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Archivio categorie: Recensioni

Amour", Storia d'Amore e Distruzione - RECENSIONE (M. Haneke, 2012)

Esiste una poesia molto celebre nel patrimonio lirico italiano: scritta per mano di Eugenio Montale, esordisce con un intenso e pregnante “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino”.

L’abbiamo sentita sin da bambini, quando ci veniva proposta con l’aura che possono vantare solo i beni più preziosi, elogiata dagli insegnanti e citata dagli adulti.

Abbiamo finito, probabilmente, per evocarla rapidamente studiandola alle scuole superiori, recitando i primi due versi con l’intonazione di un’infantile filastrocca, una nenia svuotata di significato.

L’abbiamo letta, parafrasata, studiata, talvolta anche un po’ odiata, abbiamo continuato a intonarne solo l’inizio come una cantilena, ma probabilmente non l’abbiamo mai veramente compresa.

Poi, però, è arrivato Amour (2012).

La regia di Michael Haneke, priva di orpelli sentimentalisti ma sempre molto bruscamente reale, ci trasporta nella vita di un’anziana coppia legata indissolubilmente.

Per la prima volta, negli sguardi che Georges (Jean-Louis Trintignant) riserva ad Anne (Emmanuelle Riva), percepiamo il tono che giaceva sotto alle parole usate da Montale in seguito alla scomparsa della moglie: entrambi portano, ognuno a modo proprio, il fardello del vedere l’amata di una vita dissolversi di fronte a sé.

Sentendo Anne spegnersi lentamente al suo fianco, Georges lotta instancabilmente affondando però al contempo nella più cupa delle disperazioni, poiché sa che (come per Montale) tra di loro “le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate” erano quelle della moglie.

Era lei a stimolarlo, ad aprirgli la porta verso mondi di arte e creatività, e quando lei non può più farlo Georges si trova smarrito.

L’uso della macchina da presa, da questo punto di vista, rende il turbamento di Georges ben visibile.

Le lunghissime inquadrature, che lasciano ben poco spazio al montaggio, creano un senso di staticità che appartiene allo stesso protagonista. Ora che la donna che ha sempre avuto al suo fianco si sta affievolendo, Georges è immobile, inerte fra le quattro mura della sua elegante casa.

Non a caso, la scelta di ambientare (dal momento in cui la vita di Anne si stravolge) l’intero film negli interni dell’abitazione sottolinea l’angoscia e l’oppressione dell’anziano marito. Da quando Anne perde se stessa, anche Georges si smarrisce, riducendosi all’immobilità e rinunciando al mondo esterno.

Il regista, Haneke, prima di girare questa pellicola era già noto al pubblico per lungometraggi quali Funny games (sia nella prima versione del 1997 che nel remake del 2007 ad opera dello stesso) o per il più recente ma altrettanto acclamato Il nastro bianco (2009).

L’attrice principale di questo film, Emmauelle Riva, già icona della Nouvelle Vague per il suo lavoro in Hiroshima mon amour (Resnais, 1959), unisce magistralmente eleganza e fragilità in questa interpretazione, la penultima della sua carriera.

Per stessa ammissione di Haneke, però, il film è stato scritto appositamente per Trintignant, l’interprete maschile principale. L’attore, che aveva già lasciato il cinema da nove anni per dedicarsi al teatro, torna sul set proprio per l’ammirazione nutrita nei confronti del regista.

Sarà proprio l’interprete a suggerire ad Haneke il titolo per il film, che verrà selezionato al posto degli altri pensati dal regista (la scelta altrimenti sarebbe stata ridotta ad un didascalico These two o a un più metaforico Music stops).

L’unica indicazione che Haneke ha fornito ai suoi attori, girando questo film, è stata quella di evitare sentimentalismi.

In questo modo, come risulta evidente allo spettatore, la narrazione e l’interpretazione rifuggono il patetismo, contribuendo a creare quell’atmosfera di cruda realtà mista a disperata fragilità che rende il film così degno di nota.

Eleonora Noto

Vincent van Gogh, notte stellata > Artesplorando

La carriera di Vincent Van Gogh dura poco meno di dieci anni vista la morte avvenuta in età prematura. Pochi anni si direbbe, ma assolutamente florida in quanto realizza oltre novecento opere.

Soffriva di distrubi mentali, condusse una vita sregolata ma con i suoi capolavori ha influenzato profondamente le correnti artistiche dal XX secolo in poi.

