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Archivio categorie: Cultura

Dimenticanza è sciagura, mentre memoria è riscatto.

Anneliese Knoop-Graf

27 gennaio 2023. La Giornata della Memoria. Data importante, fondamentale. Si dice che serva a non dimenticare, a non ricadere negli stessi errori. Si dice che loro avrebbero voluto così. Loro, le vittime, quelle che oggi però, il 27 gennaio 2023, vengono perseguitate da gruppi di estrema destra, sostenitori di un sistema che tanto ci è voluto per eliminare.

Ebbene sì, suscita scalpore eh? Amarezza? Tristezza, forse è il termine adatto. Ancora di più quando accendi la radio e ascolti la notizia del giorno: Rita Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, è costretta, oggi, il 27 gennaio 2023, a utilizzare la scorta perché vittima di minacce razziste.

Data importante, la Giornata della Memoria. Un avvenimento mondiale, se ne parla a scuola, il Presidente della Repubblica detiene il suo discorso, in tv passano film, documentari, immagini in bianco e nero. Immagini vere. Nulla è finto, nulla è censurato. Ma a cosa serve? A non dimenticare. “Ti presento la realtà così com’è, così da non ricascare più negli stessi errori” si era detto. Un avvenimento, il 27 gennaio, così importante, da essere paragonato ad una festa ecclesiastica, alla Pasqua ad esempio, o alle feste nazionali, al 25 aprile (che si potrebbe aprire un ulteriore parentesi infinita anche su tale evento!), al primo maggio.

Premessa scontata? Ovviamente dovrebbe esserlo, ormai nel 2023. E invece, ahimè, purtroppo così non è. E non solo perché manca una conoscenza di fondo a riguardo, ma perché di fronte a discorsi, carrellate di immagini, articoli, parole, parole e parole, ci si trova davanti un’indifferenza generale, un’espressione quasi inebetita, quasi da far star male.

Quell’atteggiamento di fronte al quale avevamo promesso che mai, e poi mai, ci saremmo cascati si sta facendo strada, di nuovo. Tra i giovani e non solo, tra i banchi di scuola, per le strade, in quei bar che una volta erano i luoghi di scambio, posti di comunicazione, di discussione e di lettura del giornale. Ora si corre, non si parla più, è tutto dannatamente superficiale.

Ci siamo cascati di nuovo? Sta accadendo? La promessa della memoria sta lasciando il posto all’indifferenza? Ancora oggi, proprio oggi, il terzo millennio? L’epoca in cui gli ultimi sopravvissuti stanno giungendo al termine in un Paese, l’Italia culturale – come ci piace tanto e orgogliosamente decantare – , nel quale si è di nuovo minacciati.

Oggi si sentono di nuovo le stesse espressioni di un tempo: “non voglio vedere, non ne voglio parlare, è troppo triste, è troppo sconvolgente“. Chiudiamo gli occhi. Proprio oggi che si parla di guerra, e di nuovo di diversità, di propaganda, di razza e di mediocrità. Caratteristiche amare che riportano alla mente un’epoca non troppo lontana in cui gli stessi giovani, trascinati dalle mode del proprio presente, rispondevano che “non volevano vedere e non ne volevano parlare“.

Ma perché sta succedendo? Perché la storia si sta spegnendo? Perché, oggi, nel millennio del progresso, in cui chiunque ha libertà di informazione, chi tanto ha sofferto non merita la degna memoria?

Ricordo quelle lettere tanto lette con commozione e studiate all’Università, quei volti che, guardando la telecamera del documentarista, con rabbia e ancora gli occhi spaventati, chiedevano di non dimenticare e di quanto fosse di vitale importanza per coloro che non ce l’avevano fatta, il non essere cancellati dalla storia: la comunicazione attraverso la scrittura e la trasmissione orale dicevano.

Ricordo che mostravano quel tatuaggio, un marchio lo definivano, e singhiozzando dicevano che erano numeri, nient’altro che cifre. Raccontavano con voce tremante. La cosa faceva male, ma serviva, perché non bisognava dimenticare. Era la loro rivincita, una vittoria. La radio di Praga annunciava uno per uno i nomi delle vittime della Shoah, il silenzio di Auschwitz urlava più che mille persone tutte insieme, i volti inespressivi raccontavano più di cento testimonianze. Ecco cos’è la Giornata della Memoria. Parlare, testimoniare, raccontare.

Credo che mai come oggi, la Giornata della Memoria, debba essere vissuta, studiata, comunicata. Credo che mai come oggi, a scuola, se ne debba parlare. Credo che mai come oggi, con una guerra per il potere alle porte di casa nostra, sia importante sottolineare i concetti di libertà, uguaglianza e incoraggiare le nuove generazioni e quelle a seguire, a non ascoltare commenti retrogradi e sbagliati. A non uniformarsi ad essi, a ragionare con la propria mente, ad istruirsi e a mettere in pratica ciò che hanno appreso.

Oggi, mai come oggi, è importante RICORDARE.

Maria Pettinato

Amazon.it: Yemen l'eterno. Un viaggio emozionale nella vita e nella storia  - Boffo, Mario - Libri

Questa donna piange…

questa donna raccoglie la legna…

questa donna cammina…

Nessuno sa

che facesse questa donna

prima di divenire un albero…

Sawssan Al Ariqi

Esistono luoghi così eterei, così ricchi di intensi e profondi sentimenti che raramente scompaiono dalla memoria di chi li ha vissuti. Sono i Paesi della memoria, delle emozioni, delle tradizioni, di tutte quelle storie e leggende che sono state raccontate e che mai scompariranno dalla mente di chi le ha ascoltate.

Uno di questi paesi è sicuramente lo Yemen, un luogo poco conosciuto, ma impeccabilmente raccontato nel libro Yemen l’eterno. Un viaggio emozionale nella vita e nella storia (Stampa Alternativa, 2019), scritto da Mario Boffo, ambasciatore d’Italia nel luogo eterno dal 2005 al 2010 e autore del romanzo Femmina strega (Stampa Alternativa, 2017).

Attraverso una scrittura lineare, scorrevole e si direbbe emozionale, Boffo è riuscito a descrivere questo luogo con estrema enfasi raccontando gli aspetti antropologici di un Paese ricco di passione e tradizione e che, ahimè, sono ad oggi oscurati da una storia triste e a dir poco amara, la guerra civile che aleggia da ormai sei anni.

Pace in Yemen. Si può fare - The Science of Where

Ed ecco che lo Yemen, “il luogo dello spirito”, come viene definito dall’autore, è raccontato in tutti i suoi aspetti come se fosse il diario degli intensi cinque anni lì trascorsi. Suddiviso in cinque parti, La città eterna, Il Paese di Bilqis, Lo Yemen e l’Italia, Epilogo e Luoghi-Persone, Boffo ne offre una panoramica completa.

