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Archivio tag: STORIA DELL’ARTE

Vincent van Gogh, notte stellata > Artesplorando

La carriera di Vincent Van Gogh dura poco meno di dieci anni vista la morte avvenuta in età prematura. Pochi anni si direbbe, ma assolutamente florida in quanto realizza oltre novecento opere.

Soffriva di distrubi mentali, condusse una vita sregolata ma con i suoi capolavori ha influenzato profondamente le correnti artistiche dal XX secolo in poi.

Solitario e tormentato, istintivo e sensibile, egoista e violento, ha di fatto utilizzato l’arte come veicolo delle proprie emozioni e visioni.

Attraverso un’anima inquieta e una visione distorta della realtà è riuscito a dipingere prendendo a modello la pittura realista e usando come soggetto gli umili, i lavoratori dei campi, i minatori, le nature morte, i paesaggi e gli autoritratti.

Soggetti che caratterizzano le sue opere insieme alla ricerca dei colori, in particolare del “giallo cromo” che contraddistingue molte delle sue opere  come I girasoli e La casa gialla. Elementi importanti perché capaci di trasmettere a chi guarda queste opere la sua tormentata esistenza.

Definire lo stile di Van Gogh è davvero difficile: alcuni lo definiscono impressionista, altri post-impressionista, altri ancora espressionista. In realtà il suo è uno stile unico proprio perché caratterizzato da un’energia malinconica, misteriosa e a tratti tenebrosa.

Potrebbe essere definita la pittura delle emozioni contrastanti e questo emerge dal fatto che ogni ritratto, così come ogni paesaggio, assumono caratteristiche soggettive.

Una pittura perciò originale come si può notare da Notte stellata, un olio su tela realizzato nel 1889.

È uno dei dipinti più famosi di Van Gogh e rappresenta il vivace paesaggio notturno di un paesino della Provenza, le cui finestre, illuminate da luci artificiali, con un movimento a vortice ottenuto da circolari pennellate – simbolo di inquietudini interiori – , sono collegate alla luce della natura, proveniente dalla luna e dalle stelle.

Ed ecco che da una lettera scritta al fratello emerge la concezione che l’artista aveva della notte: viva e molto più colorata del giorno, caratteristica assolutamente evidente nell’opera.

L’inquietudine è qui proporzionata alla vastità del grande cielo blu: gli spazi sono colpiti dai raggi chiari della luna, rappresentata in modo stilizzato e accesa dal giallo dorato, stessa tonalità che rende protagoniste le stelle in contrasto al blu profondo del cielo.

Esse sembrano infatti piccole boe galleggianti in un mare notturno, trasportate da onde gigantesche nel turbine marino, quello di tutti noi spettatori che, abbagliati dalla notte stellata, viviamo emozioni senza tempo.

Fresia Pietro, 2 A Classico

Quando si parla di energia le interpretazioni variano fortemente, anche se sono tutti concordi sul fatto che essa sia in primis il motore che guida la nostra interiorità e quella degli altri.

Energia è infatti azione, vigore, dinamismo, forza, e per questo può considerarsi il vortice dinamico della nostra esistenza.

La sua essenza è presente in noi stessi, nel nostro movimento, nella nostra voce, nelle nostre qualità intellettive, ma anche nella bellezza della natura. La vediamo in effetti nella luce del sole, nel movimento della luna, nei cambiamenti climatici, nel dinamismo del mare.

Ma se noi volessimo darle una forma o un colore o se volessimo semplicemente accostarla a uno stato d’animo?

Lo ha fatto – e lo fa – l’arte figurativa che da sempre ha manifestato la grande capacità di presentare all’osservatore, in modo personalizzato, ciò che vive-viveva nella mente dell’artista. In un certo senso la sua energia.

È difatti dimostrato scientificamente come gli impulsi ricevuti dal cervello vengano trasmessi sulla tela dopo essere entrati in simbiosi con l’emozione e l’istinto.

Un connubio perfetto si direbbe perché è da questo che si creano sensazioni ed emozioni di grande impatto quando quella tela la si ha davanti e che spiegherebbe il concetto di catarsi, associato spesso all’arte.

Ma andiamo a vedere alcuni degli artisti e i rispettivi movimenti artistici che hanno incentrato la propria essenza sulla raffigurazione di ciò che per loro poteva definirsi energia.

Il primo è decisamente il Romanticismo, movimento artistico nato tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, il quale ha impostato, nella sua corrente naturalistica, il sublime come concetto chiave.

L’energia della natura in tutte le sue sfumature è potente e vitale, capace di schiacciare l’uomo, impotente, piccolo, un puntino di fronte alla suprema immensità.

Grande esponente di questo pensiero è William Turner che, mediante un altissimo livello di astrazione e una materia pittorica molto spessa, presenta un piccolo uomo di fronte alla potente energia luminosa nel dipinto del 1843 intitolato Luce e colore. Il mattino dopo il diluvio.

Luce e colore. Il mattino dopo il diluvio (1843)

La luce qui è ambivalente, così come la natura, perché è colei che può distruggere e creare a suo piacimento. È amica e nemica dell’essere umano.

Un uomo che diventa però il protagonista da un punto di vista dinamico, di forza e di movimento quando si parla di un’altra corrente artistica, il Futurismo.

Ad emergere a riguardo è la necessità di esprimere il reale attraverso il concetto di energia dinamica, sinonimo di sintesi e velocità. Elementi che solo l’uomo e la sua innovazione possono esprimere.

Ed ecco che l’energia è rappresentata dalla città fatta di lavoro e meccanizzazione in La città che sale (1910), dipinto realizzato da Umberto Boccioni, uno dei maggiori esponenti della grande avanguardia italiana, la cui data di nascita è convenzionalmente associata al 1909 e quindi alla pubblicazione de Il manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti.

La città che sale (1910)

Un dipinto dai colori caldi quello di Boccioni, sinonimo di passione, di forza, ma anche di vitalità primordiale rappresentata metaforicamente dall’immagine del cavallo, frammentata e replicata quattro volte per esprimere la rapidità del movimento, ma allo stesso tempo il confronto tra civiltà meccanica ed energia iniziale.

L’energia però è anche sentimento, intensità, emozione individuale. E l’arte, nella sua essenza, trasmette anche quella.

Questo è un concetto chiave per comprendere un altro movimento artistico, più attuale, ma a mio avviso più intenso rispetto ad altri: l’Action painting.

Un modo di dipingere l’azione e il sentimento in modo dinamico, automatico, in cui non è più “l’oggetto” il protagonista, ma è finalmente l’atto del dipingere.

È colore che cola attraverso la tecnica del dripping, è scelta cromatica e tutto ciò che ne scaturisce. Travolge, graffia, attacca nella sua forza creando impatto e comunicando impulso.

Ora difatti i protagonisti sono l’espressione, l’inconscio, le pulsazioni dell’artista, e quindi la sua energia interiore. Ecco che l’arte diventa esperienza liberatoria allo stato puro.

Convergence (1952)

L’esponente principale di tale azione è Jackson Pollock, per il quale la tela, come si nota in questo dipinto del 1952 appartenente alla serie intitolata Convergence, è un’arena in cui la sua psicologia, il suo gesto e il suo stato d’animo escono fuori e comunicano forza all’osservatore-spettatore invadendolo letteralmente e offrendogli così un’esperienza unica.

Maria Pettinato

Vitale, estrosa, alternativa. Qualità decisamente associabili a una delle icone artistiche più importanti a livello mondiale, Frida Kahlo.

Tutte vere certo, ma c’è solo questo? In realtà no e questo emerge dalla lettura de Il diario perduto di Frida Kahlo, romanzo d’esordio della scrittrice e psicologa messicana Alexandra Scheiman edito da Bur Rizzoli Narrativa.

Il diario racconta la storia della pittrice messicana nella sua essenza e si direbbe nella sua tristezza, dall’infanzia con tanto di diagnosi di poliomielite, al drammatico incidente all’età di diciotto anni, dall’amore passionale con Diego Rivera, al suo intenso legame con l’arte.

Ne viene fuori una prospettiva diversa sotto tanti aspetti, potrebbe dirsi nuova.

La protagonista della biografia infatti non è “Frida la pittrice”, vero mito artistico, ma è una donna debole nella sua forza. Un personaggio differente, decisamente reale, con le sue sofferenze e la sua determinazione.

Una descrizione mai banale non solo per l’oggettiva drammaticità degli eventi, si direbbe mai noiosi, che hanno accompagnato la vita della Kahlo, ma anche perché a renderla unica è la tematica mistica che la caratterizza.

Visioni, sensazioni, energie diverse prendono forma all’interno del testo. Si materializzano nell’immagine di un Messaggero dal cavallo bianco, portavoce della Morte, o in quella della donna-velata, più volte presente nella vita della pittrice.

Momenti dai quali emerge una Frida contemplativa, spirituale, legati a un contesto più ampio, qual è il legame secolare Morte-Messico.

