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Amazon.it: Yemen l'eterno. Un viaggio emozionale nella vita e nella storia  - Boffo, Mario - Libri

Questa donna piange…

questa donna raccoglie la legna…

questa donna cammina…

Nessuno sa

che facesse questa donna

prima di divenire un albero…

Sawssan Al Ariqi

Esistono luoghi così eterei, così ricchi di intensi e profondi sentimenti che raramente scompaiono dalla memoria di chi li ha vissuti. Sono i Paesi della memoria, delle emozioni, delle tradizioni, di tutte quelle storie e leggende che sono state raccontate e che mai scompariranno dalla mente di chi le ha ascoltate.

Uno di questi paesi è sicuramente lo Yemen, un luogo poco conosciuto, ma impeccabilmente raccontato nel libro Yemen l’eterno. Un viaggio emozionale nella vita e nella storia (Stampa Alternativa, 2019), scritto da Mario Boffo, ambasciatore d’Italia nel luogo eterno dal 2005 al 2010 e autore del romanzo Femmina strega (Stampa Alternativa, 2017).

Attraverso una scrittura lineare, scorrevole e si direbbe emozionale, Boffo è riuscito a descrivere questo luogo con estrema enfasi raccontando gli aspetti antropologici di un Paese ricco di passione e tradizione e che, ahimè, sono ad oggi oscurati da una storia triste e a dir poco amara, la guerra civile che aleggia da ormai sei anni.

Pace in Yemen. Si può fare - The Science of Where

Ed ecco che lo Yemen, “il luogo dello spirito”, come viene definito dall’autore, è raccontato in tutti i suoi aspetti come se fosse il diario degli intensi cinque anni lì trascorsi. Suddiviso in cinque parti, La città eterna, Il Paese di Bilqis, Lo Yemen e l’Italia, Epilogo e Luoghi-Persone, Boffo ne offre una panoramica completa.

Le prime parti offrono la descrizione di ciò che è lo Yemen nella sua parte più profonda, caratterizzata da racconti e tradizioni dello splendido popolo yemenita. Emergono aneddoti, figure, modi di pensare diversi, ma tutti uniti da un elemento comune: la fierezza di essere yemenita.

Sono Saleh, il guardiano delle stelle, pellegrino alla Mecca, rispettoso dell’identità del suo popolo, o Abdallah, il cantore dei matrimoni, dalla voce calda e suadente, ma anche le Nere presenze, donne yemenite coperte interamente da una tunica nera, alcuni dei protagonisti di un racconto quasi mistico, quasi favola si direbbe da quanto è travolgente.

Un quadro dettagliato riguarda poi i rapporti che lo Yemen ha da sempre con l’Italia, fortemente rispettata e apprezzata dal popolo yemenita. Aspetti diplomatici e di amicizia emergono infatti in questa penultima parte.

Ma il capitolo che più di tutti a mio avviso comunica nel profondo l’identità di questo Paese è decisamente quello ornato dalle immagini di paesaggi naturali e architettonici, e di persone, di volti e di sguardi.

Yemen, la bellezza avvilita - La Stampa

Le fotografie che decorano il libro riescono a comunicare qualcosa di davvero intenso. Gli occhi luccicano, emozionati perché sono ammirati e immortalati, così come i sorrisi dai quali traspaiono felicità e orgoglio.

La cultura dello sguardo si direbbe viene fuori mediante la bellezza di queste immagini, come la mia preferita, quella della bambina che orgogliosa guarda verso la macchina fotografica. I suoi occhi sono così puri e profondi da emozionare chi li guarda, un osservatore forse inconsapevole di ciò che lì, in quel luogo così apparentemente lontano dal nostro, avviene quotidianamente.

Yemen, la bellezza avvilita - La Stampa

E poi la cultura della poesia, della volontà di scrivere ciò che si vive, ma soprattutto ciò che si sente. Anche quella viene comunicata nelle pagine di questo libro, così toccante da spingere il lettore ad assaporare con lentezza le pagine che lo compongono.

Immagini e parole che fanno riflettere su ciò che sta accadendo oggi nel “luogo dello spirito”, e proprio su quegli occhi e sui quei sorrisi che, magari, nonostante tutto, stanno continuando a brillare nella speranza di un futuro diverso e migliore.

Maria Pettinato

Rissa in galleria di Umberto Boccioni

Umberto Boccioni è stato uno dei principali artisti ed esponenti del Futurismo assieme al gruppo costituito da Filippo Tommaso Marinetti e Carlo Carrà. Un movimento il loro che ha coinvolto qualsiasi forma artistica e si direbbe lo stile di vita generale nell’Italia del XX secolo.

Uno dei dipinti più famosi di Boccioni è Rissa in galleria, realizzato nel 1910 e attualmente esposto alla Pinacoteca di Brera di Milano.

E come un degno quadro futurista è ricco di tensione.

In primo piano emerge la folla di persone che si accalca di fronte ad una caffetteria milanese situata in Galleria Vittorio Emanuele, per assistere ad una rissa tra due donne. In secondo piano invece protagonista è il paesaggio cittadino fatto di illuminazione artificiale data dai lampioni, capace di offrire all’osservatore uno scorcio storico importante, come quello sulla Belle Epoque.