Solitario e tormentato, istintivo e sensibile, egoista e violento, ha di fatto utilizzato l’arte come veicolo delle proprie emozioni e visioni.

Attraverso un’anima inquieta e una visione distorta della realtà è riuscito a dipingere prendendo a modello la pittura realista e usando come soggetto gli umili, i lavoratori dei campi, i minatori, le nature morte, i paesaggi e gli autoritratti.

Soggetti che caratterizzano le sue opere insieme alla ricerca dei colori, in particolare del “giallo cromo” che contraddistingue molte delle sue opere  come I girasoli e La casa gialla. Elementi importanti perché capaci di trasmettere a chi guarda queste opere la sua tormentata esistenza.

Definire lo stile di Van Gogh è davvero difficile: alcuni lo definiscono impressionista, altri post-impressionista, altri ancora espressionista. In realtà il suo è uno stile unico proprio perché caratterizzato da un’energia malinconica, misteriosa e a tratti tenebrosa.

Potrebbe essere definita la pittura delle emozioni contrastanti e questo emerge dal fatto che ogni ritratto, così come ogni paesaggio, assumono caratteristiche soggettive.

Una pittura perciò originale come si può notare da Notte stellata, un olio su tela realizzato nel 1889.

È uno dei dipinti più famosi di Van Gogh e rappresenta il vivace paesaggio notturno di un paesino della Provenza, le cui finestre, illuminate da luci artificiali, con un movimento a vortice ottenuto da circolari pennellate – simbolo di inquietudini interiori – , sono collegate alla luce della natura, proveniente dalla luna e dalle stelle.

Ed ecco che da una lettera scritta al fratello emerge la concezione che l’artista aveva della notte: viva e molto più colorata del giorno, caratteristica assolutamente evidente nell’opera.

L’inquietudine è qui proporzionata alla vastità del grande cielo blu: gli spazi sono colpiti dai raggi chiari della luna, rappresentata in modo stilizzato e accesa dal giallo dorato, stessa tonalità che rende protagoniste le stelle in contrasto al blu profondo del cielo.

Esse sembrano infatti piccole boe galleggianti in un mare notturno, trasportate da onde gigantesche nel turbine marino, quello di tutti noi spettatori che, abbagliati dalla notte stellata, viviamo emozioni senza tempo.

Fresia Pietro, 2 A Classico

Same Love | Discogs

Same Love, uscito nel 2012, e’ un brano musicale di Macklemore e Ryan Lewis, artisti americani molto conosciuti.

Macklemore – pseudonimo di Benjamin Hammond Haggerty – è nato nella città più piovosa d’America, Seattle, ed è cresciuto insieme ai suoi genitori fino al periodo del liceo, quando la coppia decide di separarsi.

Dopo aver seguito un corso sulle arti liberali, frequenta un programma focalizzato sull’identità culturale e l’educazione, grazie al quale scopre qualche segreto per raggiungere più facilmente il pubblico musicale, composto prevalentemente da giovani.

Nonostante la sua non sia una famiglia di musicisti, i suoi cari hanno sempre approvato la sua scelta di diventare cantante in quanto già da bambino dimostrava un grande interesse verso la musica.

Si racconta infatti che già all’età di sei anni avrebbe cantato la sua prima canzone hip hop e di come da ragazzo amasse trascorrere i weekend in tenda con gli amici ad ascoltare radio e a fare mixtape di canzoni.

Anche Ryan Lewis nasce nello stato di Washington, dove frequenta la Ferris High School per poi diplomarsi alla Roosevelt High School di Seattle e laurearsi presso la University of Washington.

Dopo essere diventato un importante fotografo professionista inizia nell’estate del 2006 a lavorare con il rapper Macklemore, instaurando con lui una forte amicizia oltre alla collaborazione lavorativa che emergerà fortemente dal 2008, anno in cui nasce la Macklemore & Ryan Lewis.

Collaborazione musicale caratterizzata dalla produzione di diversi album e dal raggiungimento di numerosi riconoscimenti come ad esempio quattro Grammy Award, tra cui uno al miglior artista esordiente, due American Music Awards, due Billboard Music Awards e due MTV VMAS.

Tornando a Same Love, questo può considerarsi un brano dedicato al supporto dei diritti gay e della legalizzazione dei matrimoni omosessuali.