Ed ecco che Frida, pur presentandosi spesso accompagnata da figure importanti da un punto di vista politico oltre che artistico, dimostra ne Il diario perduto di essere prima del personaggio, dell’icona, del mito irraggiungibile, semplicemente una donna che Ama.

Non è più dunque estrosità l’aggettivo primario, ma Sacrificio è il termine che più le si addice. Metaforicamente esso è legato al patto che Frida stipula con la Morte, quello di sopportare il dolore in cambio della felicità dei suoi cari o di un istante in più di vita terrena.

E poi viene l’arte, intesa come la liberazione, la gioia colorata nella sua vita grigia.

L’arte che è capace di esprimere con le sue tonalità i colori dei frutti, il profumo del cibo, il sapore delle sue ricette culinarie, protagoniste indiscusse alla fine di ogni capitolo del diario. Ma allo stesso tempo il tentativo di manifestare ciò che lei, diva incontestata, sentiva dentro.

Maria Pettinato

Nandan He, Walking in the Wall, Stop motion animation, Charcoal on Wall, 2019

28 ottobre-14 novembre 2020, MA-EC Gallery In collaborazione con Zing Art Group

Il prossimo 28 ottobre apre alla MA-EC Gallery la mostra Duality. Nothing is as it appears?, esposizione collettiva di artisti internazionali. La mostra si inserisce nel circuito CONTEMPORARY ART MILAN che presenterà periodicamente eventi selezionati di arte contemporanea a Milano.

La mostra sarà visitabile solo su appuntamento, prenotandosi al seguente link www.ma-ec.it.

Mercoledì 28 ottobre dalle 18 alle 20 saranno presenti lo staff ed alcuni artisti della mostra.

In un periodo complesso come quello che stiamo vivendo, dove verità e pseudoverità si sovrappongono, si vuole porre l’attenzione sulla dualità intesa proprio come condizione di compresenza di due principi.

La riflessione nasce dall’idea di non esistenza di assoluto e di unicità ma di gioco dialettico e concettuale in cui tutto sembra avere il suo contrario
e la sua altra parte complementare. Tutto è in costante cambiamento e l’armonia sta nel mantenere in equilibrio la dualità di due elementi opposti, assenze e presenze della nostra perenne trasformazione.

Xiaotong, Silent Dialogue In Front Of The Mirror carving, Drypoint and Chine Colle, 2017

Nelle prestigiose sale di Palazzo Durini, si alternano dipinti, fotografie e installazioni, opere con cui gli artisti offrono una chiave di lettura della dualità, e diverse declinazioni dei temi dell’apparire e dell’eterno paradosso che avvolge l’esistenza.

Tra gli artisti che espongono, meritano attenzione Xiaotong Chen, Nandan He, Jiaoyang Li, Rui Sha.

Jaoyangi, Promise to Enter The Oversized Hat o1, Video Art, 2019

Xiaotong Chen (1996 Pechino, Cina) è una artista di New York che si impegna con vari media d’arte per esplorare la potenza del sé e le espressioni artistiche. È interessata ad esplorare il linguaggio della materialità e dei media. Ibridando la nostalgia per l’estetica orientale con le tecniche artistiche occidentali, il suo lavoro si snoda fluidamente tra arte e artigianato, natura e artefatto, personale e universale. Tra le sue recenti mostre, 2020 Ode to Osedax, LATITUTE Gallery, 174 Roebling St. Brooklyn, New York 11211, We Will Meet Again, New Apostle Gallery, Unity (virtual gallery, CritiART), Art of the Book Pratt Institute Library, Brooklyn, NY 11205.

Jaoyangi, Promise to Enter The Oversized Hat o2, Video Art, 2019

Nandan He (Guangdong, Cina 1991) è una artista multimediale il cui lavoro oscilla principalmente tra scultura interattiva, mix media, video/animazione, installazione.
Le opere di Nandan sono frammenti di un viaggio di recupero verso il suo strano fantasma e la sua nichilista appartenenza. La sua generazione è cresciuta in una percezione tale che la realtà è la cosa più surreale. Quando tutto accelera, fluttua in una struttura sociale emarginata e cerca di capire l’equilibrio tra lei e il mondo.  Crea spazi intimi che esplorano la crudezza di un sé contemporaneo e rivela un ordine irrazionale di un paese delle meraviglie iper normalizzato.

Jaoyang Li è laureata alla Goldsmiths, University of London-BA English Literature and Creative Writing, e poi ha frequentato la New York University MFA Creative Writing-Poetry (2017-2019). Tra le sue mostre e performance, citiamo Video-performance in VR online Installation Selected by Bond International Virtual Live Performance Festival 2020Fish Skin City, mostra alla Greenpoint GalleryThe Young Who disappear into birch, Video-poema del Tenderness Project, finanziato da Ross Gay e Shayla Lawson. Il video “I Promise to Enter The Oversized Hat” è stato girato nell’agosto del 2020, al culmine della pandemia: un amico gay stava per tornare in Cina, e il futuro sospeso era sfocato come il suo genere. In ogni caso, decise di indossare una veste di piuma per l’ultimo ballo a Manhattan.  Nel mondo reale, le persone vivono come fantasmi. Che si tratti del corpo, della memoria, dell’identità politica o del genere, tutto può essere lasciato ovunque.

Rui Sha è una artista interdisciplinare che lavora principalmente nei campi della scultura e dei nuovi media. È cresciuta a Pechino e ha lavorato come designer, poi si è trasferita a Chicago, dove si è laureata presso l’Art Institute di Chicago. Utilizza materiali vari di uso quotidiano che diventano espressione della sua sfera emozionale. Le sue opere sono da guardare, ascoltare, percepire e coinvolgono lo spettatore. Il suo lavoro è stato esposto in luoghi come Roman Susan (Chicago, IL), Krasl Art Center (St. Joseph, MI), CICA Museum (Gimpo, Corea del Sud).

Artisti in mostra:

  • Gui Bin
  • Hai Chen
  • Xiaotong Chen
  • Maria Silvia Da Re
  • Daniela Da Riva
  • Hairuo Ding
  • Nordan He
  • Jiaoyang Li
  • Yan Li
  • Fangsuo Lin
  • Yuxin Liu
  • Oriella Montin
  • Cristina Navarro
  • Wenting Ou
  • Zhiwei Pan
  • Valeria Eva Rossi
  • Rui Sha
  • Zhangliang Shuai
  • Franco Tarantino
  • Tomas
  • Sine Zheng

Coordinate mostra:
Titolo: Duality. Nothing is as it appears?
Sede: MA-EC Gallery Palazzo Durini, Via Santa Maria Valle, 2 Milano 20123

Ingresso solo su prenotazione al seguente link www.ma-ec.it
Date: Dal 28 ottobre al 14 novembre 2020
Info: info.milanart@gmail.com; staff@ma-ec.it

La donna è da sempre un modello raffigurato nell’arte, da quella pittorica a quella scultorea, per arrivare a quella architettonica dimostrando così come la sua fisicità sia stata un motivo di studio artistico e con questo un mezzo per documentare la visione che nella società si aveva della donna.

È interessante notare come documenti artistici di vario genere abbiano contribuito non poco alla spiegazione dei cambiamenti di mode, di modi di pensare e di vedere del mondo fin dalla comparsa dell’uomo.

Partendo dal presupposto fondamentale che la donna sia ben altro che un semplice corpo, ho selezionato alcune opere che consentono di comprendere l’evoluzione (o degenerazione?) del canone fisico femminile nel corso della storia.

La Venere di Laussel appartiene al cosiddetto ciclo di Veneri preistoriche che collochiamo nel Paleolitico superiore. Trovata vicino a diverse rocce incise da soggetti abbinati al concetto di procreazione, la Venere di Laussel, dal nome del luogo di ritrovamento, altro non è che la raffigurazione della fertilità.

Venere di Laussel, 12.000 a.C.

Dal bassorilievo alto circa 43 cm traspare una donna con fianchi adiposi, attributi femminili accentuati e un corno sulla mano destra, simbolo anch’esso di feracità.

Ad emergere è dunque una donna formosa e abbondante, a dimostrazione del fatto che durante l’età primitiva il canone di perfezione femminile era la rotondità.

Uno dei più grandi capolavori esistenti secondo gli storici dell’arte è ovviamente l’Afrodite di Cnidia, opera di Prassitele andata purtroppo perduta, ma di cui rimane una copia romana fedele all’originale.

Chiamata Cnidia dagli abitanti di Cnido (Asia Minore), compratori dell’opera, dei quali si narra siano rimasti talmente abbagliati dalla bellezza e dalla sontuosità dell’opera classica da essersene innamorati, presenta due importanti novità.

Afrodite di Cnidia, Prassitele, 360 a.C.

La prima riguarda la nudità del soggetto femminile, che fino a quel momento era considerato un tabù per i greci, a differenza che per i soggetti maschili il cui corpo idealizzato era degno di essere mostrato.

