Loading...
Cerca

Archivio tag: ECCELLENZE CINEMATOGRAFICHE

Paterson - Film (2016) - MYmovies.it

Paterson è il dodicesimo lungometraggio diretto nel 2016 dal noto cineasta indipendente Jim Jarmusch.

Il film offre allo spettatore la rappresentazione di una settimana nella vita di Paterson (Adam Driver), un conducente di pullman che si diletta a scrivere poesie e vive in New Jersey, assieme alla moglie Laura e al cane Marvin.

Come è noto a chi conosce il suo stile, Jarmusch privilegia la rappresentazione di individui ai margini della società, alienati da una routine perennemente uguale a se stessa. In questo, Paterson si rivela esemplare.

Il lungometraggio mette in scena una quotidianità monotona, volutamente piatta, e la regia stessa sottolinea gli aspetti che rendono le giornate uguali tra loro. Da questo punto di vista, il film rifugge esplicitamente i concetti cardine della sceneggiatura: in Paterson non ci sono antagonisti, non c’è un obiettivo definito; c’è solo un protagonista che vive la sua normalità.

È lecito affermare, in effetti, che per quasi tutto il film, ad eccezione del finale, non succeda nulla che scuota la narrazione.

Agli occhi dello spettatore, l’unica nota stonata che turba l’equilibrio di Paterson è la moglie Laura (Golshifteh Farahani). Con lo scorrere dei minuti del film, la figura femminile appare lievemente enigmatica agli occhi di chi guarda.

Il personaggio sembra scritto appositamente per risultare fastidioso: pare non apprezzare gli sforzi del marito, che invece la idolatra, e tende a dimostrarsi superficiale se non addirittura lievemente egoista. La stessa resa visiva sembra corroborare questa sensazione: gli onnipresenti motivi in bianco e nero che accompagnano Laura, i suoi vestiti e gli ambienti in cui si muove, se ad una prima occhiata paiono curiosi non tardano però a risultare ridondanti, quasi stucchevoli.

Essa troverà comunque modo di redimersi sul finale del film, a seguito del trauma che scuote il quotidiano del protagonista. La donna, di fronte all’inconveniente, apparirà tutto d’un colpo fragile, tenera e premurosa, permettendo allo spettatore di trovare una giustificazione alla visione che il marito ha di lei.

La critica ha elogiato il film, arrivando a definirlo “un mite e sorprendente lavoro anti-drammatico per i fan del cinema indipendente” (Todd McCarthy, The Hollywood Reporter).

Il progetto è stato a lungo presente nei meandri della mente di Jarmusch, regista e sceneggiatore, che definì le prime bozze della trama addirittura vent’anni fa. Per realizzarlo al meglio, ha deciso di affiancarsi al suo poeta contemporaneo preferito, Ron Padgett.

Quest’ultimo ha composto tutte le liriche che nel film sono attribuite al protagonista. Lo stesso Jarmusch ha però voluto dare il suo apporto alla componente poetica, scrivendo i versi che nel film risultano pensati da una precocissima bambina che Paterson incontra per caso.

In Paterson, il regista gioca anche con la tendenza cinematografica per cui ad un elemento narrativo vengono conferite sfumature di significato simboliche. Esemplare in questo senso risulta il leitmotiv dei gemelli: da quando Laura dice di aver sognato di partorirli, il marito inizia a vederne ovunque.

Questo elemento narrativo è stato inserito direttamente in fase di riprese, quando il regista ha notato che gli attori più piccoli venivano sostituiti, come spesso accade, da fratelli identici. A detta dello stesso Jarmusch, tuttavia, questo topos è privo di significato ulteriore (“anti-significant”).

Lo spettatore potrebbe interrogarsi su eventuali implicazioni narrative (un parto di Laura, altri eventi degni di nota), senza rendersi conto che si tratta di un elemento volutamente privo di significato, che rende il film nella sua totalità ancor più straniante.

Dopo le sue collaborazioni con Baumbach, Spielberg, e i fratelli Coen, l’ormai affermato Driver sin dagli albori della produzione non ha nascosto l’entusiasmo che provava nel lavorare con un caposaldo del cinema contemporaneo quale è Jim Jarmusch.

I più ironici credono che la scelta del protagonista fosse scritta nel destino, data la curiosa coincidenza tra il cognome dell’attore (Driver, in inglese autista) e la natura del ruolo, un conducente di bus. Ma pare addirittura che, per rendersi il candidato più idoneo al ruolo del protagonista, Driver abbia autonomamente deciso di prendere la patente per la guida di autobus, prima che gli fosse richiesto esplicitamente.

In questo modo, l’attore sperava di automatizzare l’aspetto pratico del suo ruolo per potersi concentrare sull’interpretazione al momento delle riprese. Non meno importante, Driver aveva giustamente immaginato che riuscire a guidare realmente gli ingombranti mezzi avrebbe consentito al regista la possibilità di ricorrere a più inquadrature, potendo lavorare con più libertà.

L’acclamato attore interpreta magistralmente il ruolo che gli è affidato. Il suo personaggio risulta a tratti annoiato, teneramente ingenuo.