Le prime parti offrono la descrizione di ciò che è lo Yemen nella sua parte più profonda, caratterizzata da racconti e tradizioni dello splendido popolo yemenita. Emergono aneddoti, figure, modi di pensare diversi, ma tutti uniti da un elemento comune: la fierezza di essere yemenita.

Sono Saleh, il guardiano delle stelle, pellegrino alla Mecca, rispettoso dell’identità del suo popolo, o Abdallah, il cantore dei matrimoni, dalla voce calda e suadente, ma anche le Nere presenze, donne yemenite coperte interamente da una tunica nera, alcuni dei protagonisti di un racconto quasi mistico, quasi favola si direbbe da quanto è travolgente.

Un quadro dettagliato riguarda poi i rapporti che lo Yemen ha da sempre con l’Italia, fortemente rispettata e apprezzata dal popolo yemenita. Aspetti diplomatici e di amicizia emergono infatti in questa penultima parte.

Ma il capitolo che più di tutti a mio avviso comunica nel profondo l’identità di questo Paese è decisamente quello ornato dalle immagini di paesaggi naturali e architettonici, e di persone, di volti e di sguardi.

Yemen, la bellezza avvilita - La Stampa

Le fotografie che decorano il libro riescono a comunicare qualcosa di davvero intenso. Gli occhi luccicano, emozionati perché sono ammirati e immortalati, così come i sorrisi dai quali traspaiono felicità e orgoglio.

La cultura dello sguardo si direbbe viene fuori mediante la bellezza di queste immagini, come la mia preferita, quella della bambina che orgogliosa guarda verso la macchina fotografica. I suoi occhi sono così puri e profondi da emozionare chi li guarda, un osservatore forse inconsapevole di ciò che lì, in quel luogo così apparentemente lontano dal nostro, avviene quotidianamente.

Yemen, la bellezza avvilita - La Stampa

E poi la cultura della poesia, della volontà di scrivere ciò che si vive, ma soprattutto ciò che si sente. Anche quella viene comunicata nelle pagine di questo libro, così toccante da spingere il lettore ad assaporare con lentezza le pagine che lo compongono.

Immagini e parole che fanno riflettere su ciò che sta accadendo oggi nel “luogo dello spirito”, e proprio su quegli occhi e sui quei sorrisi che, magari, nonostante tutto, stanno continuando a brillare nella speranza di un futuro diverso e migliore.

Maria Pettinato

La Parola è Vibrazione. È Anima in movimento.

Ha una grande personalità e a seconda di chi la pronuncia, dal tono, dall’espressione crea un risultato diverso, provocando reazioni, sensazioni, sentimenti totalmente opposti.

Fin da piccoli, per prendere confidenza con Lei, ci siamo inventati mille giochi: all’asilo, a scuola, in macchina con i nostri genitori.

E quante volte a causa delle parole abbiamo pianto…

Prima di essere pronunciata Lei ha bisogno di essere analizzata, capita, altrimenti può tradirci.

È uno strumento importante e ha in dotazione il libretto delle istruzioni.

Esso deve essere letto attentamente per potere usare la Parola correttamente. Il libretto viene scritto con cura, da noi, quotidianamente, grazie alle nostre esperienze.

Man mano che passa il tempo ci troviamo con un grande dizionario ricco di significati importanti. Un dizionario che arricchisce la nostra vita e, se usato bene, può arricchire anche la vita degli altri.

Le parole che lo compongono sono scelte con cura, perché ci servono per comprendere e far comprendere. Per nutrire, fortificare, addolcire, alleggerire.

Anche tutto ciò che ci circonda è ricco di parole e significati.

Qualsiasi cosa cada sotto il nostro sguardo ci parla e ci apre ad una grande comunicazione. E proprio come per la parola verbale, per ognuno di noi l’interpretazione sarà diversa…

Nadia Forte

Benessere è una parola che solo a pronunciarla fa socchiudere gli occhi e allargare i polmoni in un profondo respiro. In un attimo ti porta al centro, nel cuore.

Il Benessere è seguire le istruzioni del proprio libro interiore, ma a volte da soli non riusciamo a decifrarlo, per paura, pigrizia, fretta, testardaggine…

Mi piace pensare che chi viene da me, trova un ambiente caldo dove può iniziare a spogliarsi delle proprie paure, amarezze per poi rivestirsi di forza e di energia per tornare alla propria vita.

Il massaggio Naiadis ti aspetta, ti accoglie, e ti avvolge per cullarti nel tuo mondo interiore. Spegne l’interruttore della mente e accende la luce della tua interiorità che ha molte cose da dirti, da spiegarti, e da farti vedere.

Ti culla e ti racconta una FAVOLA, quella della tua vita, per aiutarti a leggerla con gli occhi giusti, con il cuore aperto all’amore.

Quando le persone entrano nel mio studio e si tolgono l’armatura pesante e impolverata, il corpo si predispone immediatamente in una posizione di ascolto e di fiducia verso se stessi e verso la vita.

Il combattimento con la mente razionale ha breve durata, perché le carezze che arrivano all’anima disarmano completamente, rendendo il volo leggero.

Nadia Forte

CHIARA FERRAGNI ACCUSATA DI PLAGIO • MVC Magazine

Chiara Ferragni… ormai il suo nome è conosciuto da anni, e si direbbe per svariati motivi: lo si conosce per il suo brand, per il suo lavoro, per The blonde salad, ma soprattutto perché è ad oggi uno dei pilastri della moda internazionale.

Possiamo dire infatti che è stata, ed è attualmente una delle primissime influencers a livello mondiale, proprio perché ha avuto l’intuito, se così vogliamo definirlo, di capire che la società era in piena fase di trasformazione e che il digitale sarebbe diventato il nuovo mondo reale.

Un contesto che l’ha spinta ad aprire il suo profilo instagram nel gennaio 2012 e che ad oggi conta ben 22.5 milioni di followers.

Chiara è difatti dotata di un carisma e di una semplicità che la rendono unica nel suo genere e che l’hanno fatta apparire per quella che tutti noi conosciamo: semplicemente se stessa, che è anche il segreto per piacere o meno alla gente.

Non c’e bisogno di spiegare come sia divenuta l’imprenditrice digitale più influente al mondo, ma sappiamo benissimo che in qualsiasi cosa faccia ci mette il cuore e la passione, mezzi fondamentali per riuscire a raggiungere i propri obiettivi.