A completare l’atmosfera di energia ci pensano i colori caldi che rendono il dipinto ancora più suggestivo e ricco di passione, così come è ricco di velocità, movimento e modernità. Tutte caratteristiche tipiche del movimento.

Corbella Riccardo, 1 B Classico

Paterson - Film (2016) - MYmovies.it

Paterson è il dodicesimo lungometraggio diretto nel 2016 dal noto cineasta indipendente Jim Jarmusch.

Il film offre allo spettatore la rappresentazione di una settimana nella vita di Paterson (Adam Driver), un conducente di pullman che si diletta a scrivere poesie e vive in New Jersey, assieme alla moglie Laura e al cane Marvin.

Come è noto a chi conosce il suo stile, Jarmusch privilegia la rappresentazione di individui ai margini della società, alienati da una routine perennemente uguale a se stessa. In questo, Paterson si rivela esemplare.

Il lungometraggio mette in scena una quotidianità monotona, volutamente piatta, e la regia stessa sottolinea gli aspetti che rendono le giornate uguali tra loro. Da questo punto di vista, il film rifugge esplicitamente i concetti cardine della sceneggiatura: in Paterson non ci sono antagonisti, non c’è un obiettivo definito; c’è solo un protagonista che vive la sua normalità.

È lecito affermare, in effetti, che per quasi tutto il film, ad eccezione del finale, non succeda nulla che scuota la narrazione.

Agli occhi dello spettatore, l’unica nota stonata che turba l’equilibrio di Paterson è la moglie Laura (Golshifteh Farahani). Con lo scorrere dei minuti del film, la figura femminile appare lievemente enigmatica agli occhi di chi guarda.

Il personaggio sembra scritto appositamente per risultare fastidioso: pare non apprezzare gli sforzi del marito, che invece la idolatra, e tende a dimostrarsi superficiale se non addirittura lievemente egoista. La stessa resa visiva sembra corroborare questa sensazione: gli onnipresenti motivi in bianco e nero che accompagnano Laura, i suoi vestiti e gli ambienti in cui si muove, se ad una prima occhiata paiono curiosi non tardano però a risultare ridondanti, quasi stucchevoli.

Essa troverà comunque modo di redimersi sul finale del film, a seguito del trauma che scuote il quotidiano del protagonista. La donna, di fronte all’inconveniente, apparirà tutto d’un colpo fragile, tenera e premurosa, permettendo allo spettatore di trovare una giustificazione alla visione che il marito ha di lei.

La critica ha elogiato il film, arrivando a definirlo “un mite e sorprendente lavoro anti-drammatico per i fan del cinema indipendente” (Todd McCarthy, The Hollywood Reporter).

Il progetto è stato a lungo presente nei meandri della mente di Jarmusch, regista e sceneggiatore, che definì le prime bozze della trama addirittura vent’anni fa. Per realizzarlo al meglio, ha deciso di affiancarsi al suo poeta contemporaneo preferito, Ron Padgett.

Quest’ultimo ha composto tutte le liriche che nel film sono attribuite al protagonista. Lo stesso Jarmusch ha però voluto dare il suo apporto alla componente poetica, scrivendo i versi che nel film risultano pensati da una precocissima bambina che Paterson incontra per caso.

In Paterson, il regista gioca anche con la tendenza cinematografica per cui ad un elemento narrativo vengono conferite sfumature di significato simboliche. Esemplare in questo senso risulta il leitmotiv dei gemelli: da quando Laura dice di aver sognato di partorirli, il marito inizia a vederne ovunque.

Questo elemento narrativo è stato inserito direttamente in fase di riprese, quando il regista ha notato che gli attori più piccoli venivano sostituiti, come spesso accade, da fratelli identici. A detta dello stesso Jarmusch, tuttavia, questo topos è privo di significato ulteriore (“anti-significant”).

Lo spettatore potrebbe interrogarsi su eventuali implicazioni narrative (un parto di Laura, altri eventi degni di nota), senza rendersi conto che si tratta di un elemento volutamente privo di significato, che rende il film nella sua totalità ancor più straniante.

Dopo le sue collaborazioni con Baumbach, Spielberg, e i fratelli Coen, l’ormai affermato Driver sin dagli albori della produzione non ha nascosto l’entusiasmo che provava nel lavorare con un caposaldo del cinema contemporaneo quale è Jim Jarmusch.

I più ironici credono che la scelta del protagonista fosse scritta nel destino, data la curiosa coincidenza tra il cognome dell’attore (Driver, in inglese autista) e la natura del ruolo, un conducente di bus. Ma pare addirittura che, per rendersi il candidato più idoneo al ruolo del protagonista, Driver abbia autonomamente deciso di prendere la patente per la guida di autobus, prima che gli fosse richiesto esplicitamente.

In questo modo, l’attore sperava di automatizzare l’aspetto pratico del suo ruolo per potersi concentrare sull’interpretazione al momento delle riprese. Non meno importante, Driver aveva giustamente immaginato che riuscire a guidare realmente gli ingombranti mezzi avrebbe consentito al regista la possibilità di ricorrere a più inquadrature, potendo lavorare con più libertà.

