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Monthly Archives: Febbraio 2019

Oscar alla carriera a Federico Fellini

Sta per tenersi la 91esima edizione di uno degli eventi più importanti riguardanti la cinematografia: l’Academy Award, o conosciuto comunemente come Premio Oscar.

E con esso comincerà la solita odissea di polemiche sui vincitori e sui non vincitori, di apprezzamenti, di gossip (perché l’Oscar è anche questo!), per non parlare della sfilza di opinioni in merito agli abiti indossati, al portamento adottato, alle gaffe fatte, eccetera eccetera.

Ebbene sì cari lettori, l’Oscar è scalpore e diciamoci la verità: è corsa competitiva alla statuetta tanto ambita!

Ma veniamo a noi perché l’Artefatto non vuole parlare di questo, per quanto susciti la curiosità dei più, ma vuole concentrare la sua attenzione sulla vittoria degli Oscar nella storia del cinema italiano. Questo è infatti dotato di eccellenze nel vero senso della parola non solo in campo attoriale e registico dove primeggia, ma anche dal punto di vista dei costumi e della musica.

Questo lo garantisce la sfilza di premi vinti partendo già dalle prime edizioni. Possiamo citarne alcuni, quelli forse rimasti maggiormente nella memoria collettiva o comunque in quella degli intenditori di cinema.

Miglior film straniero, Miglior attore protagonista e Migliore colonna sonora

Primeggiano senza dubbio i due grandi maestri del cinema nostrano Vittorio De Sica e Federico Fellini, vincitori entrambi di quattro premi Oscar come Miglior film stranieri con veri e propri capolavori: Sciuscià (1947), Ladri di biciclette (1950), Ieri, oggi e domani (1965) e I giardini dei Finzi-Cortini (1972) per De Sica, e La strada (1957), Le notti di Cabiria (1958), 8½ (1964) e Amarcord (1975) per Fellini.

La sua reazione alla chiamata della grande Sophia Loren, che peraltro la stessa sera vinse l’Oscar alla carriera, se la ricorda chiunque nel mondo. Mi riferisco a Roberto Benigni, che arrampicandosi sulle poltrone e contagiando il pubblico di felicità, vinse con La Vita è bella l’Academy Award come Miglior film straniero e Miglior attore protagonista (1999), senza tralasciare ovviamente le altre nomination (Miglior regia, Migliore sceneggiatura originale, Miglior montaggio). A riguardo fondamentale è stata la vittoria dell’Oscar come Miglior colonna sonora del grande Nicola Piovani.

Roberto Benigni vince due Oscar per “La vita è bella”

Rimanendo in tema musicale non può non essere citato il grande Ennio Morricone, vincitore dell’ambita statuetta per la Miglior colonna sonora (2016) del film The Hateful Eight diretto da Quentin Tarantino.

Ennio Morricone vince l’Oscar per la miglior colonna sonora di “The Hateful Eight”

Motivo di vanto tutto nazionale sono poi le statuette d’oro vinte da Giuseppe Tornatore con Nuovo Cinema Paradiso (1990, Miglior film straniero), Gabriele Salvatores con Mediterraneo (1992, Miglior film straniero) e infine Paolo Sorrentino con La grande bellezza (2014, Miglior film straniero).

Paolo Sorrentino e Toni Servillo alla premiazione per “La grande bellezza”

Migliori effetti speciali

A volte, quando si pensa alla categoria “effetti speciali” va alla mente il cinema americano. In realtà anche il nostro eccelle nella seguente materia e lo dimostra la vittoria di Carlo Rambaldi per i Migliori effetti speciali con i film King Kong (1976, John Guillermin), Alien (1979, Ridley Scott) e E.T. L’extraterrestre (1983, Steven Spielberg).