La componente di fragile semplicità che Driver riesce a incanalare in Paterson lo rende incredibilmente realistico, quasi commovente nella sua purezza. Ciò che colpisce del protagonista è il suo modo di fare, sempre pacato e riflessivo, mai esuberante o eccessivo. Anche nel momento di peggior crisi, di maggior sconforto, non si lascia accecare dall’ira o da manifestazioni plateali di disperazione.

Silenzioso, Paterson cade in un pacato sconforto, comunque carico di intensità e malessere. Tutto ciò che riesce a dire a proposito delle sue poesie, forse perdute per sempre, è un elegante ma disilluso «they where only words written on water», forse citando il celebre epitaffio del poeta inglese John Keats (“Here lies One whose Name was writ in Water”).

La performance di Driver, particolarmente apprezzata, gli ha permesso negli anni successivi di collaborare con altri mostri sacri del cinema contemporaneo tra cui Scorsese (Silence, 2016), Soderbergh (La truffa dei Logan, 2017) e Lee (BlaKkKansman, 2018), fino ad arrivare alla nomination all’Oscar per miglior attore (non protagonista nel 2019 per il film di Spike Lee e protagonista nel 2020 per Storia di un matrimonio di Baumbach).

La narrazione di Paterson si sviluppa dunque attorno a un quotidiano semplice e ciclico, ad una circolarità monotona.

Per questa ragione, un evento perturbatore come quello del finale, che normalmente non sarebbe abbastanza forte da stravolgere l’andamento della storia, assume in questo caso connotazioni drammatiche e riverberi disastrosi.

Gli ultimi minuti del film, però, aprono ad un messaggio di speranza, illustrando come talvolta sia necessario fare un passo indietro per trovare nuove fonti di ispirazione. In questa chiusura molti critici hanno visto una forte dichiarazione da parte dello stesso Jarmusch, che dopo anni di esperienza continua a sorprendere il suo pubblico innovandosi ma rimanendo fedele alla sua concezione artistica.

In effetti, solo una mente creativa così solida ma al contempo propositiva poteva offrire al pubblico un’opera come Paterson, che sfidando qualsiasi convenzione narrativa riesce comunque a colpire dritto nell’animo dello spettatore.

Eleonora Noto

Psycho (1960) - Rotten Tomatoes

Psycho, o meglio conosciuto in Italia come Psyco, è un thriller americano realizzato nel 1960 dal regista Alfred Hitchcock.

Un vero e proprio capolavoro, tanto da essere passato alla storia come un effettivo cult movie, al quale furono successivamente ispirate altre pellicole.

Il film vede come sua protagonista Marion Crane (Janet Leigh), giovane e bella segretaria di un’agenzia immobiliare, la quale ha intrapreso da diverso tempo una relazione sconosciuta agli occhi del mondo con Sam Loomis (John Gavin), imprenditore e proprietario di una ferramenta non molto distante dalla città di residenza della propria amata, ovvero Phoenix, in Arizona.

Tutto ha inizio l’11 novembre 1959 quando Marion, in seguito a uno dei suoi soliti incontri segreti con Sam durante la pausa pranzo, fa ritorno presso il proprio ufficio, luogo in cui ha occasione di assistere a un ottimo successo lavorativo del proprio capo che si è concluso con un affare di £ 40.000 per l’acquisto di un’abitazione.

Alla protagonista è affidato il compito di portare tale cifra di denaro in banca, mansione che tuttavia non svolgerà mai in quanto, grazie alla scusa di una terribile emicrania, riesce ad ottenere un pomeriggio di ferie che sfrutterà per fuggire verso la città dove risiede il proprio compagno.

A causa di un’improvvisa e violenta pioggia però la ragazza non giungerà mai a destinazione in quanto si imbatterà nell’insegna del Bates Hotel, luogo in cui avverrà il suo memorabile assassinio.

Omicidio rimasto nella storia del cinema, ma soprattutto nella memoria collettiva per la cosiddetta “scena della doccia”, leggendaria e ancora oggi da brividi.

78/52, la scena della doccia di Psycho, la lezione di Alfred Hitchcock |  CameraLook

Una scena in cui il regista, astuto e di mestiere, non inquadra mai l’evidente accoltellamento della ragazza, ma lo lascia intendere allo spettatore contribuendo così all’alimentazione dello scenario di tensione che caratterizza l’intero film.

E ancor più indimenticabile perché inscritta nella sfida economica che Hitchcock dovette affrontare per la produzione della famosa pellicola. Il regista infatti dovette girare un film di qualità con mezzi limitati e in una forbice temporale ristretta.

Psycho infatti si ispirò all’omonimo romanzo di scarso valore dello scrittore Robert Block, tradotto in italiano come Il passato che urla, il quale vede come suo protagonista un serial killer realmente esistito, ovvero Edward Gein, il quale, sempre presso il territorio statunitense, uccise due persone e fece dei loro corpi degli ornamenti per la propria dimora.

La casa di produzione cinematografica Paramount Pictures, la quale aveva con Hitchcock un contratto per la realizzazione di un altro film, rifiutò, proprio per l’insuccesso del romanzo, l’offerta mossa dal regista di comprare i diritti cinematografici del thriller di Bloch.

Ecco che quindi Hitchcock si vide costretto a provvedere al loro acquisto autonomamente, spendendo oltre 10 mila dollari.