Una novità ovviamente non da poco quindi e ancor più scandalosa perché non si parlava di una donna qualsiasi, ma di una dea.

La seconda novità riguarda il gesto che una dea non avrebbe mai fatto: asciugarsi con un panno dopo il bagno.

Un atteggiamento quotidiano, tipicamente umano, così com’è la figura in sé dalle cui forme morbide e dolci traspare una seduzione completamente naturale, tenera e lucente.

Prive di forme, caratterizzate da ripetitività e bidimensionalità sono le Vergini della decorazione musiva della Basilica di Saint’Apollinaire Nuovo (Ravenna).

Vergini, Basilica di Saint’Apollinaire Nuovo, 526 d.C.

Sono donne immobili, prive di volume, completamente coperte. Caratteristiche queste tipicamente bizantine, ma allo stesso tempo capaci di comunicare il ruolo secondario della donna, “schiacciata” dall’uomo medioevale. Una donna che non doveva emergere perché questo avrebbe significato indurre l’uomo al peccato.

Uno dei capolavori indiscussi del Rinascimento, La Nascita di Venere di Sandro Botticelli, rappresenta una donna slanciata e aggraziata, la cui nudità non è più sinonimo di fertilità, così come non è più il simbolo del peccato, ma è naturalmente bellezza spirituale.

La Nascita di Venere, Sandro Botticelli, 1485

Lei, Afrodite, i cui tratti del volto sembrerebbero essere quelli della nobile Simonetta Vespucci, nasce portando con sé purezza, semplicità e nobiltà d’animo.

E ancora una volta la bellezza della donna è rappresentata dalla morbidezza delle forme.

Evidente è la fastosità barocca nelle Tre Grazie, opera realizzata dal pittore fiammingo Pieter Paul Rubens, il quale rappresentando la danza delle tre divinità della grazia e della gioia di vivere, ci offre l’immagine della perfezione femminile seicentesca: fianchi e cosce con adiposità e forme morbide.

Tre Grazie, Pieter Paul Rubens, 1638

Nel secondo Ottocento la bellezza femminile non è nuda, ma vestita ed è questo che la mostra in tutta la sua sensualità ed eleganza. A renderne l’idea è la Parigina di Édouard Manet, ritratto dell’attrice francese Ellen André.

Parigina, Édouard Manet, 1881

È una donna moderna, uno status symbol irraggiungibile, la donna che tutte vorrebbero essere, il cui abito diventa il protagonista e l’oggetto della sua voluttuosità.

Seducenti e dall’aspetto classicheggiante sono le donne ritratte dal pittore preraffaellita/neoclassico John William Godward.

Donna con drappo giallo, John William Godward, 1901

Una di queste è la Donna con drappo giallo, la quale comunica nella posa ammaliante, nella vivacità coloristica e nella trasparenza della veste dalla quale si intravedono i seni e le forme femminili una forte componente erotica.

Rappresentazione della cosiddetta femme fatale novecentesca è l’austriaca Adele Bauer ritratta durante il suo periodo d’oro dal pittore Gustav Klimt, meglio conosciuta con il titolo Donna in oro, viste le origini ebraiche della donna e l’occupazione nazista dell’Austria.

Adele Bauer (Donna in oro), Gustav Klimt, 1907

La bocca è rossa, la carnagione è molto chiara, le guance sono rosee e le mani sono intrecciate nervosamente tra loro, caratteristiche queste ultime che richiamano quello che era la donna dell’epoca.

Unici elementi tridimensionali in un dipinto quasi completamente bidimensionale e dal forte richiamo bizantino come si nota dall’oro e dalle forme che richiamano fortemente le tessere musive.

Ed ecco che la formosità e la morbidezza del corpo femminile che ci hanno accompagnato fino a questo momento cominciano a lasciare spazio ad un fisico scheletrico e ad un volto da bambina negli anni Sessanta.

Un periodo nuovo è infatti alle porte, la donna delle nuove generazioni è diversa, o meglio si sente diversa dalle proprie madri. È emancipata, porta la minigonna e vuole emergere.

Twiggy, anni Sessanta

Lo dimostra Twiggy, il “ramoscello” dal quale traspare una magrezza fino a quel momento considerata malata. Un fisico che da lì a poco si sarebbe trasformato nel canone fisico da inseguire perché a dire che doveva essere così ci pensavano le riviste di moda.

Un criterio che ci ha accompagnate in periodi più o meno lunghi, magari intervallati da momenti in cui la forma del corpo femminile “arretrava” un po’ verso la formosità delle origini, ma che bene o male è rimasto ben impresso nella mente di giovani donne che spesso, talmente offuscate da immagini a dir poco pubblicizzate, cadono vittime di malattie alimentari e nell’annullamento della propria individualità.

Maria Pettinato

“L’arte degli affari sta

un gradino al di sopra dell’Arte”

Da A a B e ritorno. La filosofia di Andy Warhol
(1975, Andy Warhol)

Questa affermazione sintetizza coerentemente un capovolgimento nell’assunzione di valori, in atto semi-consapevolmente all’interno della società americana di quegli anni.

Presupponendo che la capacità di organizzare un rapporto di forze finanziariamente favorevole rispetto all’orientamento presente nella società in quel momento, costituisca una raffinatezza di grado superiore al valore reale del proprio contributo all’evolversi della società stessa.

Parafrasando ed estremizzando è come dire che l’arte di guadagnare con la guerra è un gradino più in alto della guerra.

Tutta la gamma possibile a cui adeguare questo rapporto di valenze tra opportunismo e abilità ha purtroppo, dal punto di vista pratico, innumerevoli esempi a suo favore, riscontrabili nella diffusa convinzione che l’idealismo non paghi, che sia il risultato economico il valore più alto a cui aspirare.

L’affermazione warholiana è un sintomo della tendenza alla corsa ad arrivare, avvertita in maniera crescente nel mondo dell’arte, che pretende naturalmente sconti molto alti tra cui la non partecipazione emotiva, una valutazione delle idee finalizzata al guadagno, un lasciarsi trascinare consensualmente o apaticamente dalla eco del “più forte” per poter cogliere i consistenti frutti promessi anche se molte volte marginali, dati, elargiti come premio alla propria accondiscendenza ideologica o alla propria sudditanza creativa.

Del resto molta parte della società americana degli anni 60/70 anestetizza l’angosciante dasein, “l’esserci” tedesco, il vivere qui e ora un presente incerto e oscuro, con l’accettazione conformistica e festosa delle regole vincenti produzione/consumo che in qualche modo sanciscono una superiorità se non altro economica del modello americano rispetto al vecchio modello europeo o al contrapposto modello socialista.

Il consumismo diventa emblema di uno stile di vita di successo finalmente tutto americano e quindi simbolo di un riscatto psicologico dal sentimento di inferiorità culturale vissuto nei confronti dell’Europa.

La Pop Art è Populary Art (Arte Popolare). Si esclude o autoesclude dal “colto” di stampo storico europeo, lo contesta da una posizione di inferiorità e diversità psicologica ma lo surclassa agilmente alimentata dal positivo riconoscere la supremazia, soprattutto dal punto di vista economico e comunicativo, dello stile di vita americano.

Il riscatto culturale della giovane, divoratrice America forgia i propri nuovi parametri espressivi con i mezzi che ha a disposizione: esaltando, ingrandendo, colorando le immagini degli stereotipi dei messaggi mediali dei simboli del consumo di massa, delle codificazioni, persino delle proprie paure e frustrazioni.

Contribuisce al tentativo di formare uno spirito coesivo in una società multirazziale espressa dall’aggregazione degli strati più poveri e marginali degli altri continenti, rendendola complice e partecipe della creazione dei propri miti culturali, della scoperta “dell’uguaglianza nel consumo”.

Elaborando una “Estetica della Banalità” facilmente recepita da tutti proprio perché prossima e cogente con i mezzi e le immagini delle sollecitazioni al desiderio insite nella comunicazione consumistica.

Il fattore commerciale trova in Andy Warhol la sottolineatura più eclatante. La sua Factory della 47° Rue Est nasce producendo idee e immagini pubblicitarie, utilizzate per vendere. E a sua volta si pone sul mercato vendendo idee e immagini da inserire nel circuito strettamente commerciale.

Immagini non considerate quindi per il loro valore in quanto spontanee risoluzioni di un pensiero artistico, ma quali mediatori grafici, di immediata assimilazione, di messaggi costruiti per incrementare l’induzione al consumo. Immagini studiate per “calzare” i modelli dello status, delle convenzioni mercantili e renderli desiderabili, persuasivi, confortanti.

Immagini non considerate quindi per il loro valore in quanto spontanee risoluzioni di un pensiero artistico, ma quali mediatori grafici, di immediata assimilazione, di messaggi costruiti per incrementare l’induzione al consumo.

