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Nandan He, Walking in the Wall, Stop motion animation, Charcoal on Wall, 2019

28 ottobre-14 novembre 2020, MA-EC Gallery In collaborazione con Zing Art Group

Il prossimo 28 ottobre apre alla MA-EC Gallery la mostra Duality. Nothing is as it appears?, esposizione collettiva di artisti internazionali. La mostra si inserisce nel circuito CONTEMPORARY ART MILAN che presenterà periodicamente eventi selezionati di arte contemporanea a Milano.

La mostra sarà visitabile solo su appuntamento, prenotandosi al seguente link www.ma-ec.it.

Mercoledì 28 ottobre dalle 18 alle 20 saranno presenti lo staff ed alcuni artisti della mostra.

In un periodo complesso come quello che stiamo vivendo, dove verità e pseudoverità si sovrappongono, si vuole porre l’attenzione sulla dualità intesa proprio come condizione di compresenza di due principi.

La riflessione nasce dall’idea di non esistenza di assoluto e di unicità ma di gioco dialettico e concettuale in cui tutto sembra avere il suo contrario
e la sua altra parte complementare. Tutto è in costante cambiamento e l’armonia sta nel mantenere in equilibrio la dualità di due elementi opposti, assenze e presenze della nostra perenne trasformazione.

Xiaotong, Silent Dialogue In Front Of The Mirror carving, Drypoint and Chine Colle, 2017

Nelle prestigiose sale di Palazzo Durini, si alternano dipinti, fotografie e installazioni, opere con cui gli artisti offrono una chiave di lettura della dualità, e diverse declinazioni dei temi dell’apparire e dell’eterno paradosso che avvolge l’esistenza.

Tra gli artisti che espongono, meritano attenzione Xiaotong Chen, Nandan He, Jiaoyang Li, Rui Sha.

Jaoyangi, Promise to Enter The Oversized Hat o1, Video Art, 2019

Xiaotong Chen (1996 Pechino, Cina) è una artista di New York che si impegna con vari media d’arte per esplorare la potenza del sé e le espressioni artistiche. È interessata ad esplorare il linguaggio della materialità e dei media. Ibridando la nostalgia per l’estetica orientale con le tecniche artistiche occidentali, il suo lavoro si snoda fluidamente tra arte e artigianato, natura e artefatto, personale e universale. Tra le sue recenti mostre, 2020 Ode to Osedax, LATITUTE Gallery, 174 Roebling St. Brooklyn, New York 11211, We Will Meet Again, New Apostle Gallery, Unity (virtual gallery, CritiART), Art of the Book Pratt Institute Library, Brooklyn, NY 11205.

Jaoyangi, Promise to Enter The Oversized Hat o2, Video Art, 2019

Nandan He (Guangdong, Cina 1991) è una artista multimediale il cui lavoro oscilla principalmente tra scultura interattiva, mix media, video/animazione, installazione.
Le opere di Nandan sono frammenti di un viaggio di recupero verso il suo strano fantasma e la sua nichilista appartenenza. La sua generazione è cresciuta in una percezione tale che la realtà è la cosa più surreale. Quando tutto accelera, fluttua in una struttura sociale emarginata e cerca di capire l’equilibrio tra lei e il mondo.  Crea spazi intimi che esplorano la crudezza di un sé contemporaneo e rivela un ordine irrazionale di un paese delle meraviglie iper normalizzato.

Jaoyang Li è laureata alla Goldsmiths, University of London-BA English Literature and Creative Writing, e poi ha frequentato la New York University MFA Creative Writing-Poetry (2017-2019). Tra le sue mostre e performance, citiamo Video-performance in VR online Installation Selected by Bond International Virtual Live Performance Festival 2020Fish Skin City, mostra alla Greenpoint GalleryThe Young Who disappear into birch, Video-poema del Tenderness Project, finanziato da Ross Gay e Shayla Lawson. Il video “I Promise to Enter The Oversized Hat” è stato girato nell’agosto del 2020, al culmine della pandemia: un amico gay stava per tornare in Cina, e il futuro sospeso era sfocato come il suo genere. In ogni caso, decise di indossare una veste di piuma per l’ultimo ballo a Manhattan.  Nel mondo reale, le persone vivono come fantasmi. Che si tratti del corpo, della memoria, dell’identità politica o del genere, tutto può essere lasciato ovunque.