L’acclamato attore interpreta magistralmente il ruolo che gli è affidato. Il suo personaggio risulta a tratti annoiato, teneramente ingenuo.

La componente di fragile semplicità che Driver riesce a incanalare in Paterson lo rende incredibilmente realistico, quasi commovente nella sua purezza. Ciò che colpisce del protagonista è il suo modo di fare, sempre pacato e riflessivo, mai esuberante o eccessivo. Anche nel momento di peggior crisi, di maggior sconforto, non si lascia accecare dall’ira o da manifestazioni plateali di disperazione.

Silenzioso, Paterson cade in un pacato sconforto, comunque carico di intensità e malessere. Tutto ciò che riesce a dire a proposito delle sue poesie, forse perdute per sempre, è un elegante ma disilluso «they where only words written on water», forse citando il celebre epitaffio del poeta inglese John Keats (“Here lies One whose Name was writ in Water”).

La performance di Driver, particolarmente apprezzata, gli ha permesso negli anni successivi di collaborare con altri mostri sacri del cinema contemporaneo tra cui Scorsese (Silence, 2016), Soderbergh (La truffa dei Logan, 2017) e Lee (BlaKkKansman, 2018), fino ad arrivare alla nomination all’Oscar per miglior attore (non protagonista nel 2019 per il film di Spike Lee e protagonista nel 2020 per Storia di un matrimonio di Baumbach).

La narrazione di Paterson si sviluppa dunque attorno a un quotidiano semplice e ciclico, ad una circolarità monotona.

Per questa ragione, un evento perturbatore come quello del finale, che normalmente non sarebbe abbastanza forte da stravolgere l’andamento della storia, assume in questo caso connotazioni drammatiche e riverberi disastrosi.

Gli ultimi minuti del film, però, aprono ad un messaggio di speranza, illustrando come talvolta sia necessario fare un passo indietro per trovare nuove fonti di ispirazione. In questa chiusura molti critici hanno visto una forte dichiarazione da parte dello stesso Jarmusch, che dopo anni di esperienza continua a sorprendere il suo pubblico innovandosi ma rimanendo fedele alla sua concezione artistica.

In effetti, solo una mente creativa così solida ma al contempo propositiva poteva offrire al pubblico un’opera come Paterson, che sfidando qualsiasi convenzione narrativa riesce comunque a colpire dritto nell’animo dello spettatore.

Eleonora Noto

Falling Star - Daria D. - Libro - Brè - | IBS

I tempi cambiano, i miti crollano.

Hollywood è considerata di certo la città dei sogni e dei successi. Il luogo in cui tutto è possibile, la casa di dive e divi di talento, irraggiungibili e fortunati.

Ma è realmente così?

Dalla lettura di Falling Star. Fotogrammi cinici di Hollywood e altre follie (Brè Edizioni, 2021), pungente romanzo della scrittrice Daria D., pseudonimo di Daria Morelli, sembrerebbe di no. Ad emergere è infatti un mondo diverso da come ce lo immaginiamo quando pensiamo alla patria del cinema.

Billy Wilder ci aveva parlato di un mondo diverso da quello tanto decantato già un bel po’ di anni fa nel capolavoro cinematografico Viale del tramonto, quando l’avvento di una Hollywood nuova e per certi aspetti spogliata della magia delle origini si stava facendo strada intaccando la personalità di attori e attrici che avevano creduto in qualcosa che andava ben oltre il puro e semplice apparire: il talento.

Ora, con un linguaggio differente, ma con un simile messaggio nascosto tra le righe, assistiamo ad una descrizione che va ben oltre l’apparenza.

Protagoniste non sono infatti le tanto decantate stelle di Los Angeles, belle, impenetrabili e per questo dotate di fascino, ma sono figure amareggiate, disperate si direbbe, private del loro successo a causa dei vizi che la fama incontrollabile comporta o della volontà di non cedere alle richieste del grande pubblico.

O sono semplicemente scrittori, registi, attori che vogliono continuare a credere nelle proprie capacità, e soprattutto nei loro sogni e che per questo cadono nell’oblio del tormento interiore.

Personaggi inseriti in brevi racconti, per l’appunto fotogrammi, da Daria che, mediante un linguaggio capace di comunicare tanto proprio perché ricco di semplicità ed ironia, presenta una Hollywood più vera e meno cinematografica, un luogo peraltro ben conosciuto dall’autrice che ha vissuto nella “città degli angeli” per ben dodici anni.

Divertente e amaro quanto basta, Falling Star è quindi la descrizione di ciò che si nasconde dietro alla facciata.

L’immagine della perversione, delle sconfitte, della determinazione, del voler raggiungere il successo nonostante tutto e tutti, ma soprattutto di se stessi, dei valori e dei principi che un tempo, da bambini magari, erano alla base del sogno.

Ecco che quindi Hollywood si presenta per ciò che realmente è: il luogo delle deluse aspettative e delle contraddizioni, il mondo in cui prima o poi la maschera cala e viene fuori ciò che si è veramente.