Immagini studiate per “calzare” i modelli dello status, delle convenzioni mercantili e renderli desiderabili, persuasivi, confortanti.

Ma se un lavoro creativo finalizzato all’industria di per sé non può bastare a giustificare la mitizzazione di cui è stato oggetto, il vero successo della Factory e del suo Vate va ricercato nella promiscuità ideologica, nella mescolanza e cooperazione con tutte le correnti di pensiero presenti a New York in quel momento, che ne fa una sorta di sintesi esistenziale frequentata e proficua, della creatività metropolitana dell’epoca.

La Factory, l’officina, la fabbrica prima maniera è un luogo aperto, ricettivo sgangherato, un po’ kitch; pronto ad assimilare senza filtri di nessun genere, qualsiasi impulso creativo che provenga dall’esterno e possa essere alimentato per la stessa esistenza della variegata fauna umana che anima il posto.

All’interno di esso circolano personaggi di ogni estrazione sociale, stravaganti figure dandy e prostitute dei due sessi, insieme agli esponenti del glamour internazionale e ad artisti affermati nei diversi campi dell’espressione: dalla musica alla fotografia, alla pittura.

Luogo di perdizione per eccellenza nell’immaginario newyorkese, era un esempio di quanto il denaro e la fama (ma non solo) potessero essere elementi di aggregazione tra “parassiti della peggior specie” e l’elite del bel mondo americano, tra culture sotterranee dell’arte, del sesso, della droga, delle perversioni e la ricca borghesia, i grandi mercanti d’arte, l’opulenza fastosa dei nuovi ricchi.

Un esempio insomma, di quella apparente democraticizzazione e uguaglianza auspicata per il nuovo pensiero americano. Tra le pareti rivestite di luccicante carta stagnola, nella vecchia officina riadattata a tempio-custode dello “spirito del tempo” si incontravano e intersecavano espressioni di ogni genere, attorno ad un abulico, apatico dio dal viso infantile e pallido dal quale si aspettava anche solo un cenno di approvazione.

La forza di Andy Warhol sta proprio nel suo lasciarsi trascinare quasi con indifferenza nei meandri profondi delle marginalità, evitando accuratamente il gorgo incandescente delle passioni umane.

L’alone di innocente, spaurito bambino terribile che si nutre di sequenze televisive e di Campbell’s Soup come ogni buon americano, invece che di reali sensazioni, riuscendo comunque a ricavarne fama e onori, legittima culturalmente il desiderio di successo del self-made-man e lo equipara ad ogni altro nobile sentimento umano.

L’arte degli affari si insinua al di sopra dell’Arte in una sorta di riscatto storico/mitico consacrato dalla diversa Estetica sua propria, da parte di quella disperata massa urbana e suburbana dell’ovvio, del banale, del convenzionale; ma anche dell’indigenza, della devianza, del vizio, della corruzione che scopre nella superficialità la chiave per catartizzare lo stato di macerazione e abbandono nelle proprie miserie ed anche una conquistata, o subita, soluzione di continuità culturale.

Si afferma un nuovo punto, apparentemente rassicurante, semplice e indolore, da cui costruire collettivamente altre “mappe” percettive con le quali esplorare i territori reali a cui si riferiscono, così vasti e terrificanti: la superficialità delle cose.

Il loro momento evanescente, frivolo, vacuo. La zona di confine esterna ed estrema; la microcellula temporale sfuggente e minimale, perennemente in bilico tra il profondo ed il nulla: che contiene in sé tutte le casuali macroscopiche da cui è stata generata.

Nello specchio variopinto e riflettente, sufficientemente estraneo e neutro al suo creatore -tanto da potersi caricare dell’emotività del fruitore- delle serigrafie, dei film, delle immagini di Andy Warhol, nella meccanica serialità delle ripetizioni ossessive, estremizzate, decorative, inespressive, nella superficialità fin troppo ostentata, ermetica nella sua banalità, sono incluse poesia della morte, allegria e angoscia, in una miscellanea ambigua, sottile, terribile.

Punto estremo dell’assunto duchampiano, sintomo di un disagio profondo di non facile soluzione, e segnale di un’inversione di tendenza nella ricerca artistica che andrà sempre più volgendo verso la rappresentazione didascalica e verso la costruzione di personaggi e miti mercenari anziché di vere sollecitazioni.

Cristina M. D. Belloni

Lo scorso 29 aprile l’insidiosa pandemia di Covid 19 ha stroncato la vita di uno dei protagonisti più attivi e discussi del mondo dell’Arte.

Germano Celant, critico, teorico, spirito libero e divulgatore attento della produzione artistica soprattutto italiana nel contesto mondiale, ci ha lasciati all’età di ottant’anni.

Nato a Genova, dove ha saputo negli ultimi decenni del ventesimo secolo proporre mostre ed eventi culturali “spiazzanti”, fuori dal comune sentire e dagli schemi ristretti della provincia, ha ottenuto nel corso del tempo i dovuti riconoscimenti per il suo instancabile lavoro di curatore e talent scout, in molti contesti internazionali.

Un “pensiero laterale” che gli permette di ricercare quei linguaggi artistici che siano all’avanguardia rispetto alla riduzione dell’opera d’arte a “mercificazione di lusso” per alimentare il mercato del collezionismo. Riuscendo eppure, paradossalmente, a influenzare autorevolmente quello stesso mercato.

Nel 1997 viene chiamato a dirigere la 47ª Biennale d’Arte di Venezia; dal 1995 è il curatore della Fondazione Prada nelle sedi sia veneziane che milanesi.

Sarà curatore senior del Guggenheim Museum di New York dal 1988 al 2008, dove peraltro contribuirà alla divulgazione dell’arte italiana. In particolare con la grande esposizione Italian Metamorphosis del 1994 , nella quale presenterà opere dell’ingegno italiano dal 1943 al 1968.

Arte, design, architettura, cinema, moda, fotografia, per un totale di 850 lavori che hanno testimoniato il grande cambiamento italiano dallo sbarco americano dell’ultima guerra sino alla allora contemporaneità. «Un’invasione al contrario» come l’ha definita lo stesso Germano Celant.

Vorrei qui fare un omaggio alla sua attività ricordando una delle più belle ed esaustive esposizioni che ha organizzato proprio a Genova nel 1981 sull’Inespressionismo Americano.

Il gergo inquieto – Inespressionismo Americano

Parlare dell’Impressionismo americano significa addentrarsi in quanto di più ostico ci sia per la mentalità ancora per molti versi tardo-romantica europea e italiana in particolare.

Eppure alcune delle basi filosofiche sono state pensate ed enunciate proprio qui, in Europa, e anche lo spiazzamento psicologico che costituisce il substrato fertile e principale del filone inespressionista, sviluppatosi nell’America post-industriale degli anni Settanta e Ottanta, ha molto a che vedere con il rapporto tra modi di vedere differenti come quello americano e quello europeo.

Ma anche con la rottura di continuità culturale venutasi a creare all’interno della promiscuità etnologica del “mondo nuovo” nelle generazioni successive alla grande ondata di immigrazioni della prima metà del secolo.

È il “Dasein”, “l’esserci heideggeriano” che nella pronuncia tedesca assume foneticamente tutta la profondità che vuole esprimere: l’inquietudine esistenziale espressione di un nuovo vuoto di certezze aprioristiche nel rapporto tra l’uomo e la sua esistenza come “immediatezza non oggettivabile”.

All’interno del coinvolgimento nel quale lo scorrere del tempo e gli eventi avviluppano materialmente e senza possibilità di trascendenza l’osservatore che rimane “dentro” agli eventi stessi e ineluttabilmente li subisce ma anche modifica con la sua presenza.

Ciò ben si attaglia alla situazione di crisi e di messa in discussione della produzione artistica in relazione con il sociale e con il significato stesso del fare arte che in America e a New York in particolare sviluppa un linguaggio estremizzante volto verso un’apparente superficialità, assenza intellettuale, non-espressione e non-definizione, e un certo tipo di “conformismo contenutistico”.

Infatti i cosiddetti movimenti di avanguardia che vanno dell’Espressionismo Astratto degli anni Cinquanta, alle fluidità di Fluxus, alla Pop Art, alla Body Art e così via, oltre ad avere notevolmente ampliato la gamma dei comportamenti concernenti l’attività del fare arte, aprendo un varco verso la totalità comprensiva delle situazioni che determinano nell’essere Uomo un rapporto con il proprio Sé analogico, hanno anche aperto il vaso di Pandora della questione di dove in definitiva siano i limiti di questa libertà espressiva e quanto il fattore etico abbia a che fare con questi limiti o meno.

D’altro canto il venirsi a creare all’interno del mercato dell’arte, di una penuria di oggettivazioni artistiche, dei prodotti commerciabili, peculiari dell’arte stessa, dovuta alla concettualizzazione, alla progressiva e sempre più radicale astrazione fattiva da parte delle ricerche condotte nel campo, ha prodotto un “correre ai ripari” degli operatori interessati: galleristi, critici d’arte, e mercanti.

