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Paterson - Film (2016) - MYmovies.it

Paterson è il dodicesimo lungometraggio diretto nel 2016 dal noto cineasta indipendente Jim Jarmusch.

Il film offre allo spettatore la rappresentazione di una settimana nella vita di Paterson (Adam Driver), un conducente di pullman che si diletta a scrivere poesie e vive in New Jersey, assieme alla moglie Laura e al cane Marvin.

Come è noto a chi conosce il suo stile, Jarmusch privilegia la rappresentazione di individui ai margini della società, alienati da una routine perennemente uguale a se stessa. In questo, Paterson si rivela esemplare.

Il lungometraggio mette in scena una quotidianità monotona, volutamente piatta, e la regia stessa sottolinea gli aspetti che rendono le giornate uguali tra loro. Da questo punto di vista, il film rifugge esplicitamente i concetti cardine della sceneggiatura: in Paterson non ci sono antagonisti, non c’è un obiettivo definito; c’è solo un protagonista che vive la sua normalità.

È lecito affermare, in effetti, che per quasi tutto il film, ad eccezione del finale, non succeda nulla che scuota la narrazione.

Agli occhi dello spettatore, l’unica nota stonata che turba l’equilibrio di Paterson è la moglie Laura (Golshifteh Farahani). Con lo scorrere dei minuti del film, la figura femminile appare lievemente enigmatica agli occhi di chi guarda.

Il personaggio sembra scritto appositamente per risultare fastidioso: pare non apprezzare gli sforzi del marito, che invece la idolatra, e tende a dimostrarsi superficiale se non addirittura lievemente egoista. La stessa resa visiva sembra corroborare questa sensazione: gli onnipresenti motivi in bianco e nero che accompagnano Laura, i suoi vestiti e gli ambienti in cui si muove, se ad una prima occhiata paiono curiosi non tardano però a risultare ridondanti, quasi stucchevoli.

Essa troverà comunque modo di redimersi sul finale del film, a seguito del trauma che scuote il quotidiano del protagonista. La donna, di fronte all’inconveniente, apparirà tutto d’un colpo fragile, tenera e premurosa, permettendo allo spettatore di trovare una giustificazione alla visione che il marito ha di lei.

La critica ha elogiato il film, arrivando a definirlo “un mite e sorprendente lavoro anti-drammatico per i fan del cinema indipendente” (Todd McCarthy, The Hollywood Reporter).

Il progetto è stato a lungo presente nei meandri della mente di Jarmusch, regista e sceneggiatore, che definì le prime bozze della trama addirittura vent’anni fa. Per realizzarlo al meglio, ha deciso di affiancarsi al suo poeta contemporaneo preferito, Ron Padgett.

Quest’ultimo ha composto tutte le liriche che nel film sono attribuite al protagonista. Lo stesso Jarmusch ha però voluto dare il suo apporto alla componente poetica, scrivendo i versi che nel film risultano pensati da una precocissima bambina che Paterson incontra per caso.

In Paterson, il regista gioca anche con la tendenza cinematografica per cui ad un elemento narrativo vengono conferite sfumature di significato simboliche. Esemplare in questo senso risulta il leitmotiv dei gemelli: da quando Laura dice di aver sognato di partorirli, il marito inizia a vederne ovunque.

Questo elemento narrativo è stato inserito direttamente in fase di riprese, quando il regista ha notato che gli attori più piccoli venivano sostituiti, come spesso accade, da fratelli identici. A detta dello stesso Jarmusch, tuttavia, questo topos è privo di significato ulteriore (“anti-significant”).

Lo spettatore potrebbe interrogarsi su eventuali implicazioni narrative (un parto di Laura, altri eventi degni di nota), senza rendersi conto che si tratta di un elemento volutamente privo di significato, che rende il film nella sua totalità ancor più straniante.

Dopo le sue collaborazioni con Baumbach, Spielberg, e i fratelli Coen, l’ormai affermato Driver sin dagli albori della produzione non ha nascosto l’entusiasmo che provava nel lavorare con un caposaldo del cinema contemporaneo quale è Jim Jarmusch.

I più ironici credono che la scelta del protagonista fosse scritta nel destino, data la curiosa coincidenza tra il cognome dell’attore (Driver, in inglese autista) e la natura del ruolo, un conducente di bus. Ma pare addirittura che, per rendersi il candidato più idoneo al ruolo del protagonista, Driver abbia autonomamente deciso di prendere la patente per la guida di autobus, prima che gli fosse richiesto esplicitamente.