Maria Pettinato

Il giallista: News: DENTE D'ORO di Daria D. - Bré Edizioni

Daria D., pseudonimo di Daria Morelli, è scrittrice, attrice, modella, regista, sceneggiatrice. Veneta di nascita, laureata al Dams di Bologna si stabilisce a Roma per intraprendere la carriera di attrice. Durante la sua permanenza a Los Angeles è assistant manager alla libreria Rizzoli di Beverly Hills e chauffeur di limousine, esperienze lavorative che la spingeranno a pubblicare nel 2020 la sua antologia di memorie Diario di una chauffeur e altre storie americane per Brè Edizioni. Casa editrice per la quale pubblica nel 2019 il romanzo noir Dente d’oro e nel 2021, oltre a Falling Star, Torneremo ad abbracciarci assieme ad altri autori sul tema della pandemia. Tra le altre mille esperienze come attrice e articolista ha posato come modella per due importanti libri fotografici del regista e sceneggiatore Gian Pietro Calasso: Narcissu’s Eros- L’Eros di Narciso, edito da Mondadori Electa nel 2002, e Los Angeles Now-here Nowhere con prefazione di Ennio Morricone, edito da De Luca Editori d’arte nel 2009.

Le Piccole donne di Greta Gerwig prenotano l'Oscar 2020 - Amica

Piccole Donne è un film diretto da Greta Gerwig e uscito nel 2019 e il 9 gennaio 2020 in Italia.

Ispirato all’omonimo libro della scrittrice statunitense Louisa May Alcott, nota principalmente come l’autrice della tetralogia di libri per ragazzi Piccole donne composta da due volumi usciti rispettivamente nel 1868 e nel 1869 ed editi dalla casa editrice Roberts Brothers.

Il film, stupefacente già solo per il cast che lo compone, tratta della storia delle quattro sorelle March, Meg (Margaret), Jo (Josephine), Beth (Elizabeth) e Amy, le quali vivono nella loro casa a Concord (USA) insieme alla madre (Marmee March), mentre il padre è in guerra come cappellano del fronte.

La protagonista principale, proprio come nel romanzo, è Jo March (Saoirse Ronan), giovane insegnante che tenta di farsi strada nel mondo della scrittura senza però ottenere grossi risultati per il semplice fatto di essere donna. Ma nonostante sia lei il personaggio principale, nella trama spiccano anche le quattro sorelle con le loro vite fatte di amori e di difficoltà, di sofferenze e di esperienze.

Oscar 2020: Piccole Donne conquista l'Academy e ottiene 6 nomination! -  Movieplayer.it

Caratteristiche presenti nel romanzo autobiografico in cui emergono difatti le difficoltà economiche della scrittrice che, nonostante un’egregia istruzione privata, fu costretta a lavorare fin da giovane come insegnante occasionale o sarta; così come ad influire nel cambiamento psicologico della donna è la morte della sorella Lizzie, per non parlare del fatto che all’epoca essere una donna non era facile, soprattutto se si voleva far carriera come Louisa May Alcott-Josephine March. 

Un film che rispecchia in tutto e per tutto il libro della Alcott, con una sola differenza: il tempo della storia, infatti il film non inizia a Natale come il romanzo. Nonostante ciò rimane un capolavoro coinvolgente, degno di nota per la gradevolezza e la pura bellezza che trasmette.

A dimostrarlo sono i numerosi premi vinti come il Critics’ Choice Movie Award alla migliore sceneggiatura o il New York Film Critics Circle Award alla miglior attrice non protagonista per citarne solo alcuni e le varie candidature (Oscar al miglior film e alla migliore colonna sonora, Critics’ Choice Movie Award al miglior compositore e al miglior cast, Golden Globe per la migliore colonna sonora originale, Producers Guild of America Award alla migliore produzione di un lungometraggio cinematografico… )

De Ghetaldi Emma, Gonella Laura, 1 B Classico

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Tenshi no tamago (天使のたまご lett. “L’uovo dell’angelo”) è un film d’animazione del 1985, scritto e diretto dal regista Mamoru Oshii, disegnato dall’artista Yoshitaka Amano e prodotto dallo Studio Deen e dalla Tokuma Shoten.

Si tratta del primo lavoro di Oshii come regista indipendente e molti dei tratti caratteristici del suo lavoro appaiono qui per la prima volta al punto che, in un articolo di Senses of Cinema, Richard Suchenski, ha affermato che la pellicola si può considerare come una sorta di Stele di Rosetta per interpretare le sue opere successive.

Il film, che narra la storia dell’incontro tra una bambina e un viaggiatore in una terra in rovina e che è incentrato sul mistero dell’uovo da lei trasportato, fa poca leva sui dialoghi ed è disseminato di simboli e citazioni bibliche.

La storia è ambientata in un mondo buio e desolato, in particolare nei pressi di una città abbandonata, dallo stile gotico. Alla fine del film, la terra su cui si muovono i due protagonisti si rivela essere solo un punto simile allo scafo di una grande arca, in mezzo all’oceano.