Scelta rischiosa che lo spinse a rendere il film meno violento di come lo aveva inizialmente immaginato dalla lettura del romanzo, pur di avvalersi del finanziamento della Paramount la quale, con un budget di appena $ 806. 947 e un limitato lasso di tempo, decise infine di cedere alle richieste del maestro.

Psycho” e l'emozione di massa del cinema autoriale | Cinefilia Ritrovata |  Il giornale della passione per il Cinema

In cambio il regista assicurò il bianco e nero, in quanto un film a colore avrebbe rischiato di essere troppo crudo e violento verso lo spettatore.

Le riprese ebbero luogo presso un’ambientazione appartenente alla Universal Studios, precedentemente impiegata per la realizzazione del film, situata ad Hollywood nella quale l’edificio dall’architettura gotica, ispirato al quadro The House by the Railroad (1925) di Hopper, si palesa come protagonista. 

Nelle immagini del film non si può fare a meno di notare la penna del maestro, la quale si manifesta grazie all’attenzione psicologica circa i fatti illustrati: il regista infatti scelse volontariamente di attribuire poca importanza alla personalità e al carattere dei personaggi per concentrarsi sulla creazione di un’atmosfera di suspense a partire da elementi quasi del tutto insignificanti e attraverso la perfetta coniugazione di strumenti cinematografici.

Interessante è il ricorso al tema del doppio ad esempio, tipico della produzione cinematografica del regista, con lo scopo di attirare a sé l’attenzione dello spettatore: la sessualità intesa come peccato o massima espressione dell’amore, il bianco contrapposto al il nero, la follia all’accortezza, la confusione mentale alla chiarezza del pensiero ecc…

Uno dei motivi per cui Psycho ha riscontrato tale successo, come attesta il ricordo collettivo, oltre al Premio Oscar di cui si è avvalso nel 1961, è stato sicuramente il significato psicologico che sta dietro alla trama.

78/52, la scena della doccia di Psycho, la lezione di Alfred Hitchcock |  CameraLook

Dando uno sguardo più profondo e attento ai dettagli – anche a quelli più apparentemente insignificanti – si può infatti notare come il film lavori nella nostra mente senza che noi ce ne rendiamo conto.

Ciò su cui l’autore ha mirato principalmente a far leva è la sensibilità.
Il film in sé, per quanto ci possa sembrare assurdo, negli anni Sessanta era qualcosa di terrificante.

Per comprendere l’importanza della reazione e della volubilità degli spettatori basti pensare alla scelta del bianco e nero o al taglio di scene ancor più crude.

Uno sguardo accurato incide sui personaggi e in particolare a quello di Norman Bates (Anthony Perkins), protagonista dell’intera vicenda.

È un soggetto con molteplici disturbi, causatogli dai vari problemi familiari. La mancanza del padre in età infantile lo ha condotto ad attaccarsi in maniera eccessivamente morbosa alla madre, sviluppando con ella una sorta di complesso edipico.

Norman è infatti invidioso del compagno della madre e dopo la morte della stessa inizia a provare una forte pazzia che lo porta a travestirsi, atteggiarsi e, addirittura, parlare come la figura materna.

Un comportamento a dir poco agghiacciante capace di aiutare il giovane uomo a staccarsi dalla realtà e, nella sua testa, a riportare in vita la defunta madre.

Questo travestimento diventa talmente risonante da impossessarsi di lui diventando un acceso e pesantissimo disturbo della personalità.

La “madre” dunque desidera essere l’unica donna nella vita di Norman, sviluppando una gelosia tale da uccidere qualunque signora accanto al figlio.

Considerato dalla critica come il “capostipite” dei generi horror e thriller, non è un caso che Hitchcock sia da molti definito il Mozart dell’arte cinematografica.

Rossi Giulio, Rossi Eleonora, Zerbone Stefanì Ginevra, 2 A Classico

Amour", Storia d'Amore e Distruzione - RECENSIONE (M. Haneke, 2012)

Esiste una poesia molto celebre nel patrimonio lirico italiano: scritta per mano di Eugenio Montale, esordisce con un intenso e pregnante “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino”.

L’abbiamo sentita sin da bambini, quando ci veniva proposta con l’aura che possono vantare solo i beni più preziosi, elogiata dagli insegnanti e citata dagli adulti.

Abbiamo finito, probabilmente, per evocarla rapidamente studiandola alle scuole superiori, recitando i primi due versi con l’intonazione di un’infantile filastrocca, una nenia svuotata di significato.

L’abbiamo letta, parafrasata, studiata, talvolta anche un po’ odiata, abbiamo continuato a intonarne solo l’inizio come una cantilena, ma probabilmente non l’abbiamo mai veramente compresa.

Poi, però, è arrivato Amour (2012).

La regia di Michael Haneke, priva di orpelli sentimentalisti ma sempre molto bruscamente reale, ci trasporta nella vita di un’anziana coppia legata indissolubilmente.

Per la prima volta, negli sguardi che Georges (Jean-Louis Trintignant) riserva ad Anne (Emmanuelle Riva), percepiamo il tono che giaceva sotto alle parole usate da Montale in seguito alla scomparsa della moglie: entrambi portano, ognuno a modo proprio, il fardello del vedere l’amata di una vita dissolversi di fronte a sé.

