pace nel 2014.

Ne viene fuori un libro capace di non stancare mai, non solo per il carattere giovanile che emerge da una scrittura scorrevole e lineare, ma anche per il messaggio lanciato soprattutto alle nuove generazioni: quello di apprezzare le piccole cose, apparentemente scontate, ma così sognate dalla maggior parte del mondo!

Abate Sonia, 1 B Classico

Arriva 'Io sono l'abisso' di Donato Carrisi - Libri - ANSA

Thriller psicologico dalla narrazione pluriprospettica e dalla trama complessa è il nuovo romanzo di Donato Carrisi, Io sono l’abisso, edito da Longanesi Editore nel 2020.

La trama, apparentemente tranquilla all’inizio, si trasforma in una storia travolgente e ricca di suspense.

È il compleanno del figlio di Vera il giorno in cui quest’ultima decide di insegnargli a nuotare. L’euforia del piccolo però scompare quando, assieme alla madre, giunge in una piscina diversa da quella immaginata.

Essa si presenta infatti sporca e viscida anticipando in questo modo il clima inquietante che da lì a poco colpirà il lettore. Vera infatti lascerà in balia del terrore il figlio nella putrida piscina, sperando così nella sua morte.

In realtà essa non avviene in quanto il piccolo abbandonato dalla madre riesce a salvarsi e a diventare un uomo, anzi si direbbe “l’uomo”, il netturbino dalla duplice personalità, colui che, senza nome, di giorno pulisce di vie della città e di notte si trasforma in Mike, l’assassino metodico.

Ma è realmente la malvagità del netturbino a venire fuori o in lui si nasconde un briciolo di umanità che lo trasformerà in una sorta di angelo custode?

Donato Carrisi: su molestie e violenze, indignarsi non è abbastanza - Life  - D.it Repubblica

Il romanzo di Carrisi fornisce numerose incognite durante la lettura, le cui risposte si presentano nella tensione che arricchisce le pagine scorrevoli e coinvolgenti.

L’autore utilizza infatti la tecnica della focalizzazione interna in terza persona, ovvero descrive i fatti prendendo come punto di vista quello di un determinato personaggio ed è così che nel corso della lettura siamo “un assassino” che si riscopre umano, “una ragazzina” costretta a crescere troppo in fretta, “un’ispettrice” bloccata nel passato, “un bambino” sottomesso dalla violenza.

Il tema della violenza e dei suoi aspetti più occulti vengono trattati da Carrisi il quale abbatte stereotipi e analizza un comportamento umano ahimè comune.

Degna di nota è l’analisi della psicologia umana che rende il romanzo ricco di spunti di riflessione e capace di trasmettere al lettore il brivido della tensione che lo rende così emozionante e avvincente.

Ardissone Maria Bianca, 1B Classico

Il treno dei bambini (Einaudi editore, 2019), romanzo di Viola Ardone, ruota attorno a una vicenda storica poco nota del nostro più recente passato: l’invio di migliaia di giovanissime vite al Nord e al Centro Italia, su iniziativa del Partito Comunista italiano, per strapparle alla fame e alla miseria maturate in conseguenza all’ultimo conflitto mondiale.

Protagonista della storia è Amerigo, un bambino napoletano sveglio e vivace, figlio di una ragazza madre, Antonietta, che gli racconta sempre di quel padre non conosciuto partito per l’America in cerca di fortuna e che chissà quando tornerà per strappare entrambi dalla miseria.

La miseria di una quotidianità fatta di bassi chiassosi, sfogliatelle calde divise a metà con l’amico del cuore Tommasino, tra una scorribanda e l’altra, ed il sugo “alla genovese” dei giorni di festa.

Lungo quei binari si compie il destino del bambino, che sale sul treno diretto al Nord, inconsapevole che quel viaggio cambierà per sempre il corso della sua esistenza.

A Modena viene accolto da Derna e dalla sua famiglia, proprio lui che una famiglia vera non l’aveva mai conosciuta. Per la prima volta non deve più “faticare”, ma soltanto andare a scuola e giocare.