In base alla storia raccontata nel corso del film è presumibile che questo mondo sia il risultato di una versione alternativa della storia biblica del diluvio universale, in cui la colomba mandata a cercare terra non ha più fatto ritorno, le persone hanno dimenticato del mondo prima del diluvio e tutti gli animali si sono trasformati in pietra.

Anche i personaggi, solo due, possiedono caratteristiche legate al mondo religioso.

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L’uomo, simbolo della fede perduta, è un soldato che trasporta un’arma a forma di croce. Nonostante non ci siano prove concrete, l’uomo vuole probabilmente rappresentare Gesù, non solo per via delle sue ferite sulle mani, nello stesso punto in cui Gesù è stato crocifisso, ma anche per il suo ruolo nella storia, nella quale mette a costante prova la fede della bambina. Sembra alla ricerca della sua identità e mette in discussione la propria esistenza e quella del mondo che lo circonda.

La bambina, simbolo di purezza e di completa fede, protegge costantemente un uovo misterioso. Vive da sola vicino a una città abbandonata e raccoglie giorno dopo giorno l’acqua del fiume in bocce che poi conserva nel suo rifugio. Il numero elevato di ampolle lì presenti fa intendere che si trovi in quel posto da molto tempo.

La sua propensione a proteggere l’uovo di cui non conosce il contenuto simboleggia inoltre la fede cieca della sua innocenza e purezza.

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Un’altra rappresentazione di questa fede cieca è data da una scena in cui delle statue di pescatori d’un tratto si ravvivano per inseguire e cercare in vano di colpire con degli arpioni quelli che credono essere pesci, ma che sono in realtà solamente delle ombre.

Anche loro, proprio come la bambina, compiono quest’azione senza dubitare della loro esistenza. È inoltre da
far notare che i pesci sono spessi visti come simboli del Cristianesimo e che nella Bibbia i fedeli di Dio erano spesso chiamati pescatori.

Una fede però la loro non pura, ma al contrario simbolo di come la fede e la religione siano ahimè spesso cause di conflitti fra gli uomini. I pescatori infatti, completamente accecati dalla fede al punto di dimenticare l’idea stessa, continuano a cercare di catturare i pesci senza badare alle conseguenze.

Serio e colmo di simbolismo, Angel’s egg riesce a creare atmosfere cupe anche senza l’utilizzo di musica e con un dialogo minimo.

Caratteristica quest’ultima che può rendere il film pesante e difficile da comprendere, ma talmente ricco di dettagli e significati nascosti da renderlo coinvolgente e apprezzabile dal vasto pubblico che ama questo genere di trame.

Porcedda Gandolfo Alice, Buzi Sara, Garibbo Sofia, 2 A Classico

Laurence Anyways - Film (2012) - MYmovies.it

Laurence Anyways (2012) – il terzo tra i lungometraggi realizzati dal giovanissimo Xavier Dolan – si potrebbe banalmente catalogare come la rappresentazione del percorso di transizione di Laurence che, da uomo, decide di riconoscersi come donna.

Complessivamente, però, sarebbe forse più corretto considerarlo la rappresentazione di due persone che si amano ma che non possono più stare insieme, sebbene non riescano ad accettarlo.

Il percorso di cambiamento di Laurence (Melvil Poupaud) è tallonato dagli stravolgimenti che vive Fred (Suzanne Clément) a seguito di questa svolta nell’uomo amato. Nella loro vita di coppia fatta di risate simbiotiche, elettrica libertà ed esuberanza si impone una necessità di quiete; lo stesso silenzio che chiede Laurence a Fred per trovare il coraggio di dichiararle ciò che pensa, mentre lei, euforica come sempre quando sono insieme, non riesce a zittirsi.

La transizione di Laurence sembra passare quasi inosservata negli eccentrici anni Ottanta: i suoi studenti la accettano all’istante, amici e colleghi la supportano e si interrogano con ammirazione sulla sua esperienza.

Ma passerà poco tempo prima che Laurence si renda conto di essere in realtà diventata una creatura ai margini della società. In modo bruto e violento verrà infatti allontanata, sia metaforicamente che letteralmente, a più riprese nel corso del film, e la sua condizione le crollerà addosso inaspettatamente, di colpo: “ecce homo”, come lei stessa esplicita dopo uno dei primi segnali di scherno che le saranno rivolti, ingiustamente condannata per la sua condizione esistenziale.

Laurence sceglie di rifugiarsi dalla sua compagna, trovandosi allontanato anche dalla famiglia di provenienza. Se la madre fatica a comprenderla, tra Laurence e il padre sembra frapporsi una cortina d’incomunicabilità.

Laurence Anyways e il desiderio di una donna... - Wikipedia

Sebbene all’inizio si dimostri reticente a comprendere, Fred sceglie di sostenere Laurence nella sua scelta. Anche lei ostacolata dalla madre e dalla sorella, che non comprendono la sua scelta, decide di cullare la persona amata in questa fase così critica della sua vita.

Fred la vizia, la rallegra, le promette di essere al suo fianco nella sua rivoluzione; ma, suo malgrado, nonostante la buona volontà, non riesce a reggere la pressione del contesto. Fred cerca momenti di riflessione, si allontana a più riprese da Laurence per poi tornare, dopo aver raccolto le forze.