È presente difatti un riferimento al “Washington Referendum”, una riforma in merito all’approvazione o all’abrogazione della legge del Febbraio 2012 che legalizzò i matrimoni omosessuali nello stato di Washington.

Il testo in sé parla di uguaglianza dell’amore tra tutte le persone, di qualunque sesso esse siano. Nel video musicale analogo viene narrata infatti la storia di un ragazzo e delle difficoltà che deve affrontare quotidianamente insieme al suo compagno.

Con questo componimento gli artisti erano indubbiamente intenzionati a diffondere un messaggio di rivoluzione dell’hip hop su questo tema, il quale tra l’altro emerge dalla copertina del singolo, in cui sono ritratti lo zio di Macklemore con il suo compagno.

In conclusione possiamo affermare che oltre a toccare un tema delicato, accompagnato da una melodia orecchiabile e molto efficace nella sua leggerezza, questa canzone può divenire fonte di ispirazione per la sensibilizzazione di questa tematica, ancora oggi in alcuni paesi discriminata e accantonata.

Cresta Elisabetta, Maraucci Giada, Dedej Giorgia, 2 A Classico

Malala Yousafzai. Io sono Malala | arte.go.shop

Nella sua autobiografia, Io sono Malala (Garzanti, 2018, corrispondente Christina Lomb), l’attivista pakistana Malala Yousafzai, racconta i primi anni della sua adolescenza vissuta in Pakistan, prima del trasferimento a Londra.

Protagonista è un’adolescente che desidera una vita normale, un sogno calpestato dai conflitti imposti nella Valle di Sevat, luogo in cui abita. Conflitti mai sventrati da parte di una politica incapace di intervenire.

Emerge quindi la vita di una giovane donna che, solo per il fatto di essere tale, viene privata dei diritti fondamentali come quello di istruzione e di libertà.

Una situazione ancor più grave, ma allo stesso tempo necessaria al cambiamento, si presenta però quando Malala viene colpita da un proiettile.

Occasione quest’ultima che le permette di raggiungere con un’ambulanza aerea la città di Londra dove viene curata e salvata.

Ma anche l’occasione che le permette di inviare il suo diario, scritto all’età di undici anni, alla BBC e portare alla luce internazionale una problematica così importante come quella della violenza in Pakistan e di tutte le conseguenze ad essa associate.

Il libro è infatti ricco di informazioni sia di ambito storico-geografico, vista la minuziosa descrizione dei crimini di guerra, dell’esistenza di società segrete e di derivate cospirazioni, sia di ambito sociale, in quanto emerge la visione di una giovane donna piena di sogni in un contesto ingiusto come quello in cui ha vissuto, e in cui donne come lei ancora oggi vivono.

Il fatto che sia un’autobiografia passa inevitabilmente per i pensieri e i sentimenti di Malala, così come ripercorre la sua vita accanto alla sua famiglia, elemento questo corredato di fotografie scattate dalla stessa autrice ai genitori e al fratellino.

Sicuramente la giovane grande donna, protagonista e autrice allo stesso tempo, ha dimostrato un grande coraggio, tanto da essersi avvalsa del Premio Nobel per la pace nel 2014.

Ne viene fuori un libro capace di non stancare mai, non solo per il carattere giovanile che emerge da una scrittura scorrevole e lineare, ma anche per il messaggio lanciato soprattutto alle nuove generazioni: quello di apprezzare le piccole cose, apparentemente scontate, ma così sognate dalla maggior parte del mondo!

Abate Sonia, 1 B Classico

TROY in televisione: recensione del film con Brad Pitt | MaSeDomani

Troy, diretto da Wolfgang Petersen, è un film epico/drammatico uscito nelle sale cinematografiche il 9 maggio 2004.

Un film ambientato in un’epoca antica, leggendaria e affascinante e che per questo ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica confermato dai molti premi vinti tra cui il premio Oscar ai migliori costumi e l’MTV MOVIE AWARD al miglior combattimento e alla migliore performance (2005) per citarne alcuni.

L’opera di Omero, l‘Iliade, narra gli ultimi cinquantuno giorni della decennale Guerra di Troia, ed è da questa che David Benioff, sceneggiatore del film, si ispira per la realizzazione di Troy.

Il film narra infatti la famosa guerra svolta tra i Greci e i Troiani causata, secondo la mitologia omerica, dal rapimento di Elena da parte di Paride.