Ora può vivere con la spensieratezza che appartiene all’infanzia, lontano dai doveri oppressivi di una realtà in cui si cresce troppo in fretta e dove non si è abbastanza piccoli per non lavorare.

Attraverso una scrittura originale che filtra la realtà attraverso il punto di vista del bambino su cose e persone, l’autrice si lascia andare ad una scrittura ingenuamente pura, innocente e semplice ma intrisa di emozione e di sentimento.

Grazie ad essa abbiamo modo di assistere al percorso interiore di Amerigo, a quei dissidi dell’anima che lo rendono combattuto tra la vita che si sta lasciando alle spalle e quella nuova che il destino gli offre di trasformare in qualcosa più di una semplice possibilità.

A tutti gli effetti quello della Ardone può legittimamente rientrare nel filone del romanzo di formazione: ripercorre infatti l’infanzia e poi la maturità del protagonista, sempre in viaggio sui binari che la vita gli offrirà di percorre durante la sua ineluttabile corsa.

Segue la sua dimensione emotiva, giustifica e legittima il maturare di certe scelte.

Solo lui potrà decidere quali treni aspettare e su quali binari, divenendo in questo modo l’uomo che sarà, mai immemore delle proprie radici e di quel cappotto lanciato dal finestrino verso la madre nell’inverno del 1946.

Quel bambino senza cappotto con le scarpe troppo piccole lo porterà per sempre con sé, nell’intimità più profonda del suo Io.

Francesca Mazzino

Viola Ardone (Napoli 1974) è laureata in Lettere e ha lavorato per alcuni anni nell’editoria. Autrice di varie pubblicazioni, insegna latino e italiano nei licei. Fra i suoi romanzi, oltre a Il treno dei bambini, ricordiamo: La ricetta del cuore in subbuglio (2013) e Una rivoluzione sentimentale (2016) entrambi editi da Salani.

Vitale, estrosa, alternativa. Qualità decisamente associabili a una delle icone artistiche più importanti a livello mondiale, Frida Kahlo.

Tutte vere certo, ma c’è solo questo? In realtà no e questo emerge dalla lettura de Il diario perduto di Frida Kahlo, romanzo d’esordio della scrittrice e psicologa messicana Alexandra Scheiman edito da Bur Rizzoli Narrativa.

Il diario racconta la storia della pittrice messicana nella sua essenza e si direbbe nella sua tristezza, dall’infanzia con tanto di diagnosi di poliomielite, al drammatico incidente all’età di diciotto anni, dall’amore passionale con Diego Rivera, al suo intenso legame con l’arte.

Ne viene fuori una prospettiva diversa sotto tanti aspetti, potrebbe dirsi nuova.

La protagonista della biografia infatti non è “Frida la pittrice”, vero mito artistico, ma è una donna debole nella sua forza. Un personaggio differente, decisamente reale, con le sue sofferenze e la sua determinazione.

Una descrizione mai banale non solo per l’oggettiva drammaticità degli eventi, si direbbe mai noiosi, che hanno accompagnato la vita della Kahlo, ma anche perché a renderla unica è la tematica mistica che la caratterizza.

Visioni, sensazioni, energie diverse prendono forma all’interno del testo. Si materializzano nell’immagine di un Messaggero dal cavallo bianco, portavoce della Morte, o in quella della donna-velata, più volte presente nella vita della pittrice.

Momenti dai quali emerge una Frida contemplativa, spirituale, legati a un contesto più ampio, qual è il legame secolare Morte-Messico.

Ed ecco che Frida, pur presentandosi spesso accompagnata da figure importanti da un punto di vista politico oltre che artistico, dimostra ne Il diario perduto di essere prima del personaggio, dell’icona, del mito irraggiungibile, semplicemente una donna che Ama.

Non è più dunque estrosità l’aggettivo primario, ma Sacrificio è il termine che più le si addice. Metaforicamente esso è legato al patto che Frida stipula con la Morte, quello di sopportare il dolore in cambio della felicità dei suoi cari o di un istante in più di vita terrena.