In questo modo, l’attore sperava di automatizzare l’aspetto pratico del suo ruolo per potersi concentrare sull’interpretazione al momento delle riprese. Non meno importante, Driver aveva giustamente immaginato che riuscire a guidare realmente gli ingombranti mezzi avrebbe consentito al regista la possibilità di ricorrere a più inquadrature, potendo lavorare con più libertà.

L’acclamato attore interpreta magistralmente il ruolo che gli è affidato. Il suo personaggio risulta a tratti annoiato, teneramente ingenuo.

La componente di fragile semplicità che Driver riesce a incanalare in Paterson lo rende incredibilmente realistico, quasi commovente nella sua purezza. Ciò che colpisce del protagonista è il suo modo di fare, sempre pacato e riflessivo, mai esuberante o eccessivo. Anche nel momento di peggior crisi, di maggior sconforto, non si lascia accecare dall’ira o da manifestazioni plateali di disperazione.

Silenzioso, Paterson cade in un pacato sconforto, comunque carico di intensità e malessere. Tutto ciò che riesce a dire a proposito delle sue poesie, forse perdute per sempre, è un elegante ma disilluso «they where only words written on water», forse citando il celebre epitaffio del poeta inglese John Keats (“Here lies One whose Name was writ in Water”).

La performance di Driver, particolarmente apprezzata, gli ha permesso negli anni successivi di collaborare con altri mostri sacri del cinema contemporaneo tra cui Scorsese (Silence, 2016), Soderbergh (La truffa dei Logan, 2017) e Lee (BlaKkKansman, 2018), fino ad arrivare alla nomination all’Oscar per miglior attore (non protagonista nel 2019 per il film di Spike Lee e protagonista nel 2020 per Storia di un matrimonio di Baumbach).

La narrazione di Paterson si sviluppa dunque attorno a un quotidiano semplice e ciclico, ad una circolarità monotona.

Per questa ragione, un evento perturbatore come quello del finale, che normalmente non sarebbe abbastanza forte da stravolgere l’andamento della storia, assume in questo caso connotazioni drammatiche e riverberi disastrosi.

Gli ultimi minuti del film, però, aprono ad un messaggio di speranza, illustrando come talvolta sia necessario fare un passo indietro per trovare nuove fonti di ispirazione. In questa chiusura molti critici hanno visto una forte dichiarazione da parte dello stesso Jarmusch, che dopo anni di esperienza continua a sorprendere il suo pubblico innovandosi ma rimanendo fedele alla sua concezione artistica.

In effetti, solo una mente creativa così solida ma al contempo propositiva poteva offrire al pubblico un’opera come Paterson, che sfidando qualsiasi convenzione narrativa riesce comunque a colpire dritto nell’animo dello spettatore.

Eleonora Noto

The Five Coolest Scenes From the Harry Potter Movies That Weren't In the  Books - Willamette Week

Nicholas Edward Cave, in arte Nick Cave, è un compositore australiano e autore, durante un periodo mesto e malinconico della sua vita, di O Children (2004).

Fondatore assieme a Mick Harvey della band Concrete Vulture e rinominata in seguito Boys Next Door, pubblica il suo primo brano di successo Door Door raggiungendo la fama a livello internazionale.

Un successo che ahimè si trasforma in un giudizio a dir poco critico quando trasferitosi a Londra con la band ormai nominata The Birthday Party diventa noto per l’esuberanza animalesca sul palco e per i concerti rissosi, dovuti perlopiù all’abuso di alcool e di droga. Situazione che porta la band a sciogliersi nel 1983.

“The cleaners are coming, one by one” ossia I pulitori stanno arrivando uno a uno dice O Children, il brano che parla della deportazione nazista nei campi di concentramento dal momento iniziale, quello del viaggio sul treno della morte.

Il significato della canzone è molto profondo: il testo sembra infatti una sorta di discorso fatto dagli adulti ai bambini, prima del viaggio verso il campo di lavoro, un viaggio senza ritorno, un viaggio verso la morte.

A colpire, oltre alle parole del testo, è il ritmo malinconico di questo brano musicale, dal quale emergono le difficoltà e le paure, ma allo stesso tempo la voglia di reagire, di viver.

Il messaggio è infatti l’amore che trionfa nonostante tutto e la speranza di una vita ricca di gioia e di serenità.