Il protagonista Achille, interpretato dal pluripremiato Brad Pitt, è l‘incarnazione della perfezione come dimostrano le caratteristiche che lo rendono così esemplare: bello, possente, audace e valoroso.

Ad emergere le due personalità contrastanti dei due fratelli: Ettore e Paride.

Troy - Film (2004)

Simbolo di forza e di coraggio il primo (Eric Bana), emblema di codardia il secondo (Orlando Bloom), come dimostra la sua fuga da Menelao, che nel poema di Omero spinge la dea Afrodite ad intervenire e a nasconderlo sulla torre di Troia.

Questo però non avviene nel film di Benioff il quale, volutamente, ha eliminato dalla trama l’elemento soprannaturale.

Manca infatti nel film la presenza di divinità, così come non è presente la morte epica di Achille: essa non avviene colpendo il tallone, ma la sua uccisione è totalmente “umana”.

Troy: recensione di una grande occasione persa - Cinematographe.it

Attraverso inquadrature di calibro elevato e ricche di effetti speciali Troy è riuscito nel suo intento, offrendosi come un vero e proprio capolavoro cinematografico.

Un film da riguardare perché coinvolgente e capace di suscitare emozioni, soprattutto nelle scene salienti ed iconiche, ma soprattutto un film riuscito nel tentativo di comunicare l’epica in modo originale ad un pubblico moderno.

Casano Giovanni Maria, 1 B Classico

Attack on Titan (TV Series 2013– ) - IMDb

Attack on Titan è un anime tratto dall’omonimo manga scritto da Hajime Isayama, manga Ka giapponese.

Esso è diviso in quattro stagioni, di cui l’ultima ancora in corso, ed è un genere shōnen, animato dal wit studio.

Dalla prima edizione, risalente al 2012, Attack on Titan ha ottenuto un successo strepitoso e attualmente è uno tra i manga e gli anime più popolari e apprezzati al mondo.

Il protagonista è Eren Jeager, uno dei tanti bambini a cui viene stravolta la vita a causa dello sfondamento, da parte del gigante diverso Il Colossale, di una delle tre cinte di mura che proteggono l’umanità.

La morte dei suoi genitori causata da questo attacco spinge Eren a fuggire assieme ad altri bambini grazie a un soldato, circostanza che permette al protagonista di coronare un grande sogno: arruolarsi nel Corpo di Ricerca.

Quest’ultimo è difatti l’unico a poter uscire dalle due mura rimaste e opporsi al dominio dei giganti. Ma le cose sembrano cambiare a suo sfavore quando i giganti diversi sfondano la loro unica protezione.

Come guardare Attack on Titan online: live streaming le ultime stagioni in  tutto il mondo - I giochi, i film, la tv che ami

Ormai cresciuti, Eren e i suoi compagni saranno in grado di cambiare il destino dell’umanità?

Ciò che appare certo dal racconto sono il mutamento della vicenda, i tradimenti, le lotte, ma anche le perdite, le quali suscitano nel pubblico un coinvolgimento non da poco.

Elemento quest’ultimo importante perché conferma il meritato successo di Isayama nella creazione di personaggi dotati di un proprio carattere.

La personalità di Eren ad esempio viene fuori per l’impulsività e la spensieratezza, ma anche per una psicologia complessa ed intrecciata; differenti sono invece gli amici del protagonista, Armin Arlert, poco abile in combattimento, ma con un’astuzia fuori dal comune, e Mikasa, abile combattente e amica protettiva nei confronti dei suoi cari.

Personaggi di spicco quindi emergono in un lavoro di grande riuscita!

Santomauro Giulia, 1B Classico

Arriva 'Io sono l'abisso' di Donato Carrisi - Libri - ANSA

Thriller psicologico dalla narrazione pluriprospettica e dalla trama complessa è il nuovo romanzo di Donato Carrisi, Io sono l’abisso, edito da Longanesi Editore nel 2020.

La trama, apparentemente tranquilla all’inizio, si trasforma in una storia travolgente e ricca di suspense.

È il compleanno del figlio di Vera il giorno in cui quest’ultima decide di insegnargli a nuotare. L’euforia del piccolo però scompare quando, assieme alla madre, giunge in una piscina diversa da quella immaginata.

Essa si presenta infatti sporca e viscida anticipando in questo modo il clima inquietante che da lì a poco colpirà il lettore. Vera infatti lascerà in balia del terrore il figlio nella putrida piscina, sperando così nella sua morte.