Carlo Rambaldi vince l’Oscar per “King Kong”

Migliori costumi

Passiamo al reparto costumi, categoria primeggiante in Italia. Indimenticabili sono i capolavori costumistici di Milena Canonero in Maria Antonietta (2006, Sofia Coppola) per citare una delle sue quattro vittorie nella stessa categoria. E poi chi non ha presente il lungo abito nero indossato dalla splendida Anyta Ekberg nella Dolce Vita di Federico Fellini? Ecco, il costumista vincitore per i Migliori Costumi di questo capolavoro cinematografico è Piero Gherardi (1962). Stessa statuetta vinta per 8½ (1964).

Costumi di Milena Canonero in”Maria Antonietta”
Costumi di Piero Gherardi in “La Dolce Vita”

Sono solo alcune delle quarantadue vittorie che ci hanno e ci rendono tuttora orgogliosi della nostra “settima arte”, del nostro voler e saper fare il Cinema. Esagerato è quindi definirla “finita” e “sottomessa” al cinema straniero, e prevalentemente a quello americano, che in vari casi, diciamoci la verità,  ha dimostrato troppa artificialità e poca verità dal punto di vista emozionale.

Maria Pettinato

Cari Artefattini, oggi voglio parlarvi di uno spettacolo andato in scena il 22 febbraio nell’accogliente cornice de Lo Spazio Vuoto di Imperia: Le Difettose, monologo tratto dall’omonimo romanzo di Eleonora Mazzoni, diretto da Serena Sinigaglia e interpretato direi egregiamente dalla bravissima Emanuela Grimalda, per la prima volta in un teatro imperiese.

Lo spettatore è accolto da una scenografia per lo più assente, semplicemente neutra, nera, se non per una sedia posta al centro della scena e un’oggettistica composta da un cappello, un paio di occhiali, una borsa, due ferri per lavorare a maglia e un libro dal quale emerge la filosofia di Seneca, fondamentale nello svolgimento della trama. Tutto è perciò essenziale, forse anche un po’ drammatico perché è da questa basilarità che emerge Carla, ricercatrice universitaria appena quarantenne, e il suo desiderio, o meglio la sua ossessione, di diventare madre.

Un tormento interiore legato al suo percorso di fecondazione assistita avviato per ben sei volte e dal rapporto con gli altri personaggi, presenti chi per un motivo, chi per un altro nella vita di Carla, e tutti dotati di accenti e caratteristiche diverse: un‘infermiera siciliana scocciata; una nonna materna, dolce e leggera, interpretata con accento emiliano; un compagno romano, Marco, stanco di vedere Carla depressa ed esasperata e per questo intenzionato a lasciarla; la dottoressa Tini, priva di sensibilità e fredda nei confronti delle problematiche emotive che emergono nelle donne alla ricerca di un figlio che non arriva; l’amica toscana Katia, felice a Bruxelles perché riuscita a ottenere il risultato sperato con la fecondazione assieme alla sua fidanzata; il “maestro brasiliano” Thiago che con metodi purificanti dice di poter risolvere la sterilità della protagonista, e infine la mamma emiliana in perenne sfida con la figlia alla quale non ha mai detto “ti voglio bene” e che lo fa ora, forse perché i rimpianti cominciano a farsi sentire, forse perché il tempo aiuta a crescere, chi lo sa, ma comunque importante perché sono proprio quelle tre semplici parole a salvare Carla dallo sconforto e a darle la grinta per rinascere.

Alternanze frequenti e repentine dei personaggi, tutti associabili alla Grimalda, vengono perciò gestite al meglio da una regia, come quella della Sinigaglia, che è capace di evocare, di far riflettere, di lasciare qualcosa, e da una capacità attoriale ironica, vivace, divertente, ma allo stesso tempo tragica perché abile nel presentare temi forti come l’incapacità di procreare, che crea nella donna sentimenti di disprezzo e di giudizio nei propri confronti, e l’annullamento di se stesse per qualcuno che in realtà non esiste se non nella speranza e nell’immaginazione. Perché è proprio questa “inadeguatezza” che La fa sentire diversa, e quindi inesistente, appunto “difettosa”.

Eccezionale può definirsi la destrezza nel trasformare un romanzo attuale e importante come quello della Mazzoni in una pièce teatrale piacevole e coinvolgente.