E poi viene l’arte, intesa come la liberazione, la gioia colorata nella sua vita grigia.

L’arte che è capace di esprimere con le sue tonalità i colori dei frutti, il profumo del cibo, il sapore delle sue ricette culinarie, protagoniste indiscusse alla fine di ogni capitolo del diario. Ma allo stesso tempo il tentativo di manifestare ciò che lei, diva incontestata, sentiva dentro.

Maria Pettinato

Mors tua vita mea!

Bologna oggi. Dante ed Elena sono una coppia di giovani innamorati nel pieno della loro infelicità sociale. Svolgono una vita come tante altre, alienata e integrata nel sistema malsano in cui si trovano.

Lui vive alla giornata, per lo più fatto ed ubriaco, in attesa dell’ispirazione per scrivere il suo romanzo, lei lavora tutto il giorno come dama di compagnia presso la signora Scalpini, un’anziana arrogante e molto ricca.

E fino a qui Dante e la tartaruga, romanzo d’esordio di Vincenzo Spinelli, edito da Il Seme Bianco (2019), presenta una trama apparentemente “normale”, caratterizzata da personaggi mediocri, come tanti altri, immersi nelle proprie vite senza un futuro florido.

Ma le cose cominciano a cambiare forma quando viene fuori da parte dei due una sorta di insolubrità, una malvagità latente che prende piede quando decidono di comune accordo di compiere un omicidio avvelenando la signora Scalpini e di fuggire con l’eredità di quest’ultima.

Ad emergere è la psicologia dei protagonisti di questa storia più che la trama in sé. È la capacità perversa di studiare nel dettaglio il disegno che li porterà al raggiungimento (facile) dei propri obiettivi: rilevare la libreria Shakespeare and Company di Parigi e vivere nella tranquillità di coppia.

E soprattutto, in questo senso, a venir fuori con maggiore forza è il mutamento psicologico di Elena la quale, se inizialmente sembrava una figura succube del compagno, e a dir poco sfruttata da lui, nel corso del romanzo si trasforma a mio parere nella più malvagia.

Malvagità presente nel tentativo di persuadere il notaio o anche semplicemente nel lasciare sperare con grinta e consapevolezza che l’assassinio si compierà nonostante le cose sembrano a un certo punto avere poca speranza.

E se lei può definirsi l’artefice fisica dell’omicidio, vedi per il dialogo con il notaio, vedi per l’avvelenamento stesso, Dante altro non è che il mandante razionale dell’intero piano, è colui che lo studia e che incarica terzi.

Un modo per venirne fuori con maggiore facilità nel caso in cui le cose si sarebbero messe male? O semplicemente perché è lui in realtà il vero assassino in qualità di regista?

Non è facile rispondere a questi interrogativi, ma emerge comunque la sua prontezza intellettuale, anche solo nei dialoghi che lui svolge quotidianamente con figure importanti a livello storico, ad esempio Socrate o Giulio Cesare per citarne alcuni.

Personalità che lo spingono a studiare il piano accompagnandolo intellettualmente nella progettualità dello stesso.

Dante e la tartaruga può definirsi dunque un thriller psicologico caratterizzato da una struttura surreale, in cui realtà e finzione vanno di pari passo, in cui il sogno e la ragione diventano una cosa sola.

Ed ecco che leggendolo tornano alla mente i romanzi surrealisti di Antonin Artuad o le pellicole cinematografiche di Robert Wiene, in cui spiccava la stessa semplicità di comunicare e progettare situazioni che in realtà con la semplicità hanno ben poco in comune.

Emerge senza dubbio una cura discorsiva nelle parti in terza persona presenti all’interno del romanzo, ma allo stesso tempo una bonarietà onirica e visionaria che lo rende discorsivo e appagante.

Discorso simile anche per le parti scritte in prima persona da Dante in cui viene fuori un’asprità di fondo, la quale potrebbe essere interpretata come rabbia repressa da parte di un individuo infelice della propria esistenza e colpito da tale sentimento fin da bambino per l’incapacità personale e/o causata da altri soggetti, di trasformare il sogno nella realtà.