A dimostrazione della grandezza mediatica di cui è dotata è ad esempio il record di incassi raggiunto dal docu-film Chiara Ferragni-Unposted uscito nelle sale cinematografiche nel 2019, in cui emerge una biografia completa dell’influencer, accompagnata da molti video realizzati dalla madre Marina di Guardo, i quali racchiudono gli anni della gioventù della figlia e i momenti più intimi e famigliari.

Ma andiamo a vedere nel dettaglio come nasce Chiara Ferragni…

Nell’ottobre 2009 apre un blog dedicato alla moda e intitolato The Blonde Salad, in collaborazione con l’ex fidanzato Riccardo Pozzoli, inizialmente geloso per le conseguenti foto pubblicate sul web.

Nonostante ciò però il progetto viene avviato, e addirittura il fidanzato sarà il primo grande sostenitore di Chiara, il quale si dedicherà a fotografarla in prima persona spronandola a dedicarsi al fashion blog.

Così, con un investimento iniziale di circa 500 euro, necessari per l’acquisto di una macchina fotografica e del dominio Internet, il blog inizia a mietere successi, complice anche l’aspetto fisico della Ferragni, tipica ragazza acqua e sapone.

All’inizio nel suo blog la giovane studentessa lombarda racconta la sua vita che si divide tra Milano, dove studia e vive durante la settimana, e Cremona, dove torna ogni week-end per stare insieme alla famiglia, protagonista anch’essa nella vita mostrata sui social.

Successivamente, con il passare del tempo, Chiara si concentra soprattutto sui suoi outfit, sui vestiti che compra e sui consigli di moda che dispensa a lettori e lettrici.

Nel 2013 arriva anche il momento di un e-book dal titolo The Blonde Salad, al quale seguirà l’anno successivo un fatturato di circa 8 milioni di dollari, che diventeranno più di 10 nel 2015.

Anno in cui, tra l’altro, Chiara Ferragni è oggetto di studio da parte della Harvard Business School dimostrando così di aver capito prima di altri che il cambiamento economico/sociale si stava sviluppando.

Conosciuto in tutto il mondo, The Blonde Salad oggi non è solo un semplice blog sulla moda, ma è anche un punto di riferimento nel settore del fashion: un mix di stile e ispirazione, che ha portato la blogger da un lato a collaborare con le più note e prestigiose luxury & fashion brand, dall’altro ad affermarsi come opinion maker e modella sulle riviste internazionali.

Tanto che la fashion community l’ha definita “una delle figure più influenti dell’intero panorama della moda”, nomina confermata se si pensa al fatto che la Ferragni negli ultimi anni è diventata anche una stilista di successo disegnando e firmando diverse collezioni, e allo stesso tempo testimonial per importanti case di moda come ad esempio Lancôme.

Caratteristica non da poco quest’ultima perché il suo volto è capace di avvicinare un grande numero di acquirenti ai vari brand da lei pubblicizzati.

Insomma un’imprenditrice, una mamma e una donna di successo, ma soprattutto dalle mille risorse!

Semplicemente… il fenomeno Ferragni!

Calzia Gabriele, Fassio Ilaria, Gagliardi Marttina, 2 A Classico


“L’arte degli affari sta

un gradino al di sopra dell’Arte”

Da A a B e ritorno. La filosofia di Andy Warhol
(1975, Andy Warhol)

Questa affermazione sintetizza coerentemente un capovolgimento nell’assunzione di valori, in atto semi-consapevolmente all’interno della società americana di quegli anni.

Presupponendo che la capacità di organizzare un rapporto di forze finanziariamente favorevole rispetto all’orientamento presente nella società in quel momento, costituisca una raffinatezza di grado superiore al valore reale del proprio contributo all’evolversi della società stessa.

Parafrasando ed estremizzando è come dire che l’arte di guadagnare con la guerra è un gradino più in alto della guerra.

Tutta la gamma possibile a cui adeguare questo rapporto di valenze tra opportunismo e abilità ha purtroppo, dal punto di vista pratico, innumerevoli esempi a suo favore, riscontrabili nella diffusa convinzione che l’idealismo non paghi, che sia il risultato economico il valore più alto a cui aspirare.

L’affermazione warholiana è un sintomo della tendenza alla corsa ad arrivare, avvertita in maniera crescente nel mondo dell’arte, che pretende naturalmente sconti molto alti tra cui la non partecipazione emotiva, una valutazione delle idee finalizzata al guadagno, un lasciarsi trascinare consensualmente o apaticamente dalla eco del “più forte” per poter cogliere i consistenti frutti promessi anche se molte volte marginali, dati, elargiti come premio alla propria accondiscendenza ideologica o alla propria sudditanza creativa.

Del resto molta parte della società americana degli anni 60/70 anestetizza l’angosciante dasein, “l’esserci” tedesco, il vivere qui e ora un presente incerto e oscuro, con l’accettazione conformistica e festosa delle regole vincenti produzione/consumo che in qualche modo sanciscono una superiorità se non altro economica del modello americano rispetto al vecchio modello europeo o al contrapposto modello socialista.

Il consumismo diventa emblema di uno stile di vita di successo finalmente tutto americano e quindi simbolo di un riscatto psicologico dal sentimento di inferiorità culturale vissuto nei confronti dell’Europa.

La Pop Art è Populary Art (Arte Popolare). Si esclude o autoesclude dal “colto” di stampo storico europeo, lo contesta da una posizione di inferiorità e diversità psicologica ma lo surclassa agilmente alimentata dal positivo riconoscere la supremazia, soprattutto dal punto di vista economico e comunicativo, dello stile di vita americano.

Il riscatto culturale della giovane, divoratrice America forgia i propri nuovi parametri espressivi con i mezzi che ha a disposizione: esaltando, ingrandendo, colorando le immagini degli stereotipi dei messaggi mediali dei simboli del consumo di massa, delle codificazioni, persino delle proprie paure e frustrazioni.

Contribuisce al tentativo di formare uno spirito coesivo in una società multirazziale espressa dall’aggregazione degli strati più poveri e marginali degli altri continenti, rendendola complice e partecipe della creazione dei propri miti culturali, della scoperta “dell’uguaglianza nel consumo”.

Elaborando una “Estetica della Banalità” facilmente recepita da tutti proprio perché prossima e cogente con i mezzi e le immagini delle sollecitazioni al desiderio insite nella comunicazione consumistica.

Il fattore commerciale trova in Andy Warhol la sottolineatura più eclatante. La sua Factory della 47° Rue Est nasce producendo idee e immagini pubblicitarie, utilizzate per vendere. E a sua volta si pone sul mercato vendendo idee e immagini da inserire nel circuito strettamente commerciale.