Concludo complimentandomi con Lo Spazio Vuoto, luogo accogliente e “teatrale” nel vero senso del termine vista la sua capacità di creare un rapporto unico tra attore e spettatore.

Maria Pettinato

Cari Artefattini, oggi, come anticipato sulla nostra pagina Facebook, voglio parlarvi del nuovo film di Alessandro Genovesi, 10 giorni senza mamma, commedia esilarante, ma con un messaggio molto realistico al suo interno: la differenza ancora oggi ben salda nel nostro Paese tra uomo e donna.

La commedia ci presenta una classica famiglia italiana composta da Giulia (Valentina Lodovini), una madre amorevole ma incompleta e per questo infelice, tre figli vivaci tra cui un ragazzino “tutto video game” e un’adolescente puntigliosa, e Carlo (Fabio De Luigi), un padre in carriera che a mala pena conosce i suoi bambini. Una situazione insostenibile che spinge Giulia ad andare in vacanza a Cuba per dieci giorni assieme alla sorella per rilassarsi e ritrovare se stessa, lasciando così il marito, che ha sempre un po’ sottovalutato il lavoro della moglie, da solo ad occuparsi della casa e dei figli.

Scelta che si trasformerà in un vero e proprio disastro carico di momenti divertenti e farseschi, vista la presenza di Fabio De Luigi, dotato della capacità attoriale di offrire una comicità unica senza mai cadere nella volgarità trasformando la visione di un film in un momento di stacco dalla realtà circostante.

Importante è sottolineare come Genovesi abbia voluto trasmettere allo spettatore la difficoltà, forse tipicamente italiana, di associare la donna allo stesso livello dell’uomo, in campo lavorativo come in quello familiare, nonostante le battaglie femminili vinte in passato. Il ruolo della donna in famiglia è infatti spesso sottovalutato dall’uomo in carriera che non ne nota nessuna difficoltà e anzi vi associa del gran tempo libero. In realtà le cose sono molto diverse da come sembra vista la difficoltà di Carlo nel far combaciare i vari compiti giornalieri.

Situazioni che per quanto tragicomiche siano riescono a ricreare il rapporto padre-figlio finora inesistente e a far luce sulle cose fondamentali della vita, che non sono, per quanto importanti, il lavoro o l’immagine grintosa e competitiva che ad esso possono essere associate, ma la famiglia in tutto quello che riesce ad essere e a trasmettere, dalla parolina pronunciata dalla figlioletta per la prima volta all’abbraccio della figlia adolescente.

Presenze attoriali femminili importanti rendono il film ancora più umoristico e desideroso di essere vero nonostante la leggerezza che lo caratterizza. Mi riferisco principalmente a Valentina Lodovini, attrice talentuosa perché dotata di bravura e semplicità come già ha dimostrato in passato sia nel campo teatrale che in quello cinematografico con film come Benvenuti al Sud (2010, Luca Miniero) e Ma che bella sorpresa (2015, Alessandro Genovesi), e a Diana Del Bufalo, che può considerarsi una promessa del cinema e della televisione vista la freschezza e l’eleganza che la caratterizzano.

Maria Pettinato

Avete presente le canzoni che lasciano il segno? Quelle vere, con un messaggio, con una storia al proprio interno, quelle che le ascolti e pensi “caspita, quanto ha ragione, quanto è vero”.

Ecco. Questo fanno i nove brani de Il rumore del mondo (Overdrive/Goodfellas. Novembre 2019), il nuovo album di Carmine Torchia, cantautore calabrese, ma anche disegnatore e produttore di dischi. Uno di quegli artisti che ingloba nella propria arte tutto ciò che provoca nell’ascoltatore un’emozione, ma anche solo un ricordo, o semplicemente una riflessione che va ad abbattere il pregiudizio e lo stereotipo, aspetti ben saldi nel mondo attuale.