Nick Cave, in arrivo un'autobiografia illustrata e una mostra :: News ::  OndaRock

Nel discorso ai bambini, gli adulti a tratti nascondono loro la verità, descrivendo il viaggio come una gita verso un regno, a tratti invece chiedono scusa, sia per i momenti e le liti in famiglia, sia per il futuro che aspetta ai propri figli e nipoti, un futuro incerto e pieno di sofferenze.

Matt Biffa, supervisore musicale di Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1, ha spiegato in un’intervista di aver scelto questo brano come colonna sonora del film perché si identificava con i suoi testi a livello personale, poiché si stava separando dalla moglie in quel momento ed era preoccupato come questa situazione avrebbe influenzato i loro due figli piccoli:

«C’era qualcosa di veramente edificante in O Children , con frasi come rallegrati / alza la tua voce e tutte quelle cose. Stavo pensando ai miei figli. I testi dicono Perdonaci per quello che abbiamo fatto».

Un brano malinconico e capace di far riflettere, ancor più famoso e celebre tra le nuove generazioni per la scena del ballo tra Harry e Hermione nel film Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1, rimasta alla memoria del pubblico come momento cult dell’intera pellicola.

Muca Gloria, Ricca Lorenzo Linceo, Lanteri Matilde, 1 A Classico


Amour", Storia d'Amore e Distruzione - RECENSIONE (M. Haneke, 2012)

Esiste una poesia molto celebre nel patrimonio lirico italiano: scritta per mano di Eugenio Montale, esordisce con un intenso e pregnante “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino”.

L’abbiamo sentita sin da bambini, quando ci veniva proposta con l’aura che possono vantare solo i beni più preziosi, elogiata dagli insegnanti e citata dagli adulti.

Abbiamo finito, probabilmente, per evocarla rapidamente studiandola alle scuole superiori, recitando i primi due versi con l’intonazione di un’infantile filastrocca, una nenia svuotata di significato.

L’abbiamo letta, parafrasata, studiata, talvolta anche un po’ odiata, abbiamo continuato a intonarne solo l’inizio come una cantilena, ma probabilmente non l’abbiamo mai veramente compresa.

Poi, però, è arrivato Amour (2012).

La regia di Michael Haneke, priva di orpelli sentimentalisti ma sempre molto bruscamente reale, ci trasporta nella vita di un’anziana coppia legata indissolubilmente.

Per la prima volta, negli sguardi che Georges (Jean-Louis Trintignant) riserva ad Anne (Emmanuelle Riva), percepiamo il tono che giaceva sotto alle parole usate da Montale in seguito alla scomparsa della moglie: entrambi portano, ognuno a modo proprio, il fardello del vedere l’amata di una vita dissolversi di fronte a sé.

Sentendo Anne spegnersi lentamente al suo fianco, Georges lotta instancabilmente affondando però al contempo nella più cupa delle disperazioni, poiché sa che (come per Montale) tra di loro “le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate” erano quelle della moglie.

Era lei a stimolarlo, ad aprirgli la porta verso mondi di arte e creatività, e quando lei non può più farlo Georges si trova smarrito.

L’uso della macchina da presa, da questo punto di vista, rende il turbamento di Georges ben visibile.

Le lunghissime inquadrature, che lasciano ben poco spazio al montaggio, creano un senso di staticità che appartiene allo stesso protagonista. Ora che la donna che ha sempre avuto al suo fianco si sta affievolendo, Georges è immobile, inerte fra le quattro mura della sua elegante casa.

Non a caso, la scelta di ambientare (dal momento in cui la vita di Anne si stravolge) l’intero film negli interni dell’abitazione sottolinea l’angoscia e l’oppressione dell’anziano marito. Da quando Anne perde se stessa, anche Georges si smarrisce, riducendosi all’immobilità e rinunciando al mondo esterno.

Il regista, Haneke, prima di girare questa pellicola era già noto al pubblico per lungometraggi quali Funny games (sia nella prima versione del 1997 che nel remake del 2007 ad opera dello stesso) o per il più recente ma altrettanto acclamato Il nastro bianco (2009).

L’attrice principale di questo film, Emmauelle Riva, già icona della Nouvelle Vague per il suo lavoro in Hiroshima mon amour (Resnais, 1959), unisce magistralmente eleganza e fragilità in questa interpretazione, la penultima della sua carriera.

Per stessa ammissione di Haneke, però, il film è stato scritto appositamente per Trintignant, l’interprete maschile principale. L’attore, che aveva già lasciato il cinema da nove anni per dedicarsi al teatro, torna sul set proprio per l’ammirazione nutrita nei confronti del regista.