Immagini non considerate quindi per il loro valore in quanto spontanee risoluzioni di un pensiero artistico, ma quali mediatori grafici, di immediata assimilazione, di messaggi costruiti per incrementare l’induzione al consumo. Immagini studiate per “calzare” i modelli dello status, delle convenzioni mercantili e renderli desiderabili, persuasivi, confortanti.

Immagini non considerate quindi per il loro valore in quanto spontanee risoluzioni di un pensiero artistico, ma quali mediatori grafici, di immediata assimilazione, di messaggi costruiti per incrementare l’induzione al consumo.

Immagini studiate per “calzare” i modelli dello status, delle convenzioni mercantili e renderli desiderabili, persuasivi, confortanti.

Ma se un lavoro creativo finalizzato all’industria di per sé non può bastare a giustificare la mitizzazione di cui è stato oggetto, il vero successo della Factory e del suo Vate va ricercato nella promiscuità ideologica, nella mescolanza e cooperazione con tutte le correnti di pensiero presenti a New York in quel momento, che ne fa una sorta di sintesi esistenziale frequentata e proficua, della creatività metropolitana dell’epoca.

La Factory, l’officina, la fabbrica prima maniera è un luogo aperto, ricettivo sgangherato, un po’ kitch; pronto ad assimilare senza filtri di nessun genere, qualsiasi impulso creativo che provenga dall’esterno e possa essere alimentato per la stessa esistenza della variegata fauna umana che anima il posto.

All’interno di esso circolano personaggi di ogni estrazione sociale, stravaganti figure dandy e prostitute dei due sessi, insieme agli esponenti del glamour internazionale e ad artisti affermati nei diversi campi dell’espressione: dalla musica alla fotografia, alla pittura.

Luogo di perdizione per eccellenza nell’immaginario newyorkese, era un esempio di quanto il denaro e la fama (ma non solo) potessero essere elementi di aggregazione tra “parassiti della peggior specie” e l’elite del bel mondo americano, tra culture sotterranee dell’arte, del sesso, della droga, delle perversioni e la ricca borghesia, i grandi mercanti d’arte, l’opulenza fastosa dei nuovi ricchi.

Un esempio insomma, di quella apparente democraticizzazione e uguaglianza auspicata per il nuovo pensiero americano. Tra le pareti rivestite di luccicante carta stagnola, nella vecchia officina riadattata a tempio-custode dello “spirito del tempo” si incontravano e intersecavano espressioni di ogni genere, attorno ad un abulico, apatico dio dal viso infantile e pallido dal quale si aspettava anche solo un cenno di approvazione.

La forza di Andy Warhol sta proprio nel suo lasciarsi trascinare quasi con indifferenza nei meandri profondi delle marginalità, evitando accuratamente il gorgo incandescente delle passioni umane.

L’alone di innocente, spaurito bambino terribile che si nutre di sequenze televisive e di Campbell’s Soup come ogni buon americano, invece che di reali sensazioni, riuscendo comunque a ricavarne fama e onori, legittima culturalmente il desiderio di successo del self-made-man e lo equipara ad ogni altro nobile sentimento umano.

L’arte degli affari si insinua al di sopra dell’Arte in una sorta di riscatto storico/mitico consacrato dalla diversa Estetica sua propria, da parte di quella disperata massa urbana e suburbana dell’ovvio, del banale, del convenzionale; ma anche dell’indigenza, della devianza, del vizio, della corruzione che scopre nella superficialità la chiave per catartizzare lo stato di macerazione e abbandono nelle proprie miserie ed anche una conquistata, o subita, soluzione di continuità culturale.

Si afferma un nuovo punto, apparentemente rassicurante, semplice e indolore, da cui costruire collettivamente altre “mappe” percettive con le quali esplorare i territori reali a cui si riferiscono, così vasti e terrificanti: la superficialità delle cose.

Il loro momento evanescente, frivolo, vacuo. La zona di confine esterna ed estrema; la microcellula temporale sfuggente e minimale, perennemente in bilico tra il profondo ed il nulla: che contiene in sé tutte le casuali macroscopiche da cui è stata generata.

Nello specchio variopinto e riflettente, sufficientemente estraneo e neutro al suo creatore -tanto da potersi caricare dell’emotività del fruitore- delle serigrafie, dei film, delle immagini di Andy Warhol, nella meccanica serialità delle ripetizioni ossessive, estremizzate, decorative, inespressive, nella superficialità fin troppo ostentata, ermetica nella sua banalità, sono incluse poesia della morte, allegria e angoscia, in una miscellanea ambigua, sottile, terribile.

Punto estremo dell’assunto duchampiano, sintomo di un disagio profondo di non facile soluzione, e segnale di un’inversione di tendenza nella ricerca artistica che andrà sempre più volgendo verso la rappresentazione didascalica e verso la costruzione di personaggi e miti mercenari anziché di vere sollecitazioni.

Cristina M. D. Belloni

Lo scorso 29 aprile l’insidiosa pandemia di Covid 19 ha stroncato la vita di uno dei protagonisti più attivi e discussi del mondo dell’Arte.

Germano Celant, critico, teorico, spirito libero e divulgatore attento della produzione artistica soprattutto italiana nel contesto mondiale, ci ha lasciati all’età di ottant’anni.

Nato a Genova, dove ha saputo negli ultimi decenni del ventesimo secolo proporre mostre ed eventi culturali “spiazzanti”, fuori dal comune sentire e dagli schemi ristretti della provincia, ha ottenuto nel corso del tempo i dovuti riconoscimenti per il suo instancabile lavoro di curatore e talent scout, in molti contesti internazionali.

Un “pensiero laterale” che gli permette di ricercare quei linguaggi artistici che siano all’avanguardia rispetto alla riduzione dell’opera d’arte a “mercificazione di lusso” per alimentare il mercato del collezionismo. Riuscendo eppure, paradossalmente, a influenzare autorevolmente quello stesso mercato.

Nel 1997 viene chiamato a dirigere la 47ª Biennale d’Arte di Venezia; dal 1995 è il curatore della Fondazione Prada nelle sedi sia veneziane che milanesi.

Sarà curatore senior del Guggenheim Museum di New York dal 1988 al 2008, dove peraltro contribuirà alla divulgazione dell’arte italiana. In particolare con la grande esposizione Italian Metamorphosis del 1994 , nella quale presenterà opere dell’ingegno italiano dal 1943 al 1968.

Arte, design, architettura, cinema, moda, fotografia, per un totale di 850 lavori che hanno testimoniato il grande cambiamento italiano dallo sbarco americano dell’ultima guerra sino alla allora contemporaneità. «Un’invasione al contrario» come l’ha definita lo stesso Germano Celant.