Un romanzo da leggere, coinvolgente quanto basta, anche quando la malvagità vince sulla volontà di raggiungere i progetti tanto ambiti da Dante, la pubblicazione del romanzo e l’apertura della libreria.

O forse no? A voi l’interpretazione!

Maria Pettinato

Vincenzo Spinelli nasce a Como nel 1985, corriere di giorno e scrittore di notte, amante della letteratura surrealista, satirica, dell’assurdo, nel 2016, al Salone Internazionale del libro di Torino, nell’ambito del concorso 88.88 indetto dall’associazione culturale YOWRAS, riceva una menzione per il racconto In bilico vacillo su un mio capello perso sul cuscino. Da lì ha iniziato a scrivere.

Con Il colibrì Sandro Veronesi si è aggiudicato quest’anno (meritatamente) il prestigioso Premio Strega, bissando la vittoria già ottenuta nel 2006 con lo struggente Caos calmo.

Protagonista del romanzo è Marco Carrera, il colibrì del titolo, un uomo che da sempre ha impiegato tutte le sue energie per rimanere risolutamente e stoicamente fermo, ancorato a un’immobilità rassicurante mentre il mondo intorno a lui cambiava inesorabilmente, preda di un vortice di dolore e instabilità emotiva.

Eroe della normalità ma anche oggetto di coincidenze fatali apparentemente inspiegabili, Marco si pone al centro di una struttura narrativa caratterizzata da una solida architettura, dalla quale affiorano una serie di personaggi dalla raffinata fisionomia psicologica.

Fondamentale è il complesso rapporto di amore e affezione instaurato con l’universo femminile. Ne sono un esempio la sorella Irene, verso cui prova affetto ma anche una consapevole amarezza per non averla mai conosciuta
veramente, la moglie Marina, amata in un primo momento e poi odiata e Luisa, che incarna l’ideale perfetto, la donna di una vita, con la quale si lega in un rapporto platonico fatto di perpetui allontanamenti e riavvicinamenti.

L’unico amore vero e puro, stabile e perdurante, è quello per la figlia Adele, un legame che persiste e si rafforza negli anni andando ben oltre la dimensione padre-figlia.

Lo stile della narrazione è fluido e scorrevole, copre un arco temporale che va dai primi anni Settanta ad un ipotetico futuro prossimo ed è ravvivato dai continui salti temporali che caratterizzano i capitoli, che si succedono tra le lettere d’amore scambiate con Luisa, gli elenchi degli oggetti della casa genitoriale redatti per il fratello Giacomo, le telefonate scambiate con lo psicanalista della moglie.

Resilienza è il carattere che contraddistingue sopra tutti la vita del dottor Marco Carrera e il suo atteggiamento verso i dolori e le perdite della vita (particolarmente toccante è la descrizione della malattia e dipartita dei genitori, che assiste con la professionalità di un medico quale è e con sincera devozione filiale).

È un uomo che resiste, non si piega alle sventure seminate dal destino lungo il proprio cammino, impegnato nel suo sforzo d’immobilità esattamente come il colibrì.

(…) tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro.

L’unica parte del romanzo che ha suscitato in me qualche perplessità e delusione è l’epilogo, ambientato in un futuro prossimo, dal quale si erge la figura dell’uomo nuovo, incarnata da Miraijin, nipote di Marco e frutto della sua resilienza.

Al di là del valore simbolico di questo finale, (l’autore vuole sottolineare come la vita del protagonista avesse come scopo precipuo allevare questo individuo fuori dal comune), la narrazione qui cede il posto ad un’improvvisa lentezza, dando anche modo di far trovare spazio anche ad una tematica importante come l’eutanasia.

Si tratta di un libro nel suo complesso bello, importante, denso di significato e di vita soprattutto, in grado d’inoltrarci nelle pieghe più nascoste e inavvicinabili di un animo umano, comune ma straordinario proprio per questo.