E a un prendere piede ai fini “mercantili”, ma non solo, della teoria di una possibile “democratizzazione dell’arte”, di un’arte cioè che servendosi di tutti i mezzi tecnologici che la comunicazione di massa e le moderne tecniche di conquista del mercato mettevano a disposizione.

Un arte che riuscisse a coinvolgere un pubblico più vasto e meno elitario, a divenire serigrafia, a produrre non ideologie ma di nuovo immagini che fossero più vicine al gusto delle grandi masse a cui dovevano essere dirette.

Le due grosse questioni enunciate hanno avuto un peso molto rilevante nel determinarsi della inevitabile crisi venutasi a creare.

Questa è una crisi ideologica generalizzata a tutto il tessuto culturale e a tutt’oggi presente e viva nel contesto; la causa della quale va ricercata paradossalmente proprio nell’avvenuta liberazione dell’esperienza artistica da schemi e metodologie specifiche, perché si muovesse verso quella comunicazione a-tutto-tondo sovrastante l’arte stessa.

Liberazione e comunicazione dunque, ispirate a una crescita evolutiva e sociale potenzialmente dilagante, a una analisi sempre più capillare delle possibilità della percezione umana di affinarsi, caratterizzanti il ventennio precedente, che sul finire degli anni Settanta vengono a scontrarsi con la messa in discussione delle loro stesse prerogative di avanguardia, nelle aspirazioni giudicate “puriste e moralistiche” e come tali ulteriori “prigioni linguistiche e processuali”.

Lo spiazzamento che ne deriva è enorme, epocale: per la prima volta a essere messa in discussione è la spinta trascendente dell’arte, è il legame tra Etica ed Estetica rimasto inviolato dall’Antica Grecia sino alle espressioni più dissacranti della cosiddetta Avanguardia.

E del resto, come abbiamo già detto, un piazzamento di ordine esistenziale che coinvolge l’intera società, specialmente quella americana così svincolata da legami storici a cui riferirsi e letteralmente bombardata da notizie e immagini dell’era della comunicazione.

Quell’esserci, essere in questo mondo non per scelta, dal quale però non si può prescindere, che accomuna nelle stesse, sottilmente avvertite, inconsapevolezza e impotenza, milioni di persone.

“L’essere in”, in cui l’orientamento artistico non è che lo specchio ancora una volta opaco e incerto ma a cui si chiedono autorevoli conferme culturali: si chiede di essere l’esteriorizzazione estetica di una superficiale estraneità che funge da scudo, tentativo di trasformazione poetica di una “stranianza” che vuol ridurre l’imput della carica emotiva dell’evento vissuto a scena televisiva.

Un volersi a tutti i costi difendere dall’aggressione della vita riportando scene minimali o filtrate oltremodo.

«La vocazione a mettere in discussione i processi quando la procedura del fare arte si spegne e il ritratto della cultura mostra l’espressione terrorizzata di chi attende dietro il bancone la richiesta, un vero e proprio comando, di cosa servire […]», così descrive la situazione Celant nel suo saggio sull’Inespressionismo Americano pubblicato a Genova nel 1981 in occasione della grande rassegna dedicata a questo tema.

Il superamento dell’idea di “capolavoro” come unità linguistica, punta estrema nell’ordine di merito del contesto artistico, la scoperta gioiosa di un modo molto più semplice di concepire la funzione dell’arte nella crescita umana, innesca meccanismi liberatori che però, oltrepassando i limiti consacrati della “grandezza” dell’arte stessa, aprono baratri di incertezze ancora maggiori.

L’immagine seriale, quella televisiva o filmica, soggetta a iterate ripetizioni nell’ingranaggio pubblicitario, a remake di episodi noti.

Sicure reinvenzioni di altre immagini appartenenti al passato, al già visto o al lontanissimo nel tempo e nello spazio quindi già interpretate e assimilate, rassicurano sia l’autore che il fruitore di quelle incertezze incombenti.

La non-espressione dunque, il ritratto riflesso dello stereotipo, del banale, del kitch acquista valore simbolico di per se stesso, ma al tempo stesso intrappola una nuova analisi dell’immagine: un isolamento dal contesto storicistico e continuativo, una sorta di archetipo interposto tra l’azione già avvenuta e l’interpretazione emotiva.

Così nei lavori di Robert Longo, siano essi disegni, rilievi, sculture o performances, l’aspetto scenico preponderante è fissato nel singolo movimento fermato in un qualsiasi istante.

Un istante non importante che mantiene tuttavia la tensione dell’ipotetico racconto-evento da cui sembra essere tratto.

Anche nelle fotografie di Cindy Sherman le donne ritratte sembrano uscire da azioni più articolate. Volutamente costruisce le immagini, le ambientazioni e le pose perché appaiano come facenti parte di episodi più vasti, mentre in realtà sono fatti a sé stanti, finalizzati alla sola realizzazione di singole fotografie.

La “non-significanza”, questa sorta di copiatura di gesti e pose della finzione cinematografica e televisiva, o addirittura la riproduzione stessa di scene o fotografie di altri, come avviene per Richard Prince e Sherrie Levine, interpretano un volontario allontanamento da una realtà enigmatica e “crudele” di cui si accettano solo responsabilità edulcorate da un mezzo contrapposto e pietosamente distaccante.

Corrispondono però anche una presa d’atto di malesseri interiori profondamente sconosciuti o del tutto nuovi, interagenti fattivamente nella formazione dell’intera società della comunicazione ad essa relativa.

A tal proposito Andy Warhol intende la ripetibilità dell’opera, il suo inserimento nel sistema mercantile come un’ulteriore demistificazione e non-partecipazione.

Ciò che è importante è la sufficiente superficialità e vendibilità del prodotto, ripetuto e ripetuto per svuotarlo di ogni originario significato, per ribadire l’assoluta assenza di diversità emotiva tra un’immagine e un’altra: tra la scena di lamiere contorte di un incidente mortale, il dolore di Jackie e la Campbell’s Soup.

Nell’intento di neutralizzare i sentimenti, di appiattirli abbastanza da essere contenuti in un’immagine moltiplicata all’infinito. Così facendo Warhol crea di fatto nuovi miti, nuove valenze simboliche precritiche, nuovi esorcismi per una società spiazzata e confusa.

Cristina M.D. Belloni

Una volta c’era l’avanguardia e rappresentava l’opposizione. Oggi essa è pienamente accettata ed ufficializzata, tanto da divenire una pratica comune e banale. Non se ne può più parlare poiché la violazione della regola è retorica ed il discorso intellettuale non si svolge più all’interno della dialettica tra avanguardia e tradizione, ma tra avanguardia e avanguardia, come dire tra tradizione e tradizione

G. Celant

DOPO E OLTRE L’ANIMA DEL FLUSSO

Cos’è il dopo Fluxus? Si può parlare e se sì, in quale termini, di un “dopo Fluxus ”, al di fuori naturalmente degli archivi storici (l’Archiv Sohm in Germania, The Tyringham Institute e l’Archive Jean Brouwn nel Massachussets, il Backworks a New York, ecc), dei singoli nomi eccellenti regalati alla Storia dell’Arte Contemporanea, dei pezzi-da-museo, dei pezzi-da-arte-fiera, delle fruttuose insicurezze di cui Fluxus ha pervaso, malgrado il sufficiente scetticismo dei denigratori, ogni singolo angolino della cultura post industriale?

A ben vedere l’influenza del “Fluxus spirito” si riscontra a chiare tracce in molto di ciò che è accaduto “dopo”, nell’ampio panorama del divenire artistico che si sia evoluto nel segno della libertà di espressione individuale quale unico modo pragmatico e forza motrice tramite cui l’Arte rinnova se stessa. In un’epoca esploratissima, osservata, sezionata, specificata, specializzata e funzionalizzata in tutti i suoi aspetti quale è quella che stiamo vivendo.

Se le radici del Flusso, come abbiamo visto, timidamente ma autorevolmente improvvisato nella seconda metà del secolo scorso, sono profonde e solidamente impiantate all’interno del più intenso sentire umano, difficilmente si potrà parlare di morte di Fluxus.

Si può invece ragionevolmente avvertire la naturale decadenza e successiva relativa fine di una fase enunciativa e fervida di creatività, accaduta, avvenuta in un certo momento della storia dell’uomo, nel quale l’impulso primario e originale dell’indeterminatezza, nell’espressione totale linguistico/comunicativa e sensoriale abbia investito il senso estetico delle cose, cercando di eliminare l’aspetto simbolistico quale meccanismo sintomatico di allontanamento inibitorio dal processo reale di comunicazione.

Pulsione a sua volta seguita da una progressiva reazione composita, contenente continuità e repulsione, nonché nuovamente destabilizzante, non importa se in senso positivo o negativo, e quindi estremamente utile all’ulteriore processo di rinnovamento del linguaggio.