Vorrei qui fare un omaggio alla sua attività ricordando una delle più belle ed esaustive esposizioni che ha organizzato proprio a Genova nel 1981 sull’Inespressionismo Americano.

Il gergo inquieto – Inespressionismo Americano

Parlare dell’Impressionismo americano significa addentrarsi in quanto di più ostico ci sia per la mentalità ancora per molti versi tardo-romantica europea e italiana in particolare.

Eppure alcune delle basi filosofiche sono state pensate ed enunciate proprio qui, in Europa, e anche lo spiazzamento psicologico che costituisce il substrato fertile e principale del filone inespressionista, sviluppatosi nell’America post-industriale degli anni Settanta e Ottanta, ha molto a che vedere con il rapporto tra modi di vedere differenti come quello americano e quello europeo.

Ma anche con la rottura di continuità culturale venutasi a creare all’interno della promiscuità etnologica del “mondo nuovo” nelle generazioni successive alla grande ondata di immigrazioni della prima metà del secolo.

È il “Dasein”, “l’esserci heideggeriano” che nella pronuncia tedesca assume foneticamente tutta la profondità che vuole esprimere: l’inquietudine esistenziale espressione di un nuovo vuoto di certezze aprioristiche nel rapporto tra l’uomo e la sua esistenza come “immediatezza non oggettivabile”.

All’interno del coinvolgimento nel quale lo scorrere del tempo e gli eventi avviluppano materialmente e senza possibilità di trascendenza l’osservatore che rimane “dentro” agli eventi stessi e ineluttabilmente li subisce ma anche modifica con la sua presenza.

Ciò ben si attaglia alla situazione di crisi e di messa in discussione della produzione artistica in relazione con il sociale e con il significato stesso del fare arte che in America e a New York in particolare sviluppa un linguaggio estremizzante volto verso un’apparente superficialità, assenza intellettuale, non-espressione e non-definizione, e un certo tipo di “conformismo contenutistico”.

Infatti i cosiddetti movimenti di avanguardia che vanno dell’Espressionismo Astratto degli anni Cinquanta, alle fluidità di Fluxus, alla Pop Art, alla Body Art e così via, oltre ad avere notevolmente ampliato la gamma dei comportamenti concernenti l’attività del fare arte, aprendo un varco verso la totalità comprensiva delle situazioni che determinano nell’essere Uomo un rapporto con il proprio Sé analogico, hanno anche aperto il vaso di Pandora della questione di dove in definitiva siano i limiti di questa libertà espressiva e quanto il fattore etico abbia a che fare con questi limiti o meno.

D’altro canto il venirsi a creare all’interno del mercato dell’arte, di una penuria di oggettivazioni artistiche, dei prodotti commerciabili, peculiari dell’arte stessa, dovuta alla concettualizzazione, alla progressiva e sempre più radicale astrazione fattiva da parte delle ricerche condotte nel campo, ha prodotto un “correre ai ripari” degli operatori interessati: galleristi, critici d’arte, e mercanti.

E a un prendere piede ai fini “mercantili”, ma non solo, della teoria di una possibile “democratizzazione dell’arte”, di un’arte cioè che servendosi di tutti i mezzi tecnologici che la comunicazione di massa e le moderne tecniche di conquista del mercato mettevano a disposizione.

Un arte che riuscisse a coinvolgere un pubblico più vasto e meno elitario, a divenire serigrafia, a produrre non ideologie ma di nuovo immagini che fossero più vicine al gusto delle grandi masse a cui dovevano essere dirette.

Le due grosse questioni enunciate hanno avuto un peso molto rilevante nel determinarsi della inevitabile crisi venutasi a creare.

Questa è una crisi ideologica generalizzata a tutto il tessuto culturale e a tutt’oggi presente e viva nel contesto; la causa della quale va ricercata paradossalmente proprio nell’avvenuta liberazione dell’esperienza artistica da schemi e metodologie specifiche, perché si muovesse verso quella comunicazione a-tutto-tondo sovrastante l’arte stessa.

Liberazione e comunicazione dunque, ispirate a una crescita evolutiva e sociale potenzialmente dilagante, a una analisi sempre più capillare delle possibilità della percezione umana di affinarsi, caratterizzanti il ventennio precedente, che sul finire degli anni Settanta vengono a scontrarsi con la messa in discussione delle loro stesse prerogative di avanguardia, nelle aspirazioni giudicate “puriste e moralistiche” e come tali ulteriori “prigioni linguistiche e processuali”.

Lo spiazzamento che ne deriva è enorme, epocale: per la prima volta a essere messa in discussione è la spinta trascendente dell’arte, è il legame tra Etica ed Estetica rimasto inviolato dall’Antica Grecia sino alle espressioni più dissacranti della cosiddetta Avanguardia.

E del resto, come abbiamo già detto, un piazzamento di ordine esistenziale che coinvolge l’intera società, specialmente quella americana così svincolata da legami storici a cui riferirsi e letteralmente bombardata da notizie e immagini dell’era della comunicazione.

Quell’esserci, essere in questo mondo non per scelta, dal quale però non si può prescindere, che accomuna nelle stesse, sottilmente avvertite, inconsapevolezza e impotenza, milioni di persone.

“L’essere in”, in cui l’orientamento artistico non è che lo specchio ancora una volta opaco e incerto ma a cui si chiedono autorevoli conferme culturali: si chiede di essere l’esteriorizzazione estetica di una superficiale estraneità che funge da scudo, tentativo di trasformazione poetica di una “stranianza” che vuol ridurre l’imput della carica emotiva dell’evento vissuto a scena televisiva.

Un volersi a tutti i costi difendere dall’aggressione della vita riportando scene minimali o filtrate oltremodo.

«La vocazione a mettere in discussione i processi quando la procedura del fare arte si spegne e il ritratto della cultura mostra l’espressione terrorizzata di chi attende dietro il bancone la richiesta, un vero e proprio comando, di cosa servire […]», così descrive la situazione Celant nel suo saggio sull’Inespressionismo Americano pubblicato a Genova nel 1981 in occasione della grande rassegna dedicata a questo tema.

Il superamento dell’idea di “capolavoro” come unità linguistica, punta estrema nell’ordine di merito del contesto artistico, la scoperta gioiosa di un modo molto più semplice di concepire la funzione dell’arte nella crescita umana, innesca meccanismi liberatori che però, oltrepassando i limiti consacrati della “grandezza” dell’arte stessa, aprono baratri di incertezze ancora maggiori.

L’immagine seriale, quella televisiva o filmica, soggetta a iterate ripetizioni nell’ingranaggio pubblicitario, a remake di episodi noti.

Sicure reinvenzioni di altre immagini appartenenti al passato, al già visto o al lontanissimo nel tempo e nello spazio quindi già interpretate e assimilate, rassicurano sia l’autore che il fruitore di quelle incertezze incombenti.