Francesca Mazzino

Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960, in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan”

da Middlesex di Jeffrey Eugenides

Questo è l’incipit di Middlesex, romanzo dello scrittore statunitense Jeffrey Eugenides, pubblicato nel 2002 e vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2003.

Protagonista (nonché voce narrante) è Calliope Stephanides, un raro caso di ermafrodito che nasce e vive come ragazza e soltanto dopo un lungo e travagliato percorso interiore rinasce ad una nuova vita come Cal.

Dalla lettura emergono sempre più nitidi i turbamenti e le frustrazioni di Callie, consapevole fin da piccola di essere unica, diversa dalle proprie coetanee e per questo relegata ad una condizione di solitudine e marginalità.

L’interiorità della ragazza è indagata con acume e finezza psicologica; dettagliata è la descrizione della sua iniziazione sessuale a quattordici anni con una coetanea e quella del suo corpo che non si decide a farla sbocciare come donna, ma assume sembianze gradualmente sempre più mascoline.

Il gene impazzito nel suo DNA, responsabile di questa singolare condizione, viene interpretato come espiazione di una colpa primordiale che pende sulla sua famiglia, della quale è lei stessa a raccontarci la storia.

È così che l’autore riesce abilmente a coniugare il romanzo di formazione alla saga familiare: attraverso Calliope veniamo a conoscenza della storia degli Stephanides, il cui nucleo originario ritroviamo ad inizio ‘900 a Bitinio, un villaggio greco della Turchia.

Qui i fratelli Eleutherios (Lefty) e Desdemona, dopo un devastante incendio, decidono di migrare alla volta di più fortunati lidi.

Innamorati l’uno dell’altra, si sposano sulla nave che li conduce negli Stati Uniti, convinti di poter seppellire tra le onde del mare il segreto che li unisce e di poter vivere senza problemi nel nuovo continente la loro singolare condizione di sposi-fratelli.

Da questa unione incestuosa nascono due figli, Milton (padre di Callie) e Zoe. Ma la maternità è vissuta da Desdemona come una condizione di cui vergognarsi, un’onta terribile, esattamente come il sesso condiviso con il fratello-marito.

Teme che la punizione per questa unione “sbagliata” investirà le generazioni future, esattamente come lo schema di una tragedia greca. La donna emerge sicuramente in quanto uno dei personaggi più riusciti dell’opera, drammatica ma con tratti ironici e di comicità straordinari, come quando suole appoggiare un cucchiaio sulle pance delle donne in attesa per predire il sesso dei nascituri.

Ironia e drammaticità si ritrovano diligentemente coniugate dallo scrittore nell’intero universo dei personaggi, a tratti pittoreschi, che come un mosaico popolano le pagine del romanzo.

Tutti contribuiscono a restituire un’umanità eterogenea, il cui comune denominatore è la ricerca di una condizione di felicità e benessere individuale da vivere su questa Terra, ora e subito, a qualunque costo e al di là di qualunque barriera reale e mentale.

La rottura e lo scardinamento di ogni convenzione sociale e morale hanno la propria esemplificazione massima in Calliope: incapace di sottostare alla Medicina (che ne vorrebbe fare una cavia per studiarla) e ai genitori (che la vorrebbero ragazza per sempre, cancellando la parte maschile che coabita in lei), scappa da tutti e facendo l’autostop attraversa il suo Paese fino ad approdare in California.

L’esperienza variegata del viaggio la costringe a guardarsi dentro, ad ascoltare se stessa, inducendola, anche dopo la riconciliazione con i genitori ed il ritorno a casa, a diventare per sempre Cal.

Con questo (riuscitissimo) romanzo Jeffrey Eugenides affronta, attraverso la parabola di Callie/Cal, un tema attuale ed importante come la disforia di genere, trattandolo con una sensibilità estranea al pregiudizio ed evidenziando allo stesso tempo la volontà di essere artefici di se stessi, del proprio destino e del proprio corpo, in una società che ci relega sempre più in ruoli e categorie prestabilite.