In realtà essa non avviene in quanto il piccolo abbandonato dalla madre riesce a salvarsi e a diventare un uomo, anzi si direbbe “l’uomo”, il netturbino dalla duplice personalità, colui che, senza nome, di giorno pulisce di vie della città e di notte si trasforma in Mike, l’assassino metodico.

Ma è realmente la malvagità del netturbino a venire fuori o in lui si nasconde un briciolo di umanità che lo trasformerà in una sorta di angelo custode?

Donato Carrisi: su molestie e violenze, indignarsi non è abbastanza - Life  - D.it Repubblica

Il romanzo di Carrisi fornisce numerose incognite durante la lettura, le cui risposte si presentano nella tensione che arricchisce le pagine scorrevoli e coinvolgenti.

L’autore utilizza infatti la tecnica della focalizzazione interna in terza persona, ovvero descrive i fatti prendendo come punto di vista quello di un determinato personaggio ed è così che nel corso della lettura siamo “un assassino” che si riscopre umano, “una ragazzina” costretta a crescere troppo in fretta, “un’ispettrice” bloccata nel passato, “un bambino” sottomesso dalla violenza.

Il tema della violenza e dei suoi aspetti più occulti vengono trattati da Carrisi il quale abbatte stereotipi e analizza un comportamento umano ahimè comune.

Degna di nota è l’analisi della psicologia umana che rende il romanzo ricco di spunti di riflessione e capace di trasmettere al lettore il brivido della tensione che lo rende così emozionante e avvincente.

Ardissone Maria Bianca, 1B Classico

Poster A un Metro da Te

Il film A un metro da te, prodotto e diretto da Justin Baldoni nel 2019, è dedicato alla youtuber e attivista Claire Wineland, morta di fibrosi cistica, malattia genetica degli apparati respiratorio e digerente, intorno alla quale ruota l’intera trama.

Affetta da questa malattia è la protagonista Stella Grant (Haley Lu Richardson), ragazza forte, capace di vivere la sua malattia con spensieratezza, cogliendo ogni lato positivo della vita e cercando così di mantenere il sorriso in ogni situazione.

Ed è in ospedale, il luogo in cui passa la maggior parte del suo tempo, che conosce Will Newman (Cole Sprouse), ricoverato anche lui per la stessa problematica.

Tra i due nasce quasi da subito un fortissimo legame, che poi diventerà d’amore, anche se sono costretti a viversi a un metro di distanza l’uno dall’altra per evitare il rischio di infezioni batteriche.

Ne viene fuori un film toccante e commovente, capace di trattare un tema piuttosto profondo visto dagli occhi di un’adolescente come tante, ma che non può vivere come le altre.

Nonostante il tema possa risultare pesante, è interessante come esso sia alleggerito dal sentimento dell’amore che supera qualsiasi barriera e abbatte ogni ostacolo.

Un tema attuale si direbbe, in quanto le distanze fanno parte della nostra quotidianità a causa del covid-19 da ormai un anno.

Assolutamente consigliata è la visione di un film in grado di suscitare nello spettatore una profonda riflessione non solo sulla situazione delle persone che convivono con questa malattia, ma anche e soprattutto sull’importanza delle piccole cose quotidiane, che vanno apprezzate sempre e comunque.

Camilla Riva, 1 B Classico

The Breakfast Club (1985) - IMDb

The Breakfast Club è una commedia drammatica diretta dal regista John Hughes, produttore tra i tanti, di film popolari come Sixteen Caudles, Pretty Pink e Day Off.

Girato negli Stati Uniti del 1985 e ambientato in un quartiere immaginario di Chicago (già presente in altri film di Hughes), parla di cinque ragazzi: Claire, Andy, John, Brian e Allison.

Molto diversi tra loro si ritrovano tutti in punizione un sabato pomeriggio con il compito di scrivere un tema affidato loro dal preside Vermon, la cui traccia è la seguente: “chi sono io?”.

Ed è così che gli adolescenti si scoprono per quello che sono, con i propri pregi e difetti e i propri problemi.

Ad emergere sono infatti le vere personalità dei protagonisti:

Breakfast Club (film) - Wikipedia

da Claire (Molly Ringwald), la classica “principessina” invidiata e apparentemente superficiale, che in realtà nasconde dietro alla sua corazza una grande sofferenza per il divorzio dei genitori a Allison (Ally Sheedy), la ragazza eccentrica e sola, emarginata dai suoi compagni e dalla sua famiglia.