Sentendo Anne spegnersi lentamente al suo fianco, Georges lotta instancabilmente affondando però al contempo nella più cupa delle disperazioni, poiché sa che (come per Montale) tra di loro “le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate” erano quelle della moglie.

Era lei a stimolarlo, ad aprirgli la porta verso mondi di arte e creatività, e quando lei non può più farlo Georges si trova smarrito.

L’uso della macchina da presa, da questo punto di vista, rende il turbamento di Georges ben visibile.

Le lunghissime inquadrature, che lasciano ben poco spazio al montaggio, creano un senso di staticità che appartiene allo stesso protagonista. Ora che la donna che ha sempre avuto al suo fianco si sta affievolendo, Georges è immobile, inerte fra le quattro mura della sua elegante casa.

Non a caso, la scelta di ambientare (dal momento in cui la vita di Anne si stravolge) l’intero film negli interni dell’abitazione sottolinea l’angoscia e l’oppressione dell’anziano marito. Da quando Anne perde se stessa, anche Georges si smarrisce, riducendosi all’immobilità e rinunciando al mondo esterno.

Il regista, Haneke, prima di girare questa pellicola era già noto al pubblico per lungometraggi quali Funny games (sia nella prima versione del 1997 che nel remake del 2007 ad opera dello stesso) o per il più recente ma altrettanto acclamato Il nastro bianco (2009).

L’attrice principale di questo film, Emmauelle Riva, già icona della Nouvelle Vague per il suo lavoro in Hiroshima mon amour (Resnais, 1959), unisce magistralmente eleganza e fragilità in questa interpretazione, la penultima della sua carriera.

Per stessa ammissione di Haneke, però, il film è stato scritto appositamente per Trintignant, l’interprete maschile principale. L’attore, che aveva già lasciato il cinema da nove anni per dedicarsi al teatro, torna sul set proprio per l’ammirazione nutrita nei confronti del regista.

Sarà proprio l’interprete a suggerire ad Haneke il titolo per il film, che verrà selezionato al posto degli altri pensati dal regista (la scelta altrimenti sarebbe stata ridotta ad un didascalico These two o a un più metaforico Music stops).

L’unica indicazione che Haneke ha fornito ai suoi attori, girando questo film, è stata quella di evitare sentimentalismi.

In questo modo, come risulta evidente allo spettatore, la narrazione e l’interpretazione rifuggono il patetismo, contribuendo a creare quell’atmosfera di cruda realtà mista a disperata fragilità che rende il film così degno di nota.

Eleonora Noto

TROY in televisione: recensione del film con Brad Pitt | MaSeDomani

Troy, diretto da Wolfgang Petersen, è un film epico/drammatico uscito nelle sale cinematografiche il 9 maggio 2004.

Un film ambientato in un’epoca antica, leggendaria e affascinante e che per questo ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica confermato dai molti premi vinti tra cui il premio Oscar ai migliori costumi e l’MTV MOVIE AWARD al miglior combattimento e alla migliore performance (2005) per citarne alcuni.

L’opera di Omero, l‘Iliade, narra gli ultimi cinquantuno giorni della decennale Guerra di Troia, ed è da questa che David Benioff, sceneggiatore del film, si ispira per la realizzazione di Troy.

Il film narra infatti la famosa guerra svolta tra i Greci e i Troiani causata, secondo la mitologia omerica, dal rapimento di Elena da parte di Paride.

Il protagonista Achille, interpretato dal pluripremiato Brad Pitt, è l‘incarnazione della perfezione come dimostrano le caratteristiche che lo rendono così esemplare: bello, possente, audace e valoroso.

Ad emergere le due personalità contrastanti dei due fratelli: Ettore e Paride.

Troy - Film (2004)

Simbolo di forza e di coraggio il primo (Eric Bana), emblema di codardia il secondo (Orlando Bloom), come dimostra la sua fuga da Menelao, che nel poema di Omero spinge la dea Afrodite ad intervenire e a nasconderlo sulla torre di Troia.

Questo però non avviene nel film di Benioff il quale, volutamente, ha eliminato dalla trama l’elemento soprannaturale.

Manca infatti nel film la presenza di divinità, così come non è presente la morte epica di Achille: essa non avviene colpendo il tallone, ma la sua uccisione è totalmente “umana”.

Troy: recensione di una grande occasione persa - Cinematographe.it

Attraverso inquadrature di calibro elevato e ricche di effetti speciali Troy è riuscito nel suo intento, offrendosi come un vero e proprio capolavoro cinematografico.

Un film da riguardare perché coinvolgente e capace di suscitare emozioni, soprattutto nelle scene salienti ed iconiche, ma soprattutto un film riuscito nel tentativo di comunicare l’epica in modo originale ad un pubblico moderno.

Casano Giovanni Maria, 1 B Classico

The Breakfast Club (1985) - IMDb

The Breakfast Club è una commedia drammatica diretta dal regista John Hughes, produttore tra i tanti, di film popolari come Sixteen Caudles, Pretty Pink e Day Off.

Girato negli Stati Uniti del 1985 e ambientato in un quartiere immaginario di Chicago (già presente in altri film di Hughes), parla di cinque ragazzi: Claire, Andy, John, Brian e Allison.