Processo di progressione che del resto appare basilare e sistematico in un moto sinusoidale e binario quale è quello che regola il progredire del nostro intero universo e del suo modo di comunicare.

L’eclettismo ideologico, il non-avere-preconcetti, il non-creare-pre-concetti, l’agire in quanto tale per provocare l’evento, colloca di fatto il fenomeno Fluxus inteso globalmente, fuori dall’idea di rottura “avanguardistica”, oltre la lotta per la supremazia intellettuale o teorica delle “verità” o delle “ricerche”, lontano dalle contrapposizioni o dalle “sfide”, nell’arricchimento collettivo attraverso le esperienze dei singoli e viceversa.

“Continuità al posto della caratterizzazione”, anche se non sono mancati al suo interno prese di posizione o linee di condotta a volte contraddittorie o quanto meno in disaccordo tra loro, dolorosi distacchi, posizioni rigide e tentativi di imposizioni o sopraffazioni.

Qualcuno (Renè Block), riguardo ad esperienze artistiche posteriori o contemporanee agli eventi del flusso, ha parlato di Fluxismo per indicare: “al modo di…” o “seguendo le direttive di…”, ovvero per focalizzare situazioni comportamentali, sistemi di lavoro o impostazioni mentali che sarebbero direttamente derivate da un qualche “sistema fluxus” che però, come abbiamo varie volte sottolineato, non esiste e non può esistere essendo il moto fluxus caratterizzato proprio dall’assenza di un sistema, assenza di regole, assenza di sclerotizzazioni, quindi privo di ismi.

Il vero punto di riferimento al quale richiamare le varie implicazioni in altri discorsi artistici o linguistici è l’anima trasversale dell’energia del Flusso: l’indeterminatezza come vocazione dell’arte e l’apprendimento di esperienze-altre, di scoperte intime e minime come importanti vettori di cambiamento non soltanto delle idee ma anche del comportamento e dell’impostazione mentale incidente sull’intero proseguo storico.

Esperienze che derivano direttamente dalla realtà, dal vissuto e dal fare potenziale, che contemporaneamente ne desumano un paradosso semplice, senza altre sottintese implicazioni; chiamando in causa gli aspetti non-funzionali, immaginativi, estemporanei e transitori dell’evento.

Ponendo quindi in modo diverso i dati reali, semplici, di cui si fa uso e stimolando di rimando risposte diverse di fronte agli stessi dati, rompendo la banalizzazione e funzionalità del loro inserimento nell’accadimento.

L’assunto che appare interessante è la complessità e vastità di comportamenti che in tale contesto rientrano a pieno titolo all’interno della significante “Arte”.

E in questo senso l’apporto e le influenze che l’enorme mole di lavoro, di progetti, di performances, di elaborazioni Fluxus hanno avuto sulle nuove generazioni di artisti, è indiscutibile.

Artisti che consapevolmente o inconsapevolmente hanno attinto all’idea di “indeterminazione” come imput creativo per rendere reali gli specifici estetici presenti in campi di ricerca tra loro a volte molto lontani.

Così come l’uso dell’immagine pubblicitaria e del movimento cinematografico, la Mail-Art, la concezione dell’intercomunicabilità delle discipline hanno favorito e facilitato le aperture verso tendenze artistiche quali la Body-Art, la Land-Art, il Concettualismo, la Minimal-Art, l’Arte Povera e l’Arte digitale, emerse e consolidatesi durante gli anni di fine secolo e gli inizi del ventunesimo.

Il 9 maggio 1978 muore a New York George Maciunas, distrutto da un cancro al pancreas. Chiudendo questo lungo capitolo sulla storia di Fluxus non posso non tornare a ricordare, citando la sua morte, l’anima del Fluxus («George is impossibile. I love George», Milan Knizak), lo spirito libero che ha reso “tattile” la trasgressione, che ha “coagulato” la poesia, aprendo gli spazi della mente.

Cristina M.D. Belloni

EUROPA

La trasferta europea del gruppo storico di Fluxus aveva creato nuovi contatti, che daranno in seguito il loro contributo, con realtà molto diverse da quella americana, crogiolo di moltissime esperienze che lì si incontravano.

Il clima sociale europeo si presenta più “ristretto” in tradizionalismi radicati e chiuso negli angusti ambiti nazionalistici, ma per certi versi è più “rilassato” di quello d’oltreoceano, anche se non tarderanno a maturare i frutti di scompensi ideologici e sociali profondi legati ai veloci cambiamenti dell’industrializzazione.

L’Europa occidentale sta attraversando un periodo economico “felicemente consumistico”, pur tra forti divisioni politiche nelle strategie nazionaliste che tuttavia registrano ora le prime aperture. Lo spauracchio del socialismo reale viene vissuto da vicino quindi con più realismo rispetto all’isteria collettiva che il confronto ideologico provoca nel lontano continente americano.

L’Europa orientale è chiusa strettamente nelle maglie dei regimi comunisti, di conseguenza anche le espressioni artistiche vengono strumentalizzate alla logica partitocratrica. L’eredità delle Avanguardie storiche è raccolta solo da alcune, per altro fertili, sacche di dissidenza costretta ad operare clandestinamente e che tuttavia riescono a mantenere i contatti con gli ambienti culturali d’oltre cortina.

Le posizioni della critica ufficiale e degli studiosi nell’Europa dell’era industriale sono ancora attestate in roccaforti dove la richiesta di continuità nel prodotto ideologico e artistico di un mezzo secolo già ricco di contraddizioni e stimolanti eventi, è ovviamente di difficile soddisfazione. Per cui il rifugio logico rimane una sterile rilettura del “glorioso passato”, con infruttuosi evacui tentativi di “recuperi selettivi”.

In questo contesto tuttavia gli ambienti artistici non solo sono pronti a ricevere quei messaggi pregnanti dell’indeterminatezza che avvolgono il fare nel “Flusso”, ma già hanno creato premesse linguistiche molto vicine alle intenzionalità insite in slogan come: “l’Arte è facile” o “tutto è Arte, tutti possono farla”.

Se infatti, come abbiamo già avuto modo di constatare, le istanze dada sono state alla base dell’evoluzione Fluxus, ancora prima esistevano i presupposti per una trasformazione radicale dell’Arte nel suo senso etico ed esistenziale.

Umberto Boccioni nelle teorizzazioni sul “tempo nuovo” dell’Arte, in Estetica e Arte futuriste dichiarava: «Verrà un tempo forse, in cui il quadro non basterà più […]Altri valori sorgeranno, altre valutazioni, altre sensibilità di cui non concepiamo l’audacia […]Usciamo forse dai concetti tradizionali di pittura e scultura che imperano da quando il mondo ha una storia? Giungiamo alla distruzione dell’Arte come è stata intesa sino ad oggi? Forse! Non lo so! Non è importante saperlo».

Il rapporto multimediale, i collegamenti tra prodotto artistico -o più propriamente prodotto di pensiero- e vita, e quotidianità del pensiero stesso, azione ed oggettualità trovano negli anni ’40 e ’50 risposte che, pur partendo da posizioni filosofiche diverse, con motivazioni e per molti aspetti risoluzioni diverse, approdano ad una tipologia comportamentale analoga all’imprinting del Fluxus.

Inoltre il “collettivo” nell’azione del movimento americano si fondava sulla valorizzazione e collaborazione del “individuale”, per cui non precludeva nessuna diversità di espressione, aumentando anzi il suo aspetto di sintesi globale del pensiero di un’intera epoca.

Esperimenti di coinvolgimento del pubblico nell’azione scenica, di teorizzazione di una “estetica alternativa” (Isidore Isou), di progettazione di “opere in progress” vengono compiuti in questo periodo da movimenti come il lettrismo, i cobra, che nel ’49 presentano “oggetti semplici” in una mostra (L’object à travers les ages) tenuta a Bruxelles, l’Internazionale Situazionista e altri, come pure da parte di singoli ricercatori come Piero Manzoni, Lucio Fontana, Heiz Marck, Otto Piene, nonché da tutta l’area della Poesia Visuale italiana, che sviluppa l’aspetto fonetico ed i legami tra immagine e concetto tra suono e scrittura.

Situazioni artistiche eterogenee, complesse e costituite concettualmente secondo criteri di espansione dello specifico dell’arte e del ruolo dell’artista, contribuiscono alla formazione di quei personaggi che agiranno poi attivamente per coinvolgere la cultura europea nello spirito di Fluxus, ma anche alla individuazione delle diversità sia pragmatiche che intellettuali esistenti.

Già a Colonia abbiamo visto svilupparsi un fitto tessuto di ricerca, da cui emergono varie personalità ed anche divergenti posizioni. L’assunto musica-azione che costituisce il perno della costituzione del gruppo tedesco, non soddisfa pienamente Wolf Voistell, il quale vede nell’azione l’elemento di importanza primaria che sviluppa poi nei suoi decoll/ages e TV decoll/ages, sperimentando metodi di divulgazione elettronica dell’immagine.