Rui Sha è una artista interdisciplinare che lavora principalmente nei campi della scultura e dei nuovi media. È cresciuta a Pechino e ha lavorato come designer, poi si è trasferita a Chicago, dove si è laureata presso l’Art Institute di Chicago. Utilizza materiali vari di uso quotidiano che diventano espressione della sua sfera emozionale. Le sue opere sono da guardare, ascoltare, percepire e coinvolgono lo spettatore. Il suo lavoro è stato esposto in luoghi come Roman Susan (Chicago, IL), Krasl Art Center (St. Joseph, MI), CICA Museum (Gimpo, Corea del Sud).

Artisti in mostra:

  • Gui Bin
  • Hai Chen
  • Xiaotong Chen
  • Maria Silvia Da Re
  • Daniela Da Riva
  • Hairuo Ding
  • Nordan He
  • Jiaoyang Li
  • Yan Li
  • Fangsuo Lin
  • Yuxin Liu
  • Oriella Montin
  • Cristina Navarro
  • Wenting Ou
  • Zhiwei Pan
  • Valeria Eva Rossi
  • Rui Sha
  • Zhangliang Shuai
  • Franco Tarantino
  • Tomas
  • Sine Zheng

Coordinate mostra:
Titolo: Duality. Nothing is as it appears?
Sede: MA-EC Gallery Palazzo Durini, Via Santa Maria Valle, 2 Milano 20123

Ingresso solo su prenotazione al seguente link www.ma-ec.it
Date: Dal 28 ottobre al 14 novembre 2020
Info: info.milanart@gmail.com; staff@ma-ec.it

La donna è da sempre un modello raffigurato nell’arte, da quella pittorica a quella scultorea, per arrivare a quella architettonica dimostrando così come la sua fisicità sia stata un motivo di studio artistico e con questo un mezzo per documentare la visione che nella società si aveva della donna.

È interessante notare come documenti artistici di vario genere abbiano contribuito non poco alla spiegazione dei cambiamenti di mode, di modi di pensare e di vedere del mondo fin dalla comparsa dell’uomo.

Partendo dal presupposto fondamentale che la donna sia ben altro che un semplice corpo, ho selezionato alcune opere che consentono di comprendere l’evoluzione (o degenerazione?) del canone fisico femminile nel corso della storia.

La Venere di Laussel appartiene al cosiddetto ciclo di Veneri preistoriche che collochiamo nel Paleolitico superiore. Trovata vicino a diverse rocce incise da soggetti abbinati al concetto di procreazione, la Venere di Laussel, dal nome del luogo di ritrovamento, altro non è che la raffigurazione della fertilità.

Venere di Laussel, 12.000 a.C.

Dal bassorilievo alto circa 43 cm traspare una donna con fianchi adiposi, attributi femminili accentuati e un corno sulla mano destra, simbolo anch’esso di feracità.

Ad emergere è dunque una donna formosa e abbondante, a dimostrazione del fatto che durante l’età primitiva il canone di perfezione femminile era la rotondità.

Uno dei più grandi capolavori esistenti secondo gli storici dell’arte è ovviamente l’Afrodite di Cnidia, opera di Prassitele andata purtroppo perduta, ma di cui rimane una copia romana fedele all’originale.

Chiamata Cnidia dagli abitanti di Cnido (Asia Minore), compratori dell’opera, dei quali si narra siano rimasti talmente abbagliati dalla bellezza e dalla sontuosità dell’opera classica da essersene innamorati, presenta due importanti novità.

Afrodite di Cnidia, Prassitele, 360 a.C.

La prima riguarda la nudità del soggetto femminile, che fino a quel momento era considerato un tabù per i greci, a differenza che per i soggetti maschili il cui corpo idealizzato era degno di essere mostrato.