E poi ci sono Andy (Emilio Estevez), l’atleta più dotato dalla scuola, sofferente perché pressato dal padre e Brian (Anthony Michael Hall), anche lui sempre sull’attenti, sempre perfetto, tanto da tentare il suicidio per le continue sollecitazioni e infine John (Judd Nelson), il classico cattivo ragazzo, vittima della violenza del padre.

Un gruppo di giovani diversi tra loro, ma che si scopre unito da una profonda amicizia e da una sintonia quasi fraterna.

Ne viene fuori una commedia – a tratti drammatica – piacevole, e allo stesso tempo ricca di spunti di riflessione.

15 Most Memorable Quotes From The Breakfast Club | ScreenRant

Emergono infatti problemi molto comuni tra gli adolescenti dell’epoca e di oggi come l’oppressione genitoriale, la paura dell’abbandono, la pressione sociale, la sensazione di non conoscere se stessi e la violenza domestica fisica e psicologica.

Un film capace di toccare le anime di molte generazioni e che, per questo, si è valso di importanti premi come l’MTV Movie e Tv Awards nel 2005 e il National Film Preservation Board Usa nel 2016, per citarne solo alcuni.

E siamo sicure che ne vincerà tanti altri, anzi glielo auguriamo!

Gazzano Alessia e Quaranta Chiara, 1 A Classico

Partiamo dal presupposto che non è mai stata una mia prerogativa elencare concretamente la tessitura narrativa di un film. Ciò che più mi preme è infatti dare l’idea, a grandi linee, del contorno che fa di ogni singola pellicola visionata, un insieme di elementi degni di nota.

Questa volta però voglio fare un’eccezione raccontandovi un horror in pieno stile europeo…

Kadaver, diretto dal regista Jarand Herdal e distribuito su Netflix il 23 ottobre 2020 è ambientato in una città distrutta da un’esplosione nucleare.

Le ambizioni dei pochi sopravvissuti vengono spazzate via dalla fame, dall’indigenza e dal freddo, insieme a quel briciolo di empatia che sono stati costretti a mettere da parte per far fronte all’abituale – e direi forzata – convivenza con gente morta.

Leonor (Gitte Witte) e Jacob (Thomas Gullestad) sono i genitori di una bambina di nome Alice (Tuva Olivia Remman) e sperano soltanto di proteggerla il più possibile da quella drammatica situazione cercando soluzioni per nutrirsi, vista la mancanza di risorse.

La madre, prima dell’esplosione, era una famosa attrice di teatro, ma nessun tipo di soddisfazione lavorativa poteva adesso risollevare lo status di quella famiglia come di tutte le altre rimaste in quel luogo.

Le cose sembrano però cambiare il giorno in cui Leonor sente l’annuncio di un uomo ben vestito che declamava l’invito a teatro per uno spettacolo esclusivo in cui sarebbe anche stato offerto gratuitamente del cibo.

Dopo un primo momento di scetticismo, la famiglia decide di recarsi a teatro, certa di poter finalmente mangiare, ma ecco che le sorti dei protagonisti vengono però decretate da una sfarzosa scatola mortale capace di fondere la cruda realtà alla finzione teatrale.

Da una visione rivelatasi immediatamente suggestiva emerge la diffusione brillante di luci ed ombre che prende spunto dallo stile teatrale melodrammatico nella scelta e nell’uso del colore.

La ripresa in punti di vista sovvertiti ma geometricamente perfetti dà infatti soddisfazione alla vista ed eleva la consistenza del soggetto realizzato sospendendo l’attenzione dello spettatore fra la trama e il paesaggio freddo e spettrale entro cui è immersa.

Si nota un’applicazione quasi accademica nelle caratteristiche della ripresa cinematografica utilizzata, nella contaminazione tra lo stile neorealista italiano del dopoguerra, la nouvelle vague e le trasgressioni sul montaggio.

Il tutto è giustificato da un andamento che, nonostante la varietà della struttura filmica, è fedele all’impostazione classica americana.

Una produzione norvegese capace di regalare allo spettatore una grande qualità di girato che si rispecchia nella suggestiva ambientazione e nella costruzione del set così che chi guarda non venga scosso improvvisamente dal colpo di scena ma “accompagnato” nel tempo del film e nella sua rappresentazione.

Desirée Formica