Molto diversi tra loro si ritrovano tutti in punizione un sabato pomeriggio con il compito di scrivere un tema affidato loro dal preside Vermon, la cui traccia è la seguente: “chi sono io?”.

Ed è così che gli adolescenti si scoprono per quello che sono, con i propri pregi e difetti e i propri problemi.

Ad emergere sono infatti le vere personalità dei protagonisti:

Breakfast Club (film) - Wikipedia

da Claire (Molly Ringwald), la classica “principessina” invidiata e apparentemente superficiale, che in realtà nasconde dietro alla sua corazza una grande sofferenza per il divorzio dei genitori a Allison (Ally Sheedy), la ragazza eccentrica e sola, emarginata dai suoi compagni e dalla sua famiglia.

E poi ci sono Andy (Emilio Estevez), l’atleta più dotato dalla scuola, sofferente perché pressato dal padre e Brian (Anthony Michael Hall), anche lui sempre sull’attenti, sempre perfetto, tanto da tentare il suicidio per le continue sollecitazioni e infine John (Judd Nelson), il classico cattivo ragazzo, vittima della violenza del padre.

Un gruppo di giovani diversi tra loro, ma che si scopre unito da una profonda amicizia e da una sintonia quasi fraterna.

Ne viene fuori una commedia – a tratti drammatica – piacevole, e allo stesso tempo ricca di spunti di riflessione.

15 Most Memorable Quotes From The Breakfast Club | ScreenRant

Emergono infatti problemi molto comuni tra gli adolescenti dell’epoca e di oggi come l’oppressione genitoriale, la paura dell’abbandono, la pressione sociale, la sensazione di non conoscere se stessi e la violenza domestica fisica e psicologica.

Un film capace di toccare le anime di molte generazioni e che, per questo, si è valso di importanti premi come l’MTV Movie e Tv Awards nel 2005 e il National Film Preservation Board Usa nel 2016, per citarne solo alcuni.

E siamo sicure che ne vincerà tanti altri, anzi glielo auguriamo!

Gazzano Alessia e Quaranta Chiara, 1 A Classico

Un Natale perfetto, con una famiglia perfetta, in un casa perfetta. Il sogno di chiunque, anche di chi apparentemente odia la festa più importante al mondo.

È il desiderio di Leone (Sergio Castellito), protagonista di Una famiglia perfetta, pellicola diretta da Paolo Genovese nel 2012.

Per poter passare il Natale in compagnia e nella perfezione decantata anni prima dall’ex compagna Carmen (Claudia Gerini), Leone, uomo solitario, ricco e potente, decide di scrivere un vero e proprio copione e di affidarlo alla compagnia di attori di cui fa parte la stessa Carmen (ma questo lo scopriremo alla fine!) .

A coronare le ventiquattro ore scritte e studiate da Leone, uno splendido casale in Umbria addobbato al Natale, proprio come lo desiderava lei, una tavolata ricca di pietanze, una messa di mezzanotte, ma anche tanti colpi di scena, tra cui la morte della nonna Rosa, interpretata dalla splendida attrice Ilaria Occhini.

Ma nel tentativo di dimostrare a Carmen che le cose sarebbero andate come lei sognava, il carattere autoritario di Leone, la sua superbia, vengono fuori ugualmente, manifestando l’esatto contrario, e cioè il non essere mai cambiato.

Emerge in questo modo l’esatta verità: la perfezione scritta, visionata, studiata nel dettaglio fatta di quattro figli, una moglie, un fratello (Fortunato, Marco Giallini), una cognata (Sole, Carolina Crescentini), una nonna, non è tale.

Può difatti definirsi imperfezione allo stato puro, pur dotata di qualità ed essenza. È protagonista una famiglia reale, litigiosa sì, ma che comunque si ama.

Una famiglia che l’amore lo dimostra nella volontà di non lasciarsi travolgere dal corteggiamento di Leone e di Sole rispettivamente indirizzato a Carmen e Fortunato, marito e moglie nella vita vera.

Una trama artificiosa, studiata nel dettaglio, capace di presentare allo spettatore, mediante il comunemente definito “teatro nel teatro”, un risultato coinvolgente e riflessivo.

Ne viene fuori infatti una commedia amara e per questo capace di attrarre a sé lo spettatore offrendogli un momento di riflessione, oltre che di intrattenimento.

Ed ecco che la maestosa interpretazione di Sergio Castellito ci riporta a teatro, alla drammaturgia pirandelliana o alla De Filippo, ai Sei personaggi in cerca d’autore, incapaci di andare avanti perché non più in grado di comprendere la differenza tra realtà e finzione, o a Natale in casa Cupiello e alle diatribe familiari tipicamente natalizie.

Un film a mio parere straordinario, nonostante le negative opinioni giornalistiche, e allo stesso tempo molto attuale.

È evidente infatti, anche se in modo molto sottile, la volontà da parte di Genovese di esprimere una critica alla società che ad ogni costo deve vivere nella perfezione agli occhi degli altri, e ahimè di se stessa.

E non importa se l’amore, la stima e il rispetto non ne fanno parte, ciò che conta è vivere l’evento natalizio (e non solo) come gli altri anche se questo, in fondo, significa trasformarsi in un attore e recitare un ruolo.

Maria Pettinato

Si dice che ci sia un tempo per ogni cosa e, per Richard Gere, gli “anta” sono tempi assai fortunati.