La sua musica è infatti il quadro della nostra società come attestano la malinconia che traspare dalle melodie e le tematiche attuali affrontate nei testi. Mi riferisco ad esempio a Come rondini, il brano di apertura dell’album, che tratta della “distrazione che scorda le persone”, dell’indifferenza, oggi all’ordine del giorno, verso i migranti, o a Discorso immaginario con Azhar, dialogo tra un occidentale e un terrorista, dal quale traspaiono gli ideali sbagliati di coloro che decidono di fare e di farsi del male per un dio che in realtà non chiede violenza.

Non mancano poi i valori, quelli del rispetto verso l’anziano che è “l’alto”, come traspare in Tu chi sei? Da dove vieni? (tratto da un poema di Le Corbusier), dal quale tutti noi dovremmo prendere esempio anche se in questo mondo non è più di moda, o l’attaccamento alle radici, al proprio paese d’origine, Sersale, come si può constatare in Rùanzu, il cane, mascotte del paese, brano accompagnato da una musica nostalgica, ma allo stesso tempo allegra dalla quale traspare il ricordo di momenti belli.

Perché i ricordi rimangono, nonostante la forza del rumore del mondo che altro non è che il distacco, l’abbandono, la perdita di memoria che ci caratterizza.

Consiglio a tutti l’ascolto di una raccolta musicale che vuole far riflettere facendo ancora più fragore, criticando e affrontando tematiche di un certo spessore, come solo i veri cantautori riescono a fare perché in fondo è questo lo scopo della canzone d’autore. E Torchia ci è riuscito perfettamente unendo scelte strumentali innovative alla tradizione.

Maria Pettinato

Si è appena concluso il 69º Festival della canzone italiana portando via con sé il clima elettrizzante che ha la capacità di fare aleggiare nell’aria. E come ogni anno Sanremo è stato oggetto di critica, positiva o negativa che sia. L’Artefatto ha deciso di parlarne alla fine presentandovi un articolo che andasse non solo a “criticare” il trampolino di lancio della canzone, ma anche quello che il Festival rappresenta per noi spettatori.

Sanremo è infatti la nostra tradizione, il nostro costume. Non è solo “gara”, ma è l’Evento che unisce, elettrizza, emoziona, incuriosisce perché rappresenta il talento e quindi la cultura. E lo è rimasto nonostante i cambiamenti che lo hanno caratterizzato andando di pari passo con la società, con le nuove generazioni perché Sanremo è anche questo: lo specchio della nostra Italia.

Cambiamenti dai più non condivisi, in quanto deterioranti per una manifestazione che dalla sua nascita si è sempre orientata sui valori fondanti del talento, della serietà e dell’eleganza. Variazioni per lo più musicali legate ai “cantanti del web” a mio avviso troppo presenti in questa edizione anche se, nella maggior parte dei casi, privi della genialità necessaria per potervi partecipare.

Sanremo in fondo fino a pochi anni fa era il palco delle opportunità, ma solo per pochi, per chi lo meritava veramente perché offriva testi veri e significativi e musiche intense che sarebbero rimaste nel cuore e nell’orecchio della gente.

Questa mancanza ha suscitato nella maggior parte degli spettatori un sentimento di nostalgia per il vecchio Festival, quello tradizionale, quello dei Grandi della musica. Sanremo 2019 infatti sarà ricordato non tanto per i cantanti in gara – se non per alcuni da definirsi esperti nel settore musicale (Paola Turci, Francesco Renga, Loredana Bertè, Negrita, …) – ma per i suoi ospiti, senza dimenticare ovviamente un’orchestra di grande importanza.

Eccezionali a tal proposito sono state le interpretazioni di Antonello Venditti, Umberto Tozzi e Raf, Giorgia, Luciano Ligabue, Andrea e Matteo Bocelli, Eros Ramazzotti, Fiorella Mannoia, Elisa, Marco Mengoni, i quali sono riusciti a trasmetterci quella che realmente è musica perché portatrice di emozione. Garanzia data dalla reazione del pubblico dell’Ariston, totalmente coinvolto da queste esibizioni.