Parallelamente artisti come Joseph Boys trovano nella sofferta creazione oggettuale, nella parafrasi simbolistica risposte concrete al bisogno di trascesa catartica insito nella scelta di vita che l’Arte comporta.

Anche per il francese Ben Vautier, vicino alle teorizzazioni lettriste, di cui ammette le influenze esercitate sul suo lavoro, ma dalle quali presto si staccherà, il binomio arte-vita è inscindibile. E di questo binomio è parte concreta l’oggetto. L’oggetto che però esista già, l’oggetto di consumo o di recupero, attraverso cui confrontare la propria singolarità di artista all’interno della vita stessa.

Quindi «appropriarsene, firmando tutto quanto già non lo sia stato», in un “fagocitare” e rendere poi come proprio un concetto, un prodotto, il nulla. Il rapporto “casuale”, l’appropriazione della casualità fermata in un momento qualunque del suo manifestarsi e riproposta come “opera” in quanto tale, è alla base del lavoro di Daniel Spoerri, presentato per la prima volta a Parigi nel 1960 in occasione del Festival d’Avan-Gard.

Sul fronte italiano è ancora la musica a legare le esperienze. È il caso della “mutica” di Gian Emilio Simonetti, consistente in “percorsi” casuali su spartiti musicali; o per le ricerche musicali di Giuseppe Chiari, la “musica senza contrappunto”, per “scoprire l’intima qualità formale e musicale degli oggetti”. Ma avremo modo in seguito di puntualizzare meglio l’apporto di ogni singolarità artistica all’interno di questo eterogeneo gruppo costituente il Fluxus.

L’esperienza europea porterà Maciunas ad organizzare, dopo il suo ritorno in America, una vera e propria rete di divulgazione, autogestita e divisa in settori, dove Fluxus nord sarà Per Kirkebi a Copenhagen, Fluxus sud: Ben Vautier a Nizza, Fluxus est: Milan Knizak a Praga, Fluxus ovest: Ken Friedman in California e lo stesso Gorge Maciunas nella sede di New York. Contemporaneamente ha inizio la terza fase del fenomeno Fluxus, che sarà la fase della produzione e divulgazione di oggetti, di multipli e di films.

AMERICA

La straordinaria dinamica dell’assunto “associazionistico” di Fluxus, del tutto scevra di rigidità, caratterizzata da una costante e totale, anzi determinante diversità, si pone in senso sociologico oltre le istanze storiche che, seguendo cronologicamente, segneranno indelebilmente la sfera del sociale.

Se infatti i grandi movimenti di massa come il Beat, l’Hippysmo, il Femminismo ecc., che conferiscono attivamente corpo e voce al malessere sociale non più contenibile sul finire degli anni ’60, hanno come tendenza ideologica nella ricerca di una libertà tanto agonista, quanto effimera, “l’indipendenza” di Fluxus si pone al di là degli eventi contingenti pur facendone parte, in un’ottica di accettazione e confronto costruttivo con la “diversità” che, creando i suoi spazi ed intervenendo come “media” parallelo diviene modo per accedere ad una unità ed insieme libertà molto più ampie.

Queste caratteristiche che solo oggi vengono espresse e riconosciute ampiamente, hanno tuttavia comportato per l’ambito Fluxus un crescente scontro con istituzioni ed autorità poco inclini ad accogliere le sempre più pressanti istanze sociali.

Nel 1964 Maciunas assume la direzione esecutiva dell’A.A.C.I., ufficio per l’azione contro la cultura imperialista, che si prefigge si svolgere azioni di denunzia e di disturbo pacifico contro tutte quelle manifestazioni promosse dalla cultura ufficiale e tese alla conferma e celebrazione dello status per cui l’Arte rimaneva un fenomeno elitario, difficile, serioso, non contaminato da influenze impure, da gerghi marginali.

La seconda azione dell’A.A.C.I. viene espressa l’8 settembre di quello stesso anno con un picchetto davanti al Judson Hall di New York in cui doveva venire eseguito Originale di Karlheinze Stockhausen.

Al compositore tedesco si contestavano le sue posizioni denigratorie nei confronti del jazz, ritenuto da lui, durante una conferenza tenuta ad Harward nel 1958, un’espressione musicale inferiore in quanto incolta e troppo viscerale; nonché il suo inserimento all’interno della cultura ufficiale della Germania Occidentale come «elemento decorativo dell’elitismo reazionario», secondo quanto sosteneva Henry Flint.

In questo periodo Fluxus, pur tra enormi difficoltà di rapporti con le strutture di potere, sembra aver acquistato una certa stabilità organizzativa. Dal 1963 al 359 di Canal Street in New York, si costituisce la Fluxus-Hall in cui, malgrado la ristrettezza dello spazio, vengono svolte le performances, si riunisce il gruppo teorico, si dà vita a rappresentazioni, si costruiscono oggetti Fluxus, si elaborano pubblicazioni e films.

George Maciunas produce la maggior parte dei progetti portati a compimento e anche se quelli realizzati costituiscono solo una piccola parte delle idee espresse, la mole di lavoro è enorme.

Fatti a mano uno per uno da Maciunas stesso sono poi distribuiti a chi ne fa richiesta o fatti circolare gratuitamente durante le performances. Fluxus arriva anche ad avere una carta intestata dove sono enunciate le “diramazioni geografiche”dell’organizzazione.

Dick Higgins fonda la Something Else Press, destinata in seguito, dopo il distacco da Fluxus, a diventare una grossa impresa nel campo editoriale e divulgativo, fino a quando non si scioglieranno nel 1974.

Ma non tutto è così semplice come sembra all’interno del gruppo, infatti le discussioni e gli scontri non cessano mai di vivacizzare l’ambiente. Del resto accettati come dibattiti in ogni caso costruttivi, anche quando avranno conclusioni di distacco, come avviene proprio in occasione di Originale di Stockhausen: Nam June Paik e Dick Higgins vi parteciperanno, lasciando Flint, Maciunas, Takako Saito, Conrad e Ben Patterson a portare a termine la protesta.

Le “ambiguità ed energie divergenti” di Fluxus fanno parte del gioco non stereotipato e duttile ribadito dal movimento, gioco che deve contribuire alla non fossilizzazione delle personalità individuali, alla coscienza delle semplicità quotidiane come espressioni poliedriche e costante del divenire, il quale attraverso di esse può imparare a conoscersi ed insieme interpretare l’universalità dei bisogni e degli aspetti dell’intera Umanità, quale summa di individui, quindi l’universalità dell’Arte come “scoperta”, presa di coscienza “dell’Umanitudine”.

L’individuo è punto focale, perno centrale, non come nella concezione capitalistica di individuo forte contrapposto alle masse, ma come punto di partenza conoscitivo nelle sue semplicità e complessità per arrivare all’apertura globale.

In questo senso posso essere compresi sia l’aspetto arte-gioco che l’aspetto più propriamente sociale dell’operato di Maciunas, che costituiscono due capacità interagenti in questa interpretazione attiva del ruolo dell’arte. L’instancabile Gorge si assume l’arduo compito di coordinare le numerose attività di Fluxus a New York nei loro diversi aspetti: creativi, divulgativi e sociali.

Proprio nell’intento divulgativo per meglio far conoscere le posizioni di protesta contro “l’ufficialità” competitiva ed arrivistica del modus vigente di interpretare la Cultura, Flint e Maciunas elaborano nel 1965 la pubblicazione I Comunisti devono dare una leadership rivoluzionaria alla Cultura in cui tra l’altro si esprime come “la manipolazione di Stato delle Arti non possa trasformare una situazione per altri aspetti regressiva in una rivoluzionaria”, e come “in una situazione rivoluzionaria divenga primaria la rivoluzione spontanea in seno alla Cultura, in quanto la manipolazione di Stato della Cultura è un uso errato dell’autorità esecutiva”.

Qui si fa riferimento anche al metodo: «impadronirsi non solo dei mezzi di produzione ma anche del sistema di distribuzione del mondo dell’arte» e socialmente «distribuzione di date risorse di consumo al maggior numero di atti di consumo (trasformando in ricchezza gli uso-valori disponibili), all’intera popolazione».

Maciunas stesso si interessa attivamente alla “pianificazione sociale del consumo”, sia teoricamente, mettendo a punto un progetto di case prefabbricate che dovevano avere la caratteristica di combinare i bassi costi di produzione con una migliore qualità della vita (progetto che non avrà mai un seguito fattivo, né in Unione Sovietica per la quale era stato pensato, né negli Stati Uniti perché non conveniente alla logica di mercato), sia praticamente quando, tra il 1967 ed il 1968, organizza in Soho sette cooperative immobiliari per restaurare i grandi depositi dalle strutture in ghisa (Cast Iron Buildings), bellissimi esempi dell’Architettura Funzionalistica.