Nell’immagine collettiva, probabilmente, ci si ricorda dell’attore in età matura più che in gioventù, un attore nato “buono” che ha molto spesso interpretato ruoli da innamorato con gli occhi a cuoricino in commedie rosa o drammatiche.

In Autumn in New York, pellicola del 2000 diretta dalla regista Joan Chen, Gere viene mostrato meno romantico del solito.

Nel film si allude ad un altro cliché, quello che presenta la borghesia americana come custode di vizi.

Il protagonista Will Keane (Richard Gere) è un famosissimo chef e anche un inguaribile dongiovanni (certo, mi direte, fino a quando non incontra l’amore vero) e non è facile per lui riconoscere un sentimento importante tra le mille donne che gli passano sotto il naso.

E il lieto fine? Non funziona sempre tutto come in Pretty Woman.

Quella che apparentemente si presenta come una commedia romantica da guardare sul divano per alleggerire un po’ l’atmosfera cambia registro prima di tutto sulla base del confronto tra la diversità caratteriale della protagonista femminile, Charlotte, interpretata da Winona Ryder e le cattive abitudini di Will.

Charlotte è una giovanissima ragazza di ventidue anni che sembra essere cresciuta in un batuffolo di neve: vive con la nonna tra perline e cappellini artigianali, ma sotto il suo sorriso smaliziato e due occhioni scuri qualcosa rende viva e tangibile ogni sua parola.

Nessuna chioma fluente e sensuale ma un nerissimo pixie cut fa risaltare la sua pelle diafana e la sua figura corporea fragile e minuta. La sincerità, nella voglia di mangiarsi il mondo, è il risultato di una grave malattia incurabile che presto la porterà via dal mondo terreno.

La giovane è un filo sottile tra il presente e il passato dello scapolo più ambito di New York.; la sua presenza porterà a galla fantasmi che Will aveva sedato e riposto nel dimenticatoio e adesso tornati per una resa dei conti senza esclusione di colpi.

Ma cosa sono i vizi se non malattie dell’anima? Will lo sa bene e ci convive
tradendo la fiducia di chi diceva di amare e per la quale affermava di essere
cambiato confermando quella sensazione di tragedia annunciata a cui lo
spettatore incredulo sperava di non dover assistere.

Le donne intorno a Will sono troppe e pretenziose, ma non tutte rivendicano la stessa ragione. L’atmosfera tipica dell’autunno newyorkese, i colori caldi e brillanti, riscaldano la prima parte del girato per poi raffreddarsi e schiarirsi nella neve man mano che avanza l’inverno.

Un naturale cambio di stagione che allude a quel ciclo vitale che noncurante del nostro permesso sopravvive.

Desirée Formica

Chloe di Atom Egoyan è il nome scelto per il remake americano di Nathalie (2009), versione francese del 2003 scritta e diretta da Anne Fontaine.

La ginecologa Catherine Stewart, interpretata da un’eccezionale Julienne Moore, organizza una festa di compleanno a sorpresa per il marito David (Liam Neeson), un professore di musica.

Gli invitati sono arrivati e si attende solo l’arrivo del festeggiato ma la donna riceve una chiamata nella quale lui le comunica di aver perso l’aereo di ritorno.

Il giorno seguente Catherine trova sul cellulare del marito un messaggio inviatogli da una studentessa: “grazie per la bella serata, baci” e in allegato una foto in cui sono insieme in atteggiamenti amicali, cosa che inizia a far sospettare la donna su un presunto tradimento del marito.

Il figlio Michael (Maximillion Drake Thieriot) non fa che peggiorare la situazione: è schivo con la madre, ha un atteggiamento tipicamente adolescenziale, porta la fidanzata a casa di nascosto e infrange le regole di buona convivenza. In un dialogo tra Catherine e un amico si deduce che Michael in passato possa avere avuto qualche leggero problema a livello neurologico.

Una famiglia-modello acclamata e invidiata anche dalla stampa con un positivo equilibrio tra carriera e famiglia in realtà si sta disfacendo dentro quel loft curato davanti agli occhi impotenti della matriarca.

In una cena tra amici Catherine, entrata alla toilette, e sentendo piangere una ragazza le chiede se va tutto bene ed è lì che iniziano a parlare: un’interazione minima che per Chloe (Amanda Seyfried) sembra necessaria.

Finge infatti di aver trovato a terra una spilla per capelli e chiede a Catherine se fosse sua ma lei risponde di no. Allora la ragazza gliela porge regalandogliela ma la donna rifiuta gentilmente e torna dal marito in sala. Questa preziosa spilla sarà il simbolo di un legame tra le due donne che non è destinato a spezzarsi.

Chloe è una ragazzina di facili costumi e Catherine se ne accorge osservandola al tavolo con un uomo che sembra avere più anni di lei. Ha lo sguardo spento seppur gli occhi grandi esprimano un forte bisogno di attenzioni.

La moglie del professore intuisce di poter usare questo legame per scongiurare l’inclinazione al tradimento del marito.

Le due donne si accordano per vedersi e decidere le dinamiche di questa prova di fedeltà ma già al primo incontro tra Chloe e David le notizie non sono tranquillizzanti: la ragazza racconta a Catherine di averci flirtato fino a farlo cadere in tentazione.