Sarà proprio l’interprete a suggerire ad Haneke il titolo per il film, che verrà selezionato al posto degli altri pensati dal regista (la scelta altrimenti sarebbe stata ridotta ad un didascalico These two o a un più metaforico Music stops).

L’unica indicazione che Haneke ha fornito ai suoi attori, girando questo film, è stata quella di evitare sentimentalismi.

In questo modo, come risulta evidente allo spettatore, la narrazione e l’interpretazione rifuggono il patetismo, contribuendo a creare quell’atmosfera di cruda realtà mista a disperata fragilità che rende il film così degno di nota.

Eleonora Noto

TROY in televisione: recensione del film con Brad Pitt | MaSeDomani

Troy, diretto da Wolfgang Petersen, è un film epico/drammatico uscito nelle sale cinematografiche il 9 maggio 2004.

Un film ambientato in un’epoca antica, leggendaria e affascinante e che per questo ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica confermato dai molti premi vinti tra cui il premio Oscar ai migliori costumi e l’MTV MOVIE AWARD al miglior combattimento e alla migliore performance (2005) per citarne alcuni.

L’opera di Omero, l‘Iliade, narra gli ultimi cinquantuno giorni della decennale Guerra di Troia, ed è da questa che David Benioff, sceneggiatore del film, si ispira per la realizzazione di Troy.

Il film narra infatti la famosa guerra svolta tra i Greci e i Troiani causata, secondo la mitologia omerica, dal rapimento di Elena da parte di Paride.

Il protagonista Achille, interpretato dal pluripremiato Brad Pitt, è l‘incarnazione della perfezione come dimostrano le caratteristiche che lo rendono così esemplare: bello, possente, audace e valoroso.

Ad emergere le due personalità contrastanti dei due fratelli: Ettore e Paride.

Troy - Film (2004)

Simbolo di forza e di coraggio il primo (Eric Bana), emblema di codardia il secondo (Orlando Bloom), come dimostra la sua fuga da Menelao, che nel poema di Omero spinge la dea Afrodite ad intervenire e a nasconderlo sulla torre di Troia.

Questo però non avviene nel film di Benioff il quale, volutamente, ha eliminato dalla trama l’elemento soprannaturale.

Manca infatti nel film la presenza di divinità, così come non è presente la morte epica di Achille: essa non avviene colpendo il tallone, ma la sua uccisione è totalmente “umana”.

Troy: recensione di una grande occasione persa - Cinematographe.it

Attraverso inquadrature di calibro elevato e ricche di effetti speciali Troy è riuscito nel suo intento, offrendosi come un vero e proprio capolavoro cinematografico.

Un film da riguardare perché coinvolgente e capace di suscitare emozioni, soprattutto nelle scene salienti ed iconiche, ma soprattutto un film riuscito nel tentativo di comunicare l’epica in modo originale ad un pubblico moderno.

Casano Giovanni Maria, 1 B Classico

Poster A un Metro da Te

Il film A un metro da te, prodotto e diretto da Justin Baldoni nel 2019, è dedicato alla youtuber e attivista Claire Wineland, morta di fibrosi cistica, malattia genetica degli apparati respiratorio e digerente, intorno alla quale ruota l’intera trama.

Affetta da questa malattia è la protagonista Stella Grant (Haley Lu Richardson), ragazza forte, capace di vivere la sua malattia con spensieratezza, cogliendo ogni lato positivo della vita e cercando così di mantenere il sorriso in ogni situazione.

Ed è in ospedale, il luogo in cui passa la maggior parte del suo tempo, che conosce Will Newman (Cole Sprouse), ricoverato anche lui per la stessa problematica.

Tra i due nasce quasi da subito un fortissimo legame, che poi diventerà d’amore, anche se sono costretti a viversi a un metro di distanza l’uno dall’altra per evitare il rischio di infezioni batteriche.

Ne viene fuori un film toccante e commovente, capace di trattare un tema piuttosto profondo visto dagli occhi di un’adolescente come tante, ma che non può vivere come le altre.

Nonostante il tema possa risultare pesante, è interessante come esso sia alleggerito dal sentimento dell’amore che supera qualsiasi barriera e abbatte ogni ostacolo.

Un tema attuale si direbbe, in quanto le distanze fanno parte della nostra quotidianità a causa del covid-19 da ormai un anno.