E conferma è data da una Bertè con Cosa ti aspetti da me, da considerarsi la vera vincitrice e non solo dell’Ariston come definita da Bisio, ma come cantante, come donna e come sorella. Lo hanno dimostrato i fischi del pubblico a suo favore, ma anche l’omaggio e le scuse da parte di tutti noi alla grande Mia Martini attraverso Serena Rossi che ha interpretato direi eccezionalmente Almeno tu nell’universo.

Poco convenevole può considerarsi la decisione di portare sul palco ventiquattro cantanti in quanto questo ha reso difficoltosa la concentrazione e quindi la comprensione dei brani da parte di uno spettatore responsabile per il suo compito di votante. Scelta bocciata peraltro dallo stesso direttore artistico come ha specificato lui stesso in conferenza stampa.

Per quanto riguarda i tre presentatori degna di nota, anche se in contrasto con gli altri pareri critici, è la figura di Claudio Bisio il quale dopo una prima puntata un poco impacciata è riuscito a offrirci una conduzione umile e dotata di semplicità rendendo vera questa edizione. Mi aspettavo invece una dinamicità e una freschezza maggiori nella presentatrice Virginia Raffaele, forse un po’ oscurata da un Claudio Baglioni troppo ingessato.

In conclusione c’è da dire che Sanremo 2019 non può definirsi il Festival della bravura, ma quello della nuova cultura musicale che, come dimostrano la vittoria di Mahmood con un brano scontato come Soldi, e la partecipazione di cantanti come Achille Lauro, per citarne uno tra i tanti, apprezza la banalità da definirsi per certi aspetti volgarità.

Nonostante i pareri contrastanti comunque anche quest’anno il Festival è stato il protagonista culturale indiscusso e lo testimonia il fatto che se ne è parlato, se ne parla e lo si continuerà a fare per le prossime settimane, quindi l’obiettivo è da dirsi raggiunto.

Maria Pettinato

Perché per cambiare il cuore delle persone ci vuole coraggio

1962, New York. Sono gli anni della discriminazione razziale, della segregazione, dei pregiudizi, dello stereotipo secondo il quale il nero è inferiore, è sporco, non è nessuno perché non appartiene a nulla e per questo non ha diritti, ma siccome intrattiene con la sua musica viene usato, sfruttato.

Green Book questo contesto lo descrive eccome, ma lo fa associandolo ad un valore che va oltre le differenze: l’amicizia. L’italoamericano Tony Vallelonga, detto Tony Lip (interpretato da Viggo Montersen), e il pianista di colore Donald Shirley (interpretato da Mahershala Ali), riescono infatti a creare quel rapporto necessario per scalfire l’odio razziale ben saldo nella mentalità americana di quel periodo.

Le differenze di fondo tra i due protagonisti, che non sono il colore della pelle o la zona di provenienza, sono in realtà il valore aggiunto perché la diversità è qualità, è ricchezza.

Le qualità sono la cultura di provenienza, la mentalità tipicamente italiana e legata ad un quartiere, il Bronx, che rende Tony apparentemente il sempliciotto di paese, ma che in realtà è buono, generoso e legato ai valori della famiglia, sono la cultura del Dottor Shirley, la sua musica, la sua voglia di sorridere al razzismo perché solo così si possono cambiare le cose.

È la musica ad unire perché trasmette le emozioni di chi la suona, che possono essere felicità, amore, rabbia, tristezza, solitudine. È il mezzo grazie al quale Tony comprende che il colore della pelle non è differenza, perché dietro ad esso c’è l’essere, diverso rispetto all’altro come è giusto che sia, ma dotato della stessa intelligenza, degli stessi valori e degli stessi principi.

E dietro all’apparenza che sta nell’abito e nel linguaggio a volte si nascondono la malinconia e la solitudine che sfociano nell’alcolismo come nel caso di Shirley, e a volte l’intelligenza necessaria per andare oltre come dimostra Tony, apparentemente limitato nelle sue idee “bianche“.