La non-espressione dunque, il ritratto riflesso dello stereotipo, del banale, del kitch acquista valore simbolico di per se stesso, ma al tempo stesso intrappola una nuova analisi dell’immagine: un isolamento dal contesto storicistico e continuativo, una sorta di archetipo interposto tra l’azione già avvenuta e l’interpretazione emotiva.

Così nei lavori di Robert Longo, siano essi disegni, rilievi, sculture o performances, l’aspetto scenico preponderante è fissato nel singolo movimento fermato in un qualsiasi istante.

Un istante non importante che mantiene tuttavia la tensione dell’ipotetico racconto-evento da cui sembra essere tratto.

Anche nelle fotografie di Cindy Sherman le donne ritratte sembrano uscire da azioni più articolate. Volutamente costruisce le immagini, le ambientazioni e le pose perché appaiano come facenti parte di episodi più vasti, mentre in realtà sono fatti a sé stanti, finalizzati alla sola realizzazione di singole fotografie.

La “non-significanza”, questa sorta di copiatura di gesti e pose della finzione cinematografica e televisiva, o addirittura la riproduzione stessa di scene o fotografie di altri, come avviene per Richard Prince e Sherrie Levine, interpretano un volontario allontanamento da una realtà enigmatica e “crudele” di cui si accettano solo responsabilità edulcorate da un mezzo contrapposto e pietosamente distaccante.

Corrispondono però anche una presa d’atto di malesseri interiori profondamente sconosciuti o del tutto nuovi, interagenti fattivamente nella formazione dell’intera società della comunicazione ad essa relativa.

A tal proposito Andy Warhol intende la ripetibilità dell’opera, il suo inserimento nel sistema mercantile come un’ulteriore demistificazione e non-partecipazione.

Ciò che è importante è la sufficiente superficialità e vendibilità del prodotto, ripetuto e ripetuto per svuotarlo di ogni originario significato, per ribadire l’assoluta assenza di diversità emotiva tra un’immagine e un’altra: tra la scena di lamiere contorte di un incidente mortale, il dolore di Jackie e la Campbell’s Soup.

Nell’intento di neutralizzare i sentimenti, di appiattirli abbastanza da essere contenuti in un’immagine moltiplicata all’infinito. Così facendo Warhol crea di fatto nuovi miti, nuove valenze simboliche precritiche, nuovi esorcismi per una società spiazzata e confusa.

Cristina M.D. Belloni

Una volta c’era l’avanguardia e rappresentava l’opposizione. Oggi essa è pienamente accettata ed ufficializzata, tanto da divenire una pratica comune e banale. Non se ne può più parlare poiché la violazione della regola è retorica ed il discorso intellettuale non si svolge più all’interno della dialettica tra avanguardia e tradizione, ma tra avanguardia e avanguardia, come dire tra tradizione e tradizione

G. Celant

DOPO E OLTRE L’ANIMA DEL FLUSSO

Cos’è il dopo Fluxus? Si può parlare e se sì, in quale termini, di un “dopo Fluxus ”, al di fuori naturalmente degli archivi storici (l’Archiv Sohm in Germania, The Tyringham Institute e l’Archive Jean Brouwn nel Massachussets, il Backworks a New York, ecc), dei singoli nomi eccellenti regalati alla Storia dell’Arte Contemporanea, dei pezzi-da-museo, dei pezzi-da-arte-fiera, delle fruttuose insicurezze di cui Fluxus ha pervaso, malgrado il sufficiente scetticismo dei denigratori, ogni singolo angolino della cultura post industriale?

A ben vedere l’influenza del “Fluxus spirito” si riscontra a chiare tracce in molto di ciò che è accaduto “dopo”, nell’ampio panorama del divenire artistico che si sia evoluto nel segno della libertà di espressione individuale quale unico modo pragmatico e forza motrice tramite cui l’Arte rinnova se stessa. In un’epoca esploratissima, osservata, sezionata, specificata, specializzata e funzionalizzata in tutti i suoi aspetti quale è quella che stiamo vivendo.

Se le radici del Flusso, come abbiamo visto, timidamente ma autorevolmente improvvisato nella seconda metà del secolo scorso, sono profonde e solidamente impiantate all’interno del più intenso sentire umano, difficilmente si potrà parlare di morte di Fluxus.

Si può invece ragionevolmente avvertire la naturale decadenza e successiva relativa fine di una fase enunciativa e fervida di creatività, accaduta, avvenuta in un certo momento della storia dell’uomo, nel quale l’impulso primario e originale dell’indeterminatezza, nell’espressione totale linguistico/comunicativa e sensoriale abbia investito il senso estetico delle cose, cercando di eliminare l’aspetto simbolistico quale meccanismo sintomatico di allontanamento inibitorio dal processo reale di comunicazione.

Pulsione a sua volta seguita da una progressiva reazione composita, contenente continuità e repulsione, nonché nuovamente destabilizzante, non importa se in senso positivo o negativo, e quindi estremamente utile all’ulteriore processo di rinnovamento del linguaggio.

Processo di progressione che del resto appare basilare e sistematico in un moto sinusoidale e binario quale è quello che regola il progredire del nostro intero universo e del suo modo di comunicare.

L’eclettismo ideologico, il non-avere-preconcetti, il non-creare-pre-concetti, l’agire in quanto tale per provocare l’evento, colloca di fatto il fenomeno Fluxus inteso globalmente, fuori dall’idea di rottura “avanguardistica”, oltre la lotta per la supremazia intellettuale o teorica delle “verità” o delle “ricerche”, lontano dalle contrapposizioni o dalle “sfide”, nell’arricchimento collettivo attraverso le esperienze dei singoli e viceversa.

“Continuità al posto della caratterizzazione”, anche se non sono mancati al suo interno prese di posizione o linee di condotta a volte contraddittorie o quanto meno in disaccordo tra loro, dolorosi distacchi, posizioni rigide e tentativi di imposizioni o sopraffazioni.

Qualcuno (Renè Block), riguardo ad esperienze artistiche posteriori o contemporanee agli eventi del flusso, ha parlato di Fluxismo per indicare: “al modo di…” o “seguendo le direttive di…”, ovvero per focalizzare situazioni comportamentali, sistemi di lavoro o impostazioni mentali che sarebbero direttamente derivate da un qualche “sistema fluxus” che però, come abbiamo varie volte sottolineato, non esiste e non può esistere essendo il moto fluxus caratterizzato proprio dall’assenza di un sistema, assenza di regole, assenza di sclerotizzazioni, quindi privo di ismi.