Una novità ovviamente non da poco quindi e ancor più scandalosa perché non si parlava di una donna qualsiasi, ma di una dea.

La seconda novità riguarda il gesto che una dea non avrebbe mai fatto: asciugarsi con un panno dopo il bagno.

Un atteggiamento quotidiano, tipicamente umano, così com’è la figura in sé dalle cui forme morbide e dolci traspare una seduzione completamente naturale, tenera e lucente.

Prive di forme, caratterizzate da ripetitività e bidimensionalità sono le Vergini della decorazione musiva della Basilica di Saint’Apollinaire Nuovo (Ravenna).

Vergini, Basilica di Saint’Apollinaire Nuovo, 526 d.C.

Sono donne immobili, prive di volume, completamente coperte. Caratteristiche queste tipicamente bizantine, ma allo stesso tempo capaci di comunicare il ruolo secondario della donna, “schiacciata” dall’uomo medioevale. Una donna che non doveva emergere perché questo avrebbe significato indurre l’uomo al peccato.

Uno dei capolavori indiscussi del Rinascimento, La Nascita di Venere di Sandro Botticelli, rappresenta una donna slanciata e aggraziata, la cui nudità non è più sinonimo di fertilità, così come non è più il simbolo del peccato, ma è naturalmente bellezza spirituale.

La Nascita di Venere, Sandro Botticelli, 1485

Lei, Afrodite, i cui tratti del volto sembrerebbero essere quelli della nobile Simonetta Vespucci, nasce portando con sé purezza, semplicità e nobiltà d’animo.

E ancora una volta la bellezza della donna è rappresentata dalla morbidezza delle forme.

Evidente è la fastosità barocca nelle Tre Grazie, opera realizzata dal pittore fiammingo Pieter Paul Rubens, il quale rappresentando la danza delle tre divinità della grazia e della gioia di vivere, ci offre l’immagine della perfezione femminile seicentesca: fianchi e cosce con adiposità e forme morbide.

Tre Grazie, Pieter Paul Rubens, 1638

Nel secondo Ottocento la bellezza femminile non è nuda, ma vestita ed è questo che la mostra in tutta la sua sensualità ed eleganza. A renderne l’idea è la Parigina di Édouard Manet, ritratto dell’attrice francese Ellen André.

Parigina, Édouard Manet, 1881

È una donna moderna, uno status symbol irraggiungibile, la donna che tutte vorrebbero essere, il cui abito diventa il protagonista e l’oggetto della sua voluttuosità.

Seducenti e dall’aspetto classicheggiante sono le donne ritratte dal pittore preraffaellita/neoclassico John William Godward.

Donna con drappo giallo, John William Godward, 1901

Una di queste è la Donna con drappo giallo, la quale comunica nella posa ammaliante, nella vivacità coloristica e nella trasparenza della veste dalla quale si intravedono i seni e le forme femminili una forte componente erotica.

Rappresentazione della cosiddetta femme fatale novecentesca è l’austriaca Adele Bauer ritratta durante il suo periodo d’oro dal pittore Gustav Klimt, meglio conosciuta con il titolo Donna in oro, viste le origini ebraiche della donna e l’occupazione nazista dell’Austria.

Adele Bauer (Donna in oro), Gustav Klimt, 1907

La bocca è rossa, la carnagione è molto chiara, le guance sono rosee e le mani sono intrecciate nervosamente tra loro, caratteristiche queste ultime che richiamano quello che era la donna dell’epoca.

Unici elementi tridimensionali in un dipinto quasi completamente bidimensionale e dal forte richiamo bizantino come si nota dall’oro e dalle forme che richiamano fortemente le tessere musive.

Ed ecco che la formosità e la morbidezza del corpo femminile che ci hanno accompagnato fino a questo momento cominciano a lasciare spazio ad un fisico scheletrico e ad un volto da bambina negli anni Sessanta.

Un periodo nuovo è infatti alle porte, la donna delle nuove generazioni è diversa, o meglio si sente diversa dalle proprie madri. È emancipata, porta la minigonna e vuole emergere.