In uno di questi momenti, quello dell’eccentrica festa detta Cinébal, Fred si traveste per concedersi un momento di
evasione e spensieratezza. Il suo gesto assume però un valore completamente diverso da quello di Laurence: per la prima il travestimento è una parentesi di divertimento, per la seconda la trasformazione è una necessità interiore.

Già l’inizio del film anticipa l’atmosfera che caratterizzerà i minuti successivi. L’inizio, un dialogo su sfondo nero che precede il visivo, può facilmente risultare simbolico: le immagini si svelano difatti a poco a poco, così come fa Laurence nel corso del film.

Laurence Anyways – Dostoevskij e dintorni

Il regista, anche sceneggiatore, sceglie di non mettere in scena il momento in cui Laurence confessa alla compagna di voler diventare donna. Lo spettatore vede solo il prima e il dopo, senza poter assistere all’evento scatenante.

Una scelta che, per quanto azzardata possa apparire, permette di percepire le conseguenze del momento come ulteriormente inaspettate e caustiche: nessun crescendo ci porta a quell’esplosione, motivo per cui appare ancora più forte.

Terzo film del promettente giovane autore e regista canadese, Laurence Anyways è il primo in cui non recita (se si esclude un quasi impercettibile cameo nella scena del Cinébal).

Dolan, già noto per la sua abitudine a lavorare con determinati interpreti che si ripetono nei suoi film, sceglie in questo caso di collaborare con alcune delle sue “attrici feticcio”: Suzanne Clément (qua Fred), già comparsa nel film d’esordio Ja’i Tué Ma Mère e in Mommy, e Monia Chokri (Stéfanie Belair, sorella di Fred), co-protagonista assieme allo stesso Dolan in Les Amours Imaginaires.

Troviamo inoltre alcuni temi e situazioni narrative cari al regista, come il topos dell’incomunicabilità, i dialoghi urlati (qua come in J’ai Tué Ma Mère) e l’espediente del tè riconciliatorio (qua tra Fred e Laurence, in Les Amours Imaginaires tra Francis e Marie).

Non meno importanti, molti stilemi registici tipici di Dolan compaiono anche in questo lungometraggio, come il ricorso al ralenti e l’insistenza sui primi piani. Soprattutto, troviamo in Dolan la tendenza a esplicitare sensazioni e metafore: ad esempio, quando Fred è sconvolta, il regista sceglie di ritrarla imperturbabile, nel suo elegante salotto, mentre un travolgente getto d’acqua proveniente dall’alto la colpisce.

Probabilmente, proprio il suo stile ben definito e la sua vicinanza a temi della comunità LGBT+ lo rendono il regista più idoneo a narrare per immagini una vicenda del genere, creando una commistione di intimità e lirismo, fragilità e passioni viscerali che caratterizzano Laurence Anyways, rendendolo unico nel suo genere.

Eleonora Noto

Se telefonando playlist

“Lo stupore della notte spalancata sul mar

Ci sorprese che eravamo sconosciuti io e te

Se telefonando è uno dei più famosi brani di Mina, considerata una delle cantanti migliori nella storia della musica italiana, nota specialmente per la sua voce particolare e riconoscibile, con la quale ha fatto innamorare dall’inizio della sua carriera negli anni Cinquanta, milioni di persone.

Il testo di questo brano, uscito nel maggio del 1966, è stato scritto da Maurizio Costanzo e Ghigo de Chiara, mentre per l’arrangiamento e la musica si occupò il grande Ennio Morricone, ispirandosi «al suono delle sirene della polizia» come dichiarò all’uscita del brano.

Poi nel buio le tue mani d’improvviso sulle mie

È cresciuto troppo in fretta questo nostro amor

Il significato della canzone è facilmente riconoscibile e individuabile all’interno del testo; esso è concentrato su un contrasto di emozioni totalmente differenti e dall’inizio capiamo che i protagonisti di questa splendida canzone sono due giovani.

Questi si ritrovano in una meravigliosa spiaggia sotto la luce della luna probabilmente di una serata estiva.

Se telefonando (lyrics) - YouTube

I due non si conoscono bene, ma per un motivo inspiegabile razionalmente, sentono l’uno per l’altra una passione e un’intesa incontrollabili. In breve infatti vengono travolti dall’amore.

Se telefonando io potessi dirti addio

Ti chiamerei

Se io rivedendoti fossi certa che non soffri

Ti rivedrei

Se guardandoti negli occhi sapessi dirti basta

Ti guarderei

Per la donna quella che apparentemente può sembrare una storia occasionale prende la forma di un vero e proprio amore, ma di fronte ad esso lei non sa come reagire, perché quelle emozioni così forti e prorompenti non le conosce, non le ha mai provate.

Sentimenti sconosciuti si trasformano perciò in paura e questa conseguentemente spinge la giovane donna a chiudere un rapporto in realtà nemmeno iniziato.

Ed ecco che “Se telefonando io potessi dirti addio, ti chiamerei” è la frase che spiega precisamente la sua intenzione e che precede una serie di altre frasi con le quali l’ascoltatore intuisce il suo stato d’animo, cioè la paura di soffrire.