Ispirandosi ad una storia vera, Peter Farrelly ci presenta gli anni forse più tristi e vergognosi di un popolo apparentemente aperto come quello americano. C’è riuscito unendo la tragicità di fondo di quegli anni all‘ironia rendendo così il film facilmente comprensibile e moralmente istruttivo visto il nostro periodo storico in cui il pregiudizio sta tornando a prendere il sopravvento sulla cultura e l’intelligenza, conquistate con fatica nel corso della storia.

Decisamente degna di nota è stata la capacità di Nick Vallelonga nello scrivere, assieme allo stesso Farrelly e a Brian Currie, l’amicizia tra il padre Tony e il pianista, offrendocela nella sua semplicità e qualità.

Maria Pettinato

Non credo esista persona che non conosca la Commedia dell’Arte o che comunque non vi sia entrata a contatto almeno una volta nella vita. Le sue maschere fanno parte della nostra tradizione popolare, così come i suoi caratteri e le sue espressioni artistiche. Chi non ha visto almeno una volta, in contesti carnevaleschi ad esempio, le maschere di Arlecchino o Pulcinella o Colombina?

La Commedia dell’Arte fa quindi parte del nostro linguaggio, non solo per le sue rappresentazioni e i suoi personaggi, ben saldi da epoche remote, – si parla addirittura di Antica Roma – ma anche perché i suoi caratteri la rendono totalmente vera, unica, anche se imperniata di comicità.

Le sue maschere sono infatti “astute, ruffiane, a volte ignoranti e volgari”, un po’ come noi, e si ritrovano sempre, proprio a causa della loro superficialità e furbizia, in situazioni imbarazzanti e diciamo anche un po’ tragiche e grottesche, anche se poi fanno divertire.

Ma per quanto sembrino dotate di frivolezza e leggerezza, queste maschere hanno fatto la rivoluzione nel vero senso della parola, inserendo la donna nella rappresentazione teatrale, sostituendo il testo dialogato con l’improvvisazione basata su una traccia chiamata canovaccio, entrando a far parte del linguaggio popolare e diventando in tal modo vere e proprie protagoniste non solo in campo teatrale, ma anche iconografico.

Interessante infatti è notare come siano diventate soggetti artistici e lo siano rimaste per secoli attirando l’attenzione di incisori e pittori che ci hanno regalato dei veri e propri capolavori, ma anche strumenti di ricerca per gli storici del teatro.

Mi riferisco a Jacques Callot, incisore dei ventiquattro Balli di Sfessania (1616 circa) in cui sono riconoscibili i costumi e i tipici movimenti dei Comici dell’Arte, o a Claude Gillot e al suo Scène des Carrosses (1722) che ci offre una caratteristica tipica della Commedia, il travestimento da donna.

E poi ci sono gli artisti che hanno raffigurato la Commedia dell’Arte in un modo diverso, unico, presentandoci la maschera nella sua interiorità, nella sua verità. Non è più frivola, superficiale, ma è dotata di sentimento perché è nostalgica, è tragica, è umana.

Il primo è Jean Antoine Watteau che con il suo Gilles (1718-1719) ha raffigurato non solo un Pierrot in tutta la sua malinconia, ma anche un’epoca come quella settecentesca che sta abbandonando i grandi ideali della moralità per lasciare spazio alla decadenza culturale e umana. La maschera è perciò nostalgica, spaesata di fronte alla perdita dei valori sociali.

Epoca diversa, ma un’interpretazione simile è quella di Pablo Picasso che ne I Saltimbanchi (1905) si immedesima nella figura di un Arlecchino incapace di reagire perché chiuso in una vita ormai materiale e priva di emozioni, raffigurando in tal modo il disagio interiore del genere umano.

Riproduzioni uniche sono riuscite quindi ad offrirci testimonianze differenti che spaziano dalla raffigurazione della pratica scenica, della gestualità e della mimica, all’utilizzo della maschera come mezzo per manifestare la tristezza della società.

Maria Pettinato