Il vero punto di riferimento al quale richiamare le varie implicazioni in altri discorsi artistici o linguistici è l’anima trasversale dell’energia del Flusso: l’indeterminatezza come vocazione dell’arte e l’apprendimento di esperienze-altre, di scoperte intime e minime come importanti vettori di cambiamento non soltanto delle idee ma anche del comportamento e dell’impostazione mentale incidente sull’intero proseguo storico.

Esperienze che derivano direttamente dalla realtà, dal vissuto e dal fare potenziale, che contemporaneamente ne desumano un paradosso semplice, senza altre sottintese implicazioni; chiamando in causa gli aspetti non-funzionali, immaginativi, estemporanei e transitori dell’evento.

Ponendo quindi in modo diverso i dati reali, semplici, di cui si fa uso e stimolando di rimando risposte diverse di fronte agli stessi dati, rompendo la banalizzazione e funzionalità del loro inserimento nell’accadimento.

L’assunto che appare interessante è la complessità e vastità di comportamenti che in tale contesto rientrano a pieno titolo all’interno della significante “Arte”.

E in questo senso l’apporto e le influenze che l’enorme mole di lavoro, di progetti, di performances, di elaborazioni Fluxus hanno avuto sulle nuove generazioni di artisti, è indiscutibile.

Artisti che consapevolmente o inconsapevolmente hanno attinto all’idea di “indeterminazione” come imput creativo per rendere reali gli specifici estetici presenti in campi di ricerca tra loro a volte molto lontani.

Così come l’uso dell’immagine pubblicitaria e del movimento cinematografico, la Mail-Art, la concezione dell’intercomunicabilità delle discipline hanno favorito e facilitato le aperture verso tendenze artistiche quali la Body-Art, la Land-Art, il Concettualismo, la Minimal-Art, l’Arte Povera e l’Arte digitale, emerse e consolidatesi durante gli anni di fine secolo e gli inizi del ventunesimo.

Il 9 maggio 1978 muore a New York George Maciunas, distrutto da un cancro al pancreas. Chiudendo questo lungo capitolo sulla storia di Fluxus non posso non tornare a ricordare, citando la sua morte, l’anima del Fluxus («George is impossibile. I love George», Milan Knizak), lo spirito libero che ha reso “tattile” la trasgressione, che ha “coagulato” la poesia, aprendo gli spazi della mente.

Cristina M.D. Belloni

La cultura è qualcosa di estremamente complesso, perché avere cultura può significare tante cose, così come insegnarla o semplicemente entrarvi a contatto.

Per qualcuno è un determinato modo di pensare, di vivere, di comunicare, ma per altri ciò potrebbe essere non condivisibile. Ciò che si può ritener certo è che essa, per quanto può essere differente da individuo a individuo, da popolo a popolo, significa “maniera d’essere”.

E per me cultura non è solo il benessere della mente, ma è anche benessere fisico. E come giungere a tale stato se non con una qualitativa alimentazione e con un sano allenamento?

Ci sono vari contesti di allenamento che garantiscono il raggiungimento del benessere fisico, ma non tutti possono a mio avviso inserirsi in un contesto culturale e soprattutto portare dentro chi li pratica il raggiungimento del benessere mentale e spirituale.

A riguardo è interessante individuarne uno che più di tutti può definirsi a mio avviso una cultura fisica e dell’anima prima di tutto: è il Pilates, disciplina fondata nella prima metà del ‘900 dal tedesco Joseph Hubertus Pilates, un metodo che ancora oggi a distanza di molti anni dalla sua nascita scaturisce attrazione e trasforma una lezione in palestra in qualcosa di più.

Joseph sin da piccolo soffriva di problematiche fisiche attualmente molto comuni come asma e rachitismo, ed è ciò che lo ha spinto a interessarsi alla medicina e a studi di tecniche di rilassamento orientale, che lo portarono ad attuare esercizi fisici e spirituali di grande importanza visto il miglioramento del suo stato di salute.

Ma ciò che lo ha reso così celebre è la codificazione della sua tecnica incentrata sul cosiddetto Mat Work, una serie di esercizi eseguiti a corpo libero che vanno a lavorare qualsiasi parte del corpo, dalla zona scheletrica a quella muscolare per concludere con quella interna, quindi organica e mentale.

Il Metodo Pilates è difatti incentrato sulla forza, sulla concentrazione, sulla determinazione, portando in tal modo la persona che pratica gli esercizi a ritrovare la propria serenità e ad attenuare problematiche che spesso sorgono dentro di sé a causa di difficoltà esterne.

Ciò è fondamentale perché oltre a essere un aiuto fisico in quanto modella il corpo tonificandolo e snellendolo con esercizi che richiamano lo yoga, la danza, la ginnastica, è un ottimo alleato nella vita di tutti i giorni.

L’autostima migliora, il livello di concentrazione, fondamentale per prendere decisioni razionalmente, aumenta decisamente, così come il benessere spirituale legato prevalentemente al respiro, che finalmente viene fuori nella sua essenza e nella sua importanza.

Imparare a respirare è infatti fondamentale per rilassare la nostra mente e il nostro corpo; è ciò che ci dà forza e l’energia necessarie per stare bene e per affrontare nel migliore dei modi le circostanze che si presentano nella vita di tutti i giorni.

Una pratica fisica che diventa così un modo di essere, di vivere e di pensare, oltre che un mezzo praticato per ottenere benefici fisici quali, come già sottolineato, la tonificazione, ma anche una postura corretta, una maggiore elasticità fisica e articolare, un rafforzamento muscolare.

Ne viene fuori, se praticata con costanza e volontà di cambiare, una qualità di vita importante, consigliata a uomini e donne di qualsiasi età.

Maria Pettinato

LA SOCIETÀ POST-INDUSTRIALE

Il modo Fluxus di porsi dinnanzi alla realtà non si schematizza in “situazioni” statiche. L’analisi e la sintesi si animano dall’evento, senza per nulla snaturarlo o scontrarsi reciprocamente.

Così il discorso di amplia enormemente coinvolgendo gli atti della vita, la loro modalità intrinseca di sviluppo, la poesia spontanea, la capacità di saturazione del momento in qualsiasi direzione. Poiché non è nelle finalità che si indirizza l’attenzione, ma nell’accadere stesso dell’evento.

Ciò spiega in parte il dilatarsi e dilagare negli ambienti artistici della filosofia e del modus vivendi Fluxus, che verso la fine degli anni ’60 riesce ad essere voce autorevole all’interno dei movimenti di rottura giovanili che si ispirano ad una liberazione dei sensi e delle idee, di chiara matrice orientale.

