Partiamo dal presupposto che non è mai stata una mia prerogativa elencare concretamente la tessitura narrativa di un film. Ciò che più mi preme è infatti dare l’idea, a grandi linee, del contorno che fa di ogni singola pellicola visionata, un insieme di elementi degni di nota.
Questa volta però voglio fare un’eccezione raccontandovi un horror in pieno stile europeo…
Kadaver, diretto dal regista Jarand Herdal e distribuito su Netflix il 23 ottobre 2020 è ambientato in una città distrutta da un’esplosione nucleare.
Le ambizioni dei pochi sopravvissuti vengono spazzate via dalla fame, dall’indigenza e dal freddo, insieme a quel briciolo di empatia che sono stati costretti a mettere da parte per far fronte all’abituale – e direi forzata – convivenza con gente morta.
Leonor (Gitte Witte) e Jacob (Thomas Gullestad) sono i genitori di una bambina di nome Alice (Tuva Olivia Remman) e sperano soltanto di proteggerla il più possibile da quella drammatica situazione cercando soluzioni per nutrirsi, vista la mancanza di risorse.
La madre, prima dell’esplosione, era una famosa attrice di teatro, ma nessun tipo di soddisfazione lavorativa poteva adesso risollevare lo status di quella famiglia come di tutte le altre rimaste in quel luogo.
Le cose sembrano però cambiare il giorno in cui Leonor sente l’annuncio di un uomo ben vestito che declamava l’invito a teatro per uno spettacolo esclusivo in cui sarebbe anche stato offerto gratuitamente del cibo.
Dopo un primo momento di scetticismo, la famiglia decide di recarsi a teatro, certa di poter finalmente mangiare, ma ecco che le sorti dei protagonisti vengono però decretate da una sfarzosa scatola mortale capace di fondere la cruda realtà alla finzione teatrale.
Da una visione rivelatasi immediatamente suggestiva emerge la diffusione brillante di luci ed ombre che prende spunto dallo stile teatrale melodrammatico nella scelta e nell’uso del colore.
La ripresa in punti di vista sovvertiti ma geometricamente perfetti dà infatti soddisfazione alla vista ed eleva la consistenza del soggetto realizzato sospendendo l’attenzione dello spettatore fra la trama e il paesaggio freddo e spettrale entro cui è immersa.
Si nota un’applicazione quasi accademica nelle caratteristiche della ripresa cinematografica utilizzata, nella contaminazione tra lo stile neorealista italiano del dopoguerra, la nouvelle vague e le trasgressioni sul montaggio.
Il tutto è giustificato da un andamento che, nonostante la varietà della struttura filmica, è fedele all’impostazione classica americana.
Una produzione norvegese capace di regalare allo spettatore una grande qualità di girato che si rispecchia nella suggestiva ambientazione e nella costruzione del set così che chi guarda non venga scosso improvvisamente dal colpo di scena ma “accompagnato” nel tempo del film e nella sua rappresentazione.