Assolutamente consigliata è la visione di un film in grado di suscitare nello spettatore una profonda riflessione non solo sulla situazione delle persone che convivono con questa malattia, ma anche e soprattutto sull’importanza delle piccole cose quotidiane, che vanno apprezzate sempre e comunque.

Camilla Riva, 1 B Classico

The Breakfast Club (1985) - IMDb

The Breakfast Club è una commedia drammatica diretta dal regista John Hughes, produttore tra i tanti, di film popolari come Sixteen Caudles, Pretty Pink e Day Off.

Girato negli Stati Uniti del 1985 e ambientato in un quartiere immaginario di Chicago (già presente in altri film di Hughes), parla di cinque ragazzi: Claire, Andy, John, Brian e Allison.

Molto diversi tra loro si ritrovano tutti in punizione un sabato pomeriggio con il compito di scrivere un tema affidato loro dal preside Vermon, la cui traccia è la seguente: “chi sono io?”.

Ed è così che gli adolescenti si scoprono per quello che sono, con i propri pregi e difetti e i propri problemi.

Ad emergere sono infatti le vere personalità dei protagonisti:

Breakfast Club (film) - Wikipedia

da Claire (Molly Ringwald), la classica “principessina” invidiata e apparentemente superficiale, che in realtà nasconde dietro alla sua corazza una grande sofferenza per il divorzio dei genitori a Allison (Ally Sheedy), la ragazza eccentrica e sola, emarginata dai suoi compagni e dalla sua famiglia.

E poi ci sono Andy (Emilio Estevez), l’atleta più dotato dalla scuola, sofferente perché pressato dal padre e Brian (Anthony Michael Hall), anche lui sempre sull’attenti, sempre perfetto, tanto da tentare il suicidio per le continue sollecitazioni e infine John (Judd Nelson), il classico cattivo ragazzo, vittima della violenza del padre.

Un gruppo di giovani diversi tra loro, ma che si scopre unito da una profonda amicizia e da una sintonia quasi fraterna.

Ne viene fuori una commedia – a tratti drammatica – piacevole, e allo stesso tempo ricca di spunti di riflessione.

15 Most Memorable Quotes From The Breakfast Club | ScreenRant

Emergono infatti problemi molto comuni tra gli adolescenti dell’epoca e di oggi come l’oppressione genitoriale, la paura dell’abbandono, la pressione sociale, la sensazione di non conoscere se stessi e la violenza domestica fisica e psicologica.

Un film capace di toccare le anime di molte generazioni e che, per questo, si è valso di importanti premi come l’MTV Movie e Tv Awards nel 2005 e il National Film Preservation Board Usa nel 2016, per citarne solo alcuni.

E siamo sicure che ne vincerà tanti altri, anzi glielo auguriamo!

Gazzano Alessia e Quaranta Chiara, 1 A Classico

Partiamo dal presupposto che non è mai stata una mia prerogativa elencare concretamente la tessitura narrativa di un film. Ciò che più mi preme è infatti dare l’idea, a grandi linee, del contorno che fa di ogni singola pellicola visionata, un insieme di elementi degni di nota.

Questa volta però voglio fare un’eccezione raccontandovi un horror in pieno stile europeo…

Kadaver, diretto dal regista Jarand Herdal e distribuito su Netflix il 23 ottobre 2020 è ambientato in una città distrutta da un’esplosione nucleare.

Le ambizioni dei pochi sopravvissuti vengono spazzate via dalla fame, dall’indigenza e dal freddo, insieme a quel briciolo di empatia che sono stati costretti a mettere da parte per far fronte all’abituale – e direi forzata – convivenza con gente morta.

Leonor (Gitte Witte) e Jacob (Thomas Gullestad) sono i genitori di una bambina di nome Alice (Tuva Olivia Remman) e sperano soltanto di proteggerla il più possibile da quella drammatica situazione cercando soluzioni per nutrirsi, vista la mancanza di risorse.

La madre, prima dell’esplosione, era una famosa attrice di teatro, ma nessun tipo di soddisfazione lavorativa poteva adesso risollevare lo status di quella famiglia come di tutte le altre rimaste in quel luogo.

Le cose sembrano però cambiare il giorno in cui Leonor sente l’annuncio di un uomo ben vestito che declamava l’invito a teatro per uno spettacolo esclusivo in cui sarebbe anche stato offerto gratuitamente del cibo.

Dopo un primo momento di scetticismo, la famiglia decide di recarsi a teatro, certa di poter finalmente mangiare, ma ecco che le sorti dei protagonisti vengono però decretate da una sfarzosa scatola mortale capace di fondere la cruda realtà alla finzione teatrale.