In questo periodo il “movimento” poteva contare su una rete organizzativa e di contatti sparsa in tutto il mondo, alla quale facevano capo alcuni membri storici, suddivisi, per così dire, per situazioni geografiche. Senza contare le collaborazioni con vari gruppi che si erano via via create sia in Europa che in America e in Giappone, come il gruppo Zaj in Spagna, il gruppo cecoslovacco Aktual, il gruppo ECBS in California, nonché varie collaborazioni con singoli artisti, sporadiche o continuative.

Se da una parte le attività del Fluxus convergono e si fondono con gli avvenimenti del malessere studentesco e le nascenti filosofie beatnik prima e hippies successivamente, dall’altra paradossalmente tuttavia, la spinta creativa e vitale del movimento soffre gradualmente di una certa stanchezza.

Maciunas impegnato nei vari tentativi di creare cooperative – dopo le dure lotte newyorkesi che lo vedono escogitare stratagemmi per sfuggire brillantemente alle ricerche della forza pubblica che vuole impedire le indebite occupazioni degli immobili, ma non altrettanto brillantemente alla mafia che in un agguato lo ferisce gravemente -, tenta ora la possibilità di trasferire una “colonia” Fluxus nella piccola isola Ginger nelle Isole Vergini Britanniche, tentativo che purtroppo andrà a vuoto per l’improvvisa morte, prima della firma del contratto di vendita, del proprietario dei terreni.

Altri membri si staccano dalle attività del gruppo proprio nei momenti di successo personale, poiché, come nota Ken Freidman «molti si identificano più fortemente con Fluxus quando le loro carriere stagnano e meno fortemente quando le loro carriere si innalzano. Ciò è causato dal fatto che nello spazio giornalistico individuale dato agli artisti nei momenti di “alta”, raramente essi pongono l’accento sulla loro affiliazione al gruppo, il che è dovuto al generale fenomeno sociologico dell’identità di gruppo come servizio prestato a coloro le cui identità non sono ancora chiaramente definite, o le cui identità in punti trasformativi della carriera sono sottoposte ad una rivalutazione della loro situazione. Ciò vale per la maggior parte dei gruppi e non è meno valida per Fluxus, tranne che per quei membri il cui senso del contatto sociale ed il cui senso di Fluxus in quanto istituzione per un cambiamento sociale, furono sempre forti».

Lo stesso Friedman intraprende, agli inizi del decennio successivo, frequenti viaggi in tutti gli Stati Uniti che diedero eccellenti risultati in nuovi progetti, pubblicazioni, festivals ed azioni Fluxus.

Il primo tentativo di organizzare una mostra retrospettiva delle attività che il gruppo aveva portato avanti nell’arco di più di un decennio è merito della Koelnischer Kunstverein che incarica Herald Szeemann di raccogliere tutto il materiale che fosse possibile reperire sia in Europa che in America, per l’allestimento di una grande mostra che doveva venire ospitata nei vari musei europei.

L’occasione si presta per riunire nuovamente molti artisti che avevano fatto o fanno parte del “Flusso”, a riesumare progetti e fatti e a dare nuova spinta a pubblicazioni ed eventi particolarmente curati da David Major, che in Inghilterra ha dato vita a Fluxshoe.

L’entusiasmo e la partecipazione alla costruzione di questa mostra determina però un’enormità di interventi e apporti, tanto da “spaventare” i musei che dovevano ospitarla, sia per l’informalità del gruppo, che per “l’indeterminatezza e sregolatezza” degli interventi stessi, da spegnerla dopo il secondo raduno.

Nei modi, nel particolare momento storico e nelle motivazioni culturali con cui Fluxus apre un nuovo – o antico che dir si voglia – modo di scoprire la vita e l’Arte, si aprono naturalmente altre strade e altre interpretazioni che, durante gli anni ’70, fanno sì che avvenga un proliferare di fatti non necessariamente legati al fenomeno Fluxus in senso stretto, forse più circoscritti o selettivi, ma che comunque devono al movimento la spinta iniziale se non addirittura l’idea.

Diverso è per il Wiener Aktionismus, l’azionismo viennese, già attivo con Gunter Brus, Hermann Nitsch e Schwarzkogler agli inizi degli anni ’60. Autocoscienza e misticismo si intrecciano nei lavori del gruppo austriaco ad una sorta di “esistenzialismo” drammatico, nel quale la vita stessa assume toni parossistici, nel tentativo di liberarla dai pesanti tabù culturali e psicologici e dalle rigidezze di una cultura decadente e fragile.

Nel teatro di Herman Nitsch, teatro “orgiastico e mistico”, come viene definito, l’azione avviene tramite oggetti reali, nell’estensione sensoriale dell’evento che diviene esperienza sensoriale a tutti i livelli, coinvolgendo la partecipazione fisico-sensorea del pubblico e dei partecipanti, ma anche soprattutto la dimensione emotiva che viene qui stimolata nei drammatici e crudi interventi.

Oggetti e simboli sono usati nel loro reale significato come elementi che appartengono ad una realtà spesso rimossa, accantonata o coperta da tabù e qui messa a nudo, nell’immediatezza dell’avvenimento.

«Il toccare ed l’annusare viscere tiepide, carne, sangue, il rumore dell’orchestra che aumenta sino a provocare sensazioni dolorose, l’eccessivo vuotare e spruzzare diversi liquidi procurano dirette impressioni sensuali di vissuto, con una corrispondente risposta psichica.»

Questa in sintesi la filosofia di Nitsch e del gruppo viennese in generale. C’è in questa una espressione di violenza repressa, di disperazione ed entropia che rappresenta il limite estremo del discorso liberatorio e cosciente presente nel Fluxus.

La drammaticità della scena viennese ripropone ancora una volta il dilemma secolare esistente tra realtà e finzione, tra coscienza e metafora e in quali limiti sia attuabile un discorso coerente per esprimere in senso artistico esperienze e pulsioni.

L’intransigenza austriaca si presenta in termini di esasperazione e negatività dell’esperienza umana e di conseguenza artistica l’idea che, comunque, anche se in senso estremizzato, non cozza per nulla con la concezione di arte, né con il senso fluido della vita stessa: l’idea si apre a raggiera, toccando tutti i punti, tutte le possibilità.

Ma accade che più si vuole staccare con un atto di “violenza” l’Arte dal “simulacro della rappresentazione”, per farle assumere identità più vicine possibili ad un reale rimosso in questo caso negativo, più essa si inscrive con forza e tenacia nel simbolico, nella rappresentazione di un “sacro” intimamente personale e nascosto, quando il termine “sacro” sia inteso come essenza stessa del tabù che si vuole rimuovere e che con tale azione non si sradica, ma paradossalmente si enfatizza.

(to be continued)

Cristina M.D. Belloni