L’impegno è enorme, tanto da far sfiorare la morte a Maciunas che si salva a stento da un’aggressione ma perde irrimediabilmente l’uso di un occhio.

La gestione cooperativa degli immobili consente di limitare notevolmente le spese individuali e di mettere in atto altre idee. Sorge all’80 di Wooster Street la filmmaccher’s film library diretta da Jonas Mekas, grande spazio, luogo Fluxus di pubblico incontro dove vengono presentati nuovi spettacoli come: Orgien Mysterien Theater di Hermann Nitsch, uno dei maggiori rappresentanti del tormentato Viener Aktionismus austriaco, o i primi spettacoli di Ontological-Hysteric Theater di Foreman.

Vengono prodotti e pubblicati films e video con il corposo contributo di Shigeko Kubota, soprattutto quando lo spazio nel 1974 cambierà nome assumendo quello di Anthology Film Archivies.

(to be continued)

Cristina M.D. Belloni

Se l’impianto ideologico di Fluxus, basato sull’azione totale, quale esperienza sensoriale attiva, prima ancora che artistica, si sviluppa primariamente all’interno dell’ambiente musicale americano, le sue caratteristiche di indeterminatezza e di concettualità, insieme ad un concreto esprimersi, non mancano di coinvolgere ben presto l’intero mondo artistico gravitante attorno all’area più sottilmente attenta all’evoluzione creativa.

Mentre ancora alla fine degli anni Cinquanta, attorno alla 5° strada si intrecciano le vicende di mercato, legate alla produzione artistica come business per cui l’opera deve essere materialmente fruibile e creare delle precise gerarchie di valori commerciali, e invece negli ambienti culturali stava evolvendosi lo strutturalismo influenzato dalle tesi scientifiche di una metodologia razionale di ricerca, l’intellettualismo giovanile risentendo di tutte quelle spinte che la complessità della società americana esercitava sulla sua formazione, si stava sempre più avvicinando ad un punto di rottura.

Itinerario che doveva necessariamente passare attraverso quella introspezione intellettiva e profonda, senza barriere dogmatiche e pregna di volontà conoscitiva che è poi la linea essenziale di Fluxus, sulla quale si muoveranno le molteplici personalità che senza dar vita a un gruppo o ad una tendenza, appropriandosi del diritto di espressione insito in Fluxus e dell’estrema libertà di azione nell’azione, pensiero e movimento, né dilateranno le possibilità e la presenza.

Quando George Maciunas, oriundo lituano, musicologo e laureto in Storia dell’Arte, incontra LaMonte Young durante i corsi tenuti da Maxfield in Madison Avenue, egli intuisce l’importanza delle teorie della nuova avanguardia musicale e come queste andassero ben oltre i confini della musica stessa aprendo orizzonti più vasti.

LaMonte Young lavora in quel momento a sperimentazioni sonore sulla ripetizione ed esecuzione costante di un suolo suono. Sulla stessa linea di iterazione sonora o melodica si muove tutta la scuola californiana: da Walter De Maria a Terry Riley, a Simone Forti.

L’influenza orientale è molto palese ma ad essa si aggiunge una concretizzazione del concetto astratto di Arte che viene a coincidere con “le possibilità ovvie di azione”; e poiché ovvie, naturalmente estetiche.

Questo, secondo Dick Higgins, si riallaccia e riprende la visione classica del concetto di estetica, riportando la musica e l’Arte in generale ad una “forma di speculazione (intellettiva ed oggettiva) sui principi delle cose” non tanto in senso strettamente formale, quanto in senso metafisico e quindi sublimale.

Importanti in questo periodo le due serie di performances tenute tra il 1960 e il 1961 nello studio di Yoko Ono in Camper Street, con LaMonte Young come responsabile, e nella Galleria di Medison Avenue a cura dello stesso George Maciunas.

La poliedrica personalità di Maciunas, vero asse portante ed elemento coesivo delle diverse ideologie, tematiche ed orientamenti esistenti in Fluxus, realizza a partire dal 1960 una serie di pubblicazioni tra cui le riviste Fluxus V Tre ed il libro Anthology, pubblicato nel 1963 da LaMonte Young e Mac Low, con materiali della disciolta rivista Bestitud.

In queste pubblicazioni vengono raccolti testi teorici e poetici, saggi linguistici, critiche funzionali sul ruolo dell’arte e dell’artista nella società moderna.

Ad esse collaboreranno molti Fluxus-artisti e filosofi quali Dick Higgins, Wott, Anderson, gli europei Claus Bremer, Diter Rot, Emmet William, il coreano Nam June Paik ed Henry Flynt; con quest’ultimo Maciunas in seguito firmerà uno scritto sull’impostazione sociale del dibattito artistico: I comunisti devono dare una leadership rivoluzionaria alla Cultura.

Testo contenente almeno quattro punti importanti: critica alla cultura sovietica come espressione elitaria, riscoperta e valorizzazione delle culture etniche in rapporto al progresso sociale, valorizzazione del cinema documentaristico, pianificazione architettonica, per la quale Maciunas progetta un complesso di abitazioni prefabbricate.

Nel novembre del 1961 George Maciunas parte per la Germania. In Germania esiste un fertile terreno. Nam June Paik, Joseph Boys, Gaul, Goet, Wolf Vostell e altri si riuniscono nello studio di Mary Bauermeinster (moglie di Stockhausen), divenuto una sorta di alter alla ufficialità di Radio Colonia, studio di musica elettronica diretto da Stockhausen stesso.

Qui vengono presentate opere di Brecht, LaMonte Young e Cage e lavori del gruppo. Paik ha già realizzato nel novembre del 1959 alla Galleria 22 di Dusseldorf, un suo lavoro di musica elettronica per tre magnetofoni e un vetro da spaccare, con rovesciamento finale di un pianoforte, il cui titolo è: Omaggio a Cage.

Vostell si interessa alla visione elettronica, al suono ed alla strutturazione fonetica del linguaggio, pur discostandosi dalle tendenze musica-azione del gruppo, che giudica meno importanti dell’azione stessa.

Nel 1961 Colonia appare ricca di fermenti soprattutto presso la Galleria Hauro Lauhus, luogo di incontro di personaggi come Rotella, Cardew, Wewesca, Patterson e gli stessi Paik e Vostell, e dove il gruppo realizza Action music.

Maciunas al suo arrivo in Germania si mette subito in contatto con Paik con il quale corrispondeva da New York, per organizzare una serie di Fluxus-concerti in tutta Europa.

Inizia in questo periodo il momento dei Festivals e delle tournèe che vede protagonista il gruppo storico di Fluxus: Ben Patterson, George Maciunas, Robert Fillious, Allison Knowles, Higgins, Keopke e Mercure, Willis Williams, Wellin, Boys, Paik e Vostell, sia pur tra divergenze organizzative, competizioni e diversità ideologiche all’interno della sua eterogenea formazione.

I grandi progetti di Maciunas per una concert agency europea vengono ridimensionati da parte di Paik, Higgins e Vostell e, nel giugno 1962 a Dusseldorf, viene presentato Neo-Dada in der Musik, comprendente lavori di LaMonteYoung, Brecht, Higgins, Knowles, Wotts, Riley, Williams, etc

Wiesbaden in settembre ospita quattordici Event; ad Amsterdam la serie di concerti è presentata con il titolo: Parallele auffuhrungen neuester musik; a Londra come The Festival of Misfits.

A Copenhagen viene operata una selezione di giovani sia americani che europei, musicisti ed artisti visivi, i quali interagisco con i fattori tempo, spazio e suono (rumore); seguirà Parigi dove Daniel Spoerri e Thomas Schimdt si uniscono al gruppo con il lavoro teatrale Domaine poetique, quindi Dusseldorf con Boys, Stoccolma e Oslo solo per Allison Knowles e Higgins, Copenhagen e Amsterdam di nuovo nel giugno del 1963, infine Nizza dove il gruppo incontra Ben Vautier.

L’organizzazione delle performances avviene in modo del tutto autogestito. Gli artisti partecipano gratuitamente e si spostano a proprie spese presso le sedi, la maggior parte delle volte locali che Maciunas o qualche amico è riuscito a trovare a prezzi irrisori o gratuitamente nelle varie città.

Il repertorio comprende l’esecuzione di brani di quasi tutti i compositori dell’area Fluxus, ai quali non verranno mai pagati i diritti d’autore.

Non esiste una vera e propria coesione tra i componenti del tour, i problemi e le discussioni che ne seguono contribuiscono alla crescita individuale e collettiva degli artisti stessi, i quali, malgrado la precarietà ed appunto l’indeterminatezza dell’organizzazione, la diffidenza della critica e la mole di lavoro da compiere, riescono negli intenti che si sono preposti: far conoscere una ideologia ed uno spirito di vita che si sposa con l’Arte e con la semplicità culturale di espressione.

(to be continued)

Cristina M. D. Belloni