Francesca Mazzino

In queste giornate particolari, in cui il coronavirus ha sconvolto le nostre esistenze e abitudini, catapultandoci in una realtà dai toni quasi surreali, trovo significativa e consigliata la lettura di Cecità, oggetto di spunti e riflessioni interessanti.

Pubblicato nel 1995 con il titolo originale Ensaio sobre a Cegueira (Saggio sulla cecità), l’opera è valsa il premio Nobel allo scrittore portoghese Josè Saramago (1922-2010).

In uno scenario distopico e ai limiti dell’irrealtà, una città senza nome, pullulante di personaggi altrettanto anonimi, è colpita da una singolare epidemia: gradualmente tutti gli abitanti si accorgono di diventare ciechi o meglio, di ritrovarsi avvolti in una nebbia lattiginosa che impedisce il normale prosieguo della propria quotidianità.

Il libro si apre con un automobilista fermo al semaforo: è lui la prima vittima di questa strana malattia, (successivamente verrà chiamato “il primo cieco”) che fa vedere tutto bianco anziché il buio assoluto.

Tornato a casa con l’aiuto di un altro uomo racconta l’accaduto alla moglie ed insieme decidono di recarsi da un oculista, nello studio del quale troveranno altri “contaminati” e futuri personaggi del libro: un “vecchio con la benda nera” su un occhio, una “ragazza dagli occhiali scuri” e una donna in compagnia di un “ragazzino strabico”.

Il medico non ha alcuna spiegazione scientifica da fornire dinnanzi a quella che sta prendendo le proporzioni di una vera e propria pandemia, capace di coinvolgere ogni individuo appartenente a quel particolare tessuto urbano tranne “la moglie del medico”, l’unica alla quale inspiegabilmente il Caso preserverà la vista.

A questo punto l’inquietudine ed il senso di angoscia si fanno incalzanti, soprattutto quando il governo decide di mettere gli ammalati in isolamento forzato in alcuni edifici per evitare il contagio, garantendo rifornimenti di cibo operati dall’esercito.

Proprio in questa situazione claustrofobica, di forzata convivenza con l’estraneo ed incertezza circa quanto potrà accadere, emergono gli istinti più bestiali e primordiali dell’uomo, disposto a tutto pur di sopravvivere, anche a danno dei suoi stessi simili.

Straordinario è il modo in cui l’autore riesce a descrivere l’efferatezza e la degradazione morale dei cosiddetti “ciechi malvagi”, colpevoli di creare, con modalità dittatoriali, una sorta di governo oligarchico all’interno dell’edificio, sottraendo il cibo agli altri individui e compiendo atti di prepotenza culminanti con stupri di gruppo.

Sovvertiti i normali schemi alla base della convivenza civile, in un clima di piena anarchia e amoralità, ogni singolo istante si riduce ad una mera lotta per la sopravvivenza personale e la sopraffazione sul più debole, esplicitata al meglio da una scrittura che scorre e travolge il lettore come un fiume in piena, priva delle regole della punteggiatura tradizionale.

Saramago vuole evidenziare come queste inclinazioni primitive siano assopite in ogni essere pensante e che situazioni di particolare pericolo possano risvegliarle in qualunque frangente.

La Cecità è solo il culmine di una situazione antropologica negativa, a monte della quale l’autore evidenzia l’indifferenza per il prossimo, comune denominatore delle nostre odierne città, in cui siamo sempre più monadi solitarie e sempre meno membri di una collettività, alieni ai diritti e i doveri che questa condizione comporta.

«Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che, pur vedendo, non vedono», parole queste, pronunciate nel libro dalla “moglie del medico”, che esprimono perfettamente il punto di vista dell’autore, il quale rimarcherà questa mancanza di solidarietà ed empatia verso il prossimo anche durante il discorso per la premiazione al Nobel.

Solitudine, egoismo, incapacità di vedere al di là del proprio orizzonte, chiusura mentale: sono soltanto alcuni dei temi affrontati in questo straordinario romanzo, in grado di scuoterci riga dopo riga e d’interrogarci su quante volte anche noi, consapevolmente o meno, siamo stati ciechi.

Francesca Mazzino