Il piano continua così come gli presunti incontri tra i due amanti che vengono narrati minuziosamente alla moglie. Catherine sprofonda nelle sue stesse insicurezze fino al punto di vedere in Chloe un espediente per non rovinare definitivamente il suo matrimonio.

La ragazza dai lunghi capelli biondi diventerà lo specchio di quell’amore intenso che l’ha spinta a sposarsi: un amore carnale che adesso si alimenta attraverso il corpo di una terza persona.

Il filo rosso di questa tela fatta di sensazioni implose è lo sguardo, tutto il non detto è espresso magnificamente dalla capacità interpretativa degli attori. La conoscenza tra Cloe e Catherine inizia in un ristorante e finisce (almeno per quest’ultima) in un caffè.

I coniugi sono seduti a un tavolo e Catherine aspetta che arrivi Chloe che scappa fuori, David chiede a Catherine chi fosse quella ragazza ed è in questo momento che viene svelata la grande menzogna: Chloe non aveva mai incontrato né visto quell’uomo, quelle storie sui loro incontri erano false e servivano a Chloe affinché Catherine non sparisse dalla sua vita.

La ragazza sembra essersi legata così tanto alla ginecologa da sviluppare una sorta di dipendenza affettiva generatrice di vendetta. Approfitterà infatti del ritardo di Michael per creare un flirt e ledere così l’equilibrio della famiglia che la coppia di sposi aveva da poco ritrovato.

Desirée Formica

Accadde una notte, traduzione dal titolo americano It happened one night è un film in bianco e nero del regista Frank Capra uscito nelle sale cinematografiche nel 1934 da inserire nel quadro epocale entro cui si muove il cinema americano di quegli anni.

Tra il 1927 e il 1933 il cinema stava maturando la sua evoluzione dal muto al sonoro, era cioè nella fase di transizione in cui veniva vagliato ogni pro e contro di questa nuova tecnologia che al contempo aveva generato una crisi quasi spirituale per gli addetti ai lavori.

L’opera di Capra sancisce definitivamente non solo l’avvento del sonoro al cinema ma avvia la teorizzazione sulla nascita dei generi, quelle categorie che per stile, per scelta del profilmico, per la narratività del racconto corrispondono a una precisa collocazione.

In questo caso si può parlare di screwball comedy, la commedia bizzarra oltreoceanica che vede come protagoniste coppiette litigiose da dove fa capolino quasi sempre la figura dell’ereditiera bisbetica.

Lo stile americano classico predilige il cosiddetto montaggio continuo orientato al racconto in una composizione leggibile ove il “problema” passa dal “conflitto” alla “risoluzione” che sfocia irrimediabilmente in un lieto fine.

Tale tecnica esalta lo sguardo dei personaggi come si riscontra appunto in Accadde una notte in cui i due protagonisti si guardano raramente negli occhi come a voler rafforzare l’idea di un distacco e una diversità non solo a livello di ceto sociale ma anche umano e valoriale.

Caratteristica che spiega perché lo spettatore viene solo di rado coinvolto emotivamente nei pensieri intimi che si alternano nelle menti dei protagonisti.

Nasce inoltre in questo periodo ciò che comunemente viene chiamato Star System, lo “sfruttamento commerciale” dei divi hollywoodiani.

Se un attore piaceva ed era richiesto dal pubblico veniva ingaggiato per lavorare in un determinato film e lo spettatore “affezionato” sarebbe andato a vederlo non tanto per la storia ma per rivedere l’attore amato sul grande schermo.

Perciò si ha la sensazione di non essere coinvolti dalla sceneggiatura del film, la quale passa in secondo piano rispetto alla comparsa dell’icona cinematografica.

Il divo qui in oggetto è Clark Gable nel ruolo di Peter, giornalista dalla facciata dura e cinica che non vedremo nelle prime inquadrature della pellicola, secondo il classico trucco adottato per far crescere l’attesa nello spettatore: posticipare la sua entrata nel racconto filmico.

Conosciamo però già dalle prime sequenze l’attrice Claudette Colbert nel ruolo della giovane ereditiera Ellie intenta a discutere con il padre – ricco banchiere incapace di imporsi ai capricci della ragazza – a bordo di una nave.

Il clima è particolarmente confuso: Ellie vuole sposare l’aviatore King, decisione alla quale il padre si contrappone, ma al culmine di quella che apparentemente sembrerebbe la solita lite familiare, la giovane scappa gettandosi in mare.

Raggiunta la riva trova la stazione più vicina facendo attenzione a non lasciare tracce con l’intento di arrivare a New York e sposare l’amato, non sapendo che nel frattempo il padre ha allertato le forze dell’ordine e la stampa giornalistica fissando una ricompensa per chi fosse riuscito a portare indietro sua figlia.

Ed ecco che entra in scena l’insensibile giornalista Peter che Ellie incontra nel tragitto per New York e che sin da subito progetterà un piano per firmare l’articolo di un ghiottissimo scoop relativo al ritrovamento della ragazza.

La viziata ereditiera, inizialmente indisponente verso chiunque osi rivolgerle la parola, sarà costretta, visto il mondo poco magnanimo che le si pone davanti, a fidarsi di Peter, l’unico sembrerebbe in grado di tenerle testa.