Ma non so spiegarti che il nostro amore appena nato

È già finito

Un brano commovente per svariati motivi: la sua melodia, il suo testo, la magnifica voce di Mina travolgono emotivamente l’ascoltatore.

Se telefonando fa capire di fatto quanto le prime esperienze insegnino, e facciano scoprire la propria persona, la propria interiorità, quindi ciò che realmente si ha dentro.

Bravo Lupita, 1 A Classico

The Five Coolest Scenes From the Harry Potter Movies That Weren't In the  Books - Willamette Week

Nicholas Edward Cave, in arte Nick Cave, è un compositore australiano e autore, durante un periodo mesto e malinconico della sua vita, di O Children (2004).

Fondatore assieme a Mick Harvey della band Concrete Vulture e rinominata in seguito Boys Next Door, pubblica il suo primo brano di successo Door Door raggiungendo la fama a livello internazionale.

Un successo che ahimè si trasforma in un giudizio a dir poco critico quando trasferitosi a Londra con la band ormai nominata The Birthday Party diventa noto per l’esuberanza animalesca sul palco e per i concerti rissosi, dovuti perlopiù all’abuso di alcool e di droga. Situazione che porta la band a sciogliersi nel 1983.

“The cleaners are coming, one by one” ossia I pulitori stanno arrivando uno a uno dice O Children, il brano che parla della deportazione nazista nei campi di concentramento dal momento iniziale, quello del viaggio sul treno della morte.

Il significato della canzone è molto profondo: il testo sembra infatti una sorta di discorso fatto dagli adulti ai bambini, prima del viaggio verso il campo di lavoro, un viaggio senza ritorno, un viaggio verso la morte.

A colpire, oltre alle parole del testo, è il ritmo malinconico di questo brano musicale, dal quale emergono le difficoltà e le paure, ma allo stesso tempo la voglia di reagire, di viver.

Il messaggio è infatti l’amore che trionfa nonostante tutto e la speranza di una vita ricca di gioia e di serenità.

Nick Cave, in arrivo un'autobiografia illustrata e una mostra :: News ::  OndaRock

Nel discorso ai bambini, gli adulti a tratti nascondono loro la verità, descrivendo il viaggio come una gita verso un regno, a tratti invece chiedono scusa, sia per i momenti e le liti in famiglia, sia per il futuro che aspetta ai propri figli e nipoti, un futuro incerto e pieno di sofferenze.

Matt Biffa, supervisore musicale di Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1, ha spiegato in un’intervista di aver scelto questo brano come colonna sonora del film perché si identificava con i suoi testi a livello personale, poiché si stava separando dalla moglie in quel momento ed era preoccupato come questa situazione avrebbe influenzato i loro due figli piccoli:

«C’era qualcosa di veramente edificante in O Children , con frasi come rallegrati / alza la tua voce e tutte quelle cose. Stavo pensando ai miei figli. I testi dicono Perdonaci per quello che abbiamo fatto».

Un brano malinconico e capace di far riflettere, ancor più famoso e celebre tra le nuove generazioni per la scena del ballo tra Harry e Hermione nel film Harry Potter and the Deathly Hallows: Part 1, rimasta alla memoria del pubblico come momento cult dell’intera pellicola.

Muca Gloria, Ricca Lorenzo Linceo, Lanteri Matilde, 1 A Classico


Psycho (1960) - Rotten Tomatoes

Psycho, o meglio conosciuto in Italia come Psyco, è un thriller americano realizzato nel 1960 dal regista Alfred Hitchcock.

Un vero e proprio capolavoro, tanto da essere passato alla storia come un effettivo cult movie, al quale furono successivamente ispirate altre pellicole.

Il film vede come sua protagonista Marion Crane (Janet Leigh), giovane e bella segretaria di un’agenzia immobiliare, la quale ha intrapreso da diverso tempo una relazione sconosciuta agli occhi del mondo con Sam Loomis (John Gavin), imprenditore e proprietario di una ferramenta non molto distante dalla città di residenza della propria amata, ovvero Phoenix, in Arizona.

Tutto ha inizio l’11 novembre 1959 quando Marion, in seguito a uno dei suoi soliti incontri segreti con Sam durante la pausa pranzo, fa ritorno presso il proprio ufficio, luogo in cui ha occasione di assistere a un ottimo successo lavorativo del proprio capo che si è concluso con un affare di £ 40.000 per l’acquisto di un’abitazione.

Alla protagonista è affidato il compito di portare tale cifra di denaro in banca, mansione che tuttavia non svolgerà mai in quanto, grazie alla scusa di una terribile emicrania, riesce ad ottenere un pomeriggio di ferie che sfrutterà per fuggire verso la città dove risiede il proprio compagno.

A causa di un’improvvisa e violenta pioggia però la ragazza non giungerà mai a destinazione in quanto si imbatterà nell’insegna del Bates Hotel, luogo in cui avverrà il suo memorabile assassinio.

Omicidio rimasto nella storia del cinema, ma soprattutto nella memoria collettiva per la cosiddetta “scena della doccia”, leggendaria e ancora oggi da brividi.