Da una visione rivelatasi immediatamente suggestiva emerge la diffusione brillante di luci ed ombre che prende spunto dallo stile teatrale melodrammatico nella scelta e nell’uso del colore.

La ripresa in punti di vista sovvertiti ma geometricamente perfetti dà infatti soddisfazione alla vista ed eleva la consistenza del soggetto realizzato sospendendo l’attenzione dello spettatore fra la trama e il paesaggio freddo e spettrale entro cui è immersa.

Si nota un’applicazione quasi accademica nelle caratteristiche della ripresa cinematografica utilizzata, nella contaminazione tra lo stile neorealista italiano del dopoguerra, la nouvelle vague e le trasgressioni sul montaggio.

Il tutto è giustificato da un andamento che, nonostante la varietà della struttura filmica, è fedele all’impostazione classica americana.

Una produzione norvegese capace di regalare allo spettatore una grande qualità di girato che si rispecchia nella suggestiva ambientazione e nella costruzione del set così che chi guarda non venga scosso improvvisamente dal colpo di scena ma “accompagnato” nel tempo del film e nella sua rappresentazione.

Desirée Formica

Un Natale perfetto, con una famiglia perfetta, in un casa perfetta. Il sogno di chiunque, anche di chi apparentemente odia la festa più importante al mondo.

È il desiderio di Leone (Sergio Castellito), protagonista di Una famiglia perfetta, pellicola diretta da Paolo Genovese nel 2012.

Per poter passare il Natale in compagnia e nella perfezione decantata anni prima dall’ex compagna Carmen (Claudia Gerini), Leone, uomo solitario, ricco e potente, decide di scrivere un vero e proprio copione e di affidarlo alla compagnia di attori di cui fa parte la stessa Carmen (ma questo lo scopriremo alla fine!) .

A coronare le ventiquattro ore scritte e studiate da Leone, uno splendido casale in Umbria addobbato al Natale, proprio come lo desiderava lei, una tavolata ricca di pietanze, una messa di mezzanotte, ma anche tanti colpi di scena, tra cui la morte della nonna Rosa, interpretata dalla splendida attrice Ilaria Occhini.

Ma nel tentativo di dimostrare a Carmen che le cose sarebbero andate come lei sognava, il carattere autoritario di Leone, la sua superbia, vengono fuori ugualmente, manifestando l’esatto contrario, e cioè il non essere mai cambiato.

Emerge in questo modo l’esatta verità: la perfezione scritta, visionata, studiata nel dettaglio fatta di quattro figli, una moglie, un fratello (Fortunato, Marco Giallini), una cognata (Sole, Carolina Crescentini), una nonna, non è tale.

Può difatti definirsi imperfezione allo stato puro, pur dotata di qualità ed essenza. È protagonista una famiglia reale, litigiosa sì, ma che comunque si ama.

Una famiglia che l’amore lo dimostra nella volontà di non lasciarsi travolgere dal corteggiamento di Leone e di Sole rispettivamente indirizzato a Carmen e Fortunato, marito e moglie nella vita vera.

Una trama artificiosa, studiata nel dettaglio, capace di presentare allo spettatore, mediante il comunemente definito “teatro nel teatro”, un risultato coinvolgente e riflessivo.

Ne viene fuori infatti una commedia amara e per questo capace di attrarre a sé lo spettatore offrendogli un momento di riflessione, oltre che di intrattenimento.

Ed ecco che la maestosa interpretazione di Sergio Castellito ci riporta a teatro, alla drammaturgia pirandelliana o alla De Filippo, ai Sei personaggi in cerca d’autore, incapaci di andare avanti perché non più in grado di comprendere la differenza tra realtà e finzione, o a Natale in casa Cupiello e alle diatribe familiari tipicamente natalizie.

Un film a mio parere straordinario, nonostante le negative opinioni giornalistiche, e allo stesso tempo molto attuale.

È evidente infatti, anche se in modo molto sottile, la volontà da parte di Genovese di esprimere una critica alla società che ad ogni costo deve vivere nella perfezione agli occhi degli altri, e ahimè di se stessa.

E non importa se l’amore, la stima e il rispetto non ne fanno parte, ciò che conta è vivere l’evento natalizio (e non solo) come gli altri anche se questo, in fondo, significa trasformarsi in un attore e recitare un ruolo.

Maria Pettinato