Interessante è l’evoluzione psicologica di due personaggi apparentemente superficiali.

Peter, che incarna la figura del tuttologo, del sapiente conoscitore di ogni qualsivoglia materia di discussione agli occhi di Ellie, in realtà manifesta infatti nel corso della commedia di Capra una sorta di trasformazione morale, presentandosi sotto una veste diversa, quella dell’uomo gentile e di qualità.

Un cambiamento che riscontriamo ancor di più nel personaggio femminile, che da ricca ereditiera, bambina viziata si direbbe, evolve diventando una semplice donna in una America straziata dalla Grande Depressione che l’ha colpita.

Evoluzioni non da poco se si tiene conto del mutamento che trasmettono gli stessi dialoghi tra i due: dai botta e risposta pungenti e senza esclusione di colpi nella stanza di un hotel della grande mela, in cui una tovaglia da tavola fa da divisorio tra i due (le mura di Gerico), si giunge a congetture sentimentali e al raggiungimento di un amore bello perché semplice.

Semplice come la sceneggiatura di una commedia romantica, leggera, ma per questo non banale e mai debordante in tratti volgari e nel facile sentimentalismo nei quali spesso si può inciampare.

Una pellicola capace di far sognare lo spettatore, intrisa di genuinità e di valori, in cui il messaggio predominante è che la felicità non è così difficile da conquistare se si è dotati di onestà e principi positivi.

Qualità non da poco attestate dal grande successo di pubblico riscosso, così come dagli Oscar ricevuti facendo di Accadde una notte il primo film nella storia ad aver vinto le cinque migliori statuette ambite (miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista).

Desirée Formica

7 ore per farti innamorare, commedia romantica del neo regista Giampaolo Morelli, si è garantita un ottimo successo di pubblico come si può constatare dal numero di ascolti che la pellicola ha riscosso nonostante il film, anziché essere trasmesso sul grande schermo, ce lo siamo visti comodamente seduti sul nostro divano in visione On demand.

Un esperimento rischioso, ma necessario per salvare il cinema e l’intrattenimento che mai come oggi non possono fermarsi!

E direi riuscitissimo e trionfante, non solo perché ci consente di non perdere le ultime uscite cinematografiche, ma anche perché al costo di circa e soli direi 8 euro possiamo gustarci un film in compagnia direttamente a casa propria.

Una commedia leggera, divertente quella di Morelli che, accanto a Serena Rossi, ne è anche il protagonista maschile interpretando, nella bellissima e scenografica Napoli, Giulio Manfredi, giornalista di economica fidanzato con Giorgia (Diana del Bufalo) la quale, in prossimità delle nozze, lo lascia per il vicedirettore del giornale per cui il fidanzato lavora e con cui ha una storia da tempo.

Due dettagli non da poco, in quanto Giulio perde in un solo colpo il lavoro, la fidanzata, ma anche le proprie convinzioni sul mondo giornalistico, in quanto, essendo troppo qualificato, viene “scartato” da qualsiasi testata alla quale invia il proprio curriculum, fino a che non si ritrova a essere assunto dalla “banale” Machoman, rivista maschile online, specializzata in chirurgia estetica, moda e gossip di vario genere.

Ma che nonostante ciò si presenta come un’occasione importante per un uomo come Giulio, mediocre, monotono si direbbe, privo di progetti personali, nonostante le grandi abilità in campo lavorativo.

Gli consente infatti di conoscere Valeria (Serena Rossi), “esperta del rimorchio”, convinta che l’attrazione fisica altro non sia che questione di chimica e che può scaturire solo rispettando determinate regole consentendo così a qualsiasi uomo di conquistare qualsiasi donna abbia di fronte, anche uno come Giulio che decide di seguire, assieme a un gruppo di uomini insicuri come lui, le lezioni dell’esperta per riconquistare Giorgia.

Ma è realmente così? Una donna può essere davvero conquistata attraverso delle regole? Con una determinata frase, uno sguardo, l’abito giusto?

Chissà… la commedia romantica di Morelli poco garantisce a riguardo perché è in realtà l’unicità di ognuno di noi ad attrarre e a farsi attrarre, caratteristica fondamentale capace di rendere leggero e divertente anche l’omonimo romanzo dal quale essa è tratta (7 ore per farti innamorare, Giampaolo Morelli, Ed.Piemme, 2019).

Regole ferree, rigide, alle quali poco ci crede chi le consiglia sono difatti le protagoniste di un film che pone al centro i sentimenti e le emozioni.

Una commedia che offre la descrizione di un sistema come il nostro, in cui si ha paura di lasciarsi andare, di essere se stessi per non soffrire e che ci impone, per nostra stessa convinzione, di essere qualcun altro.

Se pur manifestando inizialmente un po’ di lentezza e poco spirito innovativo, degna di nota è la capacità di Morelli di trasformare la trama in qualcosa di diverso da quelle americane, alle quali spesso il film è associato.

L’originalità sta infatti non solo nella naturale comicità tipicamente napoletana, ma anche nella qualità attoriale di Serena Rossi e dello stesso Giampaolo, coppia che ha manifestato caratteri spontanei e partenopei nel modo di recitare, un feeling non spesso facile da riscontrare.

Maria Pettinato