78/52, la scena della doccia di Psycho, la lezione di Alfred Hitchcock |  CameraLook

Una scena in cui il regista, astuto e di mestiere, non inquadra mai l’evidente accoltellamento della ragazza, ma lo lascia intendere allo spettatore contribuendo così all’alimentazione dello scenario di tensione che caratterizza l’intero film.

E ancor più indimenticabile perché inscritta nella sfida economica che Hitchcock dovette affrontare per la produzione della famosa pellicola. Il regista infatti dovette girare un film di qualità con mezzi limitati e in una forbice temporale ristretta.

Psycho infatti si ispirò all’omonimo romanzo di scarso valore dello scrittore Robert Block, tradotto in italiano come Il passato che urla, il quale vede come suo protagonista un serial killer realmente esistito, ovvero Edward Gein, il quale, sempre presso il territorio statunitense, uccise due persone e fece dei loro corpi degli ornamenti per la propria dimora.

La casa di produzione cinematografica Paramount Pictures, la quale aveva con Hitchcock un contratto per la realizzazione di un altro film, rifiutò, proprio per l’insuccesso del romanzo, l’offerta mossa dal regista di comprare i diritti cinematografici del thriller di Bloch.

Ecco che quindi Hitchcock si vide costretto a provvedere al loro acquisto autonomamente, spendendo oltre 10 mila dollari.

Scelta rischiosa che lo spinse a rendere il film meno violento di come lo aveva inizialmente immaginato dalla lettura del romanzo, pur di avvalersi del finanziamento della Paramount la quale, con un budget di appena $ 806. 947 e un limitato lasso di tempo, decise infine di cedere alle richieste del maestro.

Psycho” e l'emozione di massa del cinema autoriale | Cinefilia Ritrovata |  Il giornale della passione per il Cinema

In cambio il regista assicurò il bianco e nero, in quanto un film a colore avrebbe rischiato di essere troppo crudo e violento verso lo spettatore.

Le riprese ebbero luogo presso un’ambientazione appartenente alla Universal Studios, precedentemente impiegata per la realizzazione del film, situata ad Hollywood nella quale l’edificio dall’architettura gotica, ispirato al quadro The House by the Railroad (1925) di Hopper, si palesa come protagonista. 

Nelle immagini del film non si può fare a meno di notare la penna del maestro, la quale si manifesta grazie all’attenzione psicologica circa i fatti illustrati: il regista infatti scelse volontariamente di attribuire poca importanza alla personalità e al carattere dei personaggi per concentrarsi sulla creazione di un’atmosfera di suspense a partire da elementi quasi del tutto insignificanti e attraverso la perfetta coniugazione di strumenti cinematografici.

Interessante è il ricorso al tema del doppio ad esempio, tipico della produzione cinematografica del regista, con lo scopo di attirare a sé l’attenzione dello spettatore: la sessualità intesa come peccato o massima espressione dell’amore, il bianco contrapposto al il nero, la follia all’accortezza, la confusione mentale alla chiarezza del pensiero ecc…

Uno dei motivi per cui Psycho ha riscontrato tale successo, come attesta il ricordo collettivo, oltre al Premio Oscar di cui si è avvalso nel 1961, è stato sicuramente il significato psicologico che sta dietro alla trama.

78/52, la scena della doccia di Psycho, la lezione di Alfred Hitchcock |  CameraLook

Dando uno sguardo più profondo e attento ai dettagli – anche a quelli più apparentemente insignificanti – si può infatti notare come il film lavori nella nostra mente senza che noi ce ne rendiamo conto.

Ciò su cui l’autore ha mirato principalmente a far leva è la sensibilità.
Il film in sé, per quanto ci possa sembrare assurdo, negli anni Sessanta era qualcosa di terrificante.

Per comprendere l’importanza della reazione e della volubilità degli spettatori basti pensare alla scelta del bianco e nero o al taglio di scene ancor più crude.

Uno sguardo accurato incide sui personaggi e in particolare a quello di Norman Bates (Anthony Perkins), protagonista dell’intera vicenda.

È un soggetto con molteplici disturbi, causatogli dai vari problemi familiari. La mancanza del padre in età infantile lo ha condotto ad attaccarsi in maniera eccessivamente morbosa alla madre, sviluppando con ella una sorta di complesso edipico.

Norman è infatti invidioso del compagno della madre e dopo la morte della stessa inizia a provare una forte pazzia che lo porta a travestirsi, atteggiarsi e, addirittura, parlare come la figura materna.

Un comportamento a dir poco agghiacciante capace di aiutare il giovane uomo a staccarsi dalla realtà e, nella sua testa, a riportare in vita la defunta madre.

Questo travestimento diventa talmente risonante da impossessarsi di lui diventando un acceso e pesantissimo disturbo della personalità.

La “madre” dunque desidera essere l’unica donna nella vita di Norman, sviluppando una gelosia tale da uccidere qualunque signora accanto al figlio.

Considerato dalla critica come il “capostipite” dei generi horror e thriller, non è un caso che Hitchcock sia da molti definito il Mozart dell’arte cinematografica.

Rossi Giulio, Rossi Eleonora, Zerbone Stefanì Ginevra, 2 A Classico

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