Twiggy, anni Sessanta

Lo dimostra Twiggy, il “ramoscello” dal quale traspare una magrezza fino a quel momento considerata malata. Un fisico che da lì a poco si sarebbe trasformato nel canone fisico da inseguire perché a dire che doveva essere così ci pensavano le riviste di moda.

Un criterio che ci ha accompagnate in periodi più o meno lunghi, magari intervallati da momenti in cui la forma del corpo femminile “arretrava” un po’ verso la formosità delle origini, ma che bene o male è rimasto ben impresso nella mente di giovani donne che spesso, talmente offuscate da immagini a dir poco pubblicizzate, cadono vittime di malattie alimentari e nell’annullamento della propria individualità.

Maria Pettinato

Con Il colibrì Sandro Veronesi si è aggiudicato quest’anno (meritatamente) il prestigioso Premio Strega, bissando la vittoria già ottenuta nel 2006 con lo struggente Caos calmo.

Protagonista del romanzo è Marco Carrera, il colibrì del titolo, un uomo che da sempre ha impiegato tutte le sue energie per rimanere risolutamente e stoicamente fermo, ancorato a un’immobilità rassicurante mentre il mondo intorno a lui cambiava inesorabilmente, preda di un vortice di dolore e instabilità emotiva.

Eroe della normalità ma anche oggetto di coincidenze fatali apparentemente inspiegabili, Marco si pone al centro di una struttura narrativa caratterizzata da una solida architettura, dalla quale affiorano una serie di personaggi dalla raffinata fisionomia psicologica.

Fondamentale è il complesso rapporto di amore e affezione instaurato con l’universo femminile. Ne sono un esempio la sorella Irene, verso cui prova affetto ma anche una consapevole amarezza per non averla mai conosciuta
veramente, la moglie Marina, amata in un primo momento e poi odiata e Luisa, che incarna l’ideale perfetto, la donna di una vita, con la quale si lega in un rapporto platonico fatto di perpetui allontanamenti e riavvicinamenti.

L’unico amore vero e puro, stabile e perdurante, è quello per la figlia Adele, un legame che persiste e si rafforza negli anni andando ben oltre la dimensione padre-figlia.

Lo stile della narrazione è fluido e scorrevole, copre un arco temporale che va dai primi anni Settanta ad un ipotetico futuro prossimo ed è ravvivato dai continui salti temporali che caratterizzano i capitoli, che si succedono tra le lettere d’amore scambiate con Luisa, gli elenchi degli oggetti della casa genitoriale redatti per il fratello Giacomo, le telefonate scambiate con lo psicanalista della moglie.

Resilienza è il carattere che contraddistingue sopra tutti la vita del dottor Marco Carrera e il suo atteggiamento verso i dolori e le perdite della vita (particolarmente toccante è la descrizione della malattia e dipartita dei genitori, che assiste con la professionalità di un medico quale è e con sincera devozione filiale).

È un uomo che resiste, non si piega alle sventure seminate dal destino lungo il proprio cammino, impegnato nel suo sforzo d’immobilità esattamente come il colibrì.

(…) tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro.

L’unica parte del romanzo che ha suscitato in me qualche perplessità e delusione è l’epilogo, ambientato in un futuro prossimo, dal quale si erge la figura dell’uomo nuovo, incarnata da Miraijin, nipote di Marco e frutto della sua resilienza.

Al di là del valore simbolico di questo finale, (l’autore vuole sottolineare come la vita del protagonista avesse come scopo precipuo allevare questo individuo fuori dal comune), la narrazione qui cede il posto ad un’improvvisa lentezza, dando anche modo di far trovare spazio anche ad una tematica importante come l’eutanasia.

Si tratta di un libro nel suo complesso bello, importante, denso di significato e di vita soprattutto, in grado d’inoltrarci nelle pieghe più nascoste e inavvicinabili di un animo umano, comune ma straordinario proprio per questo.

Francesca Mazzino

MA-EC Gallery è lieta di annunciare la nascita di WEPRESENTART, piattaforma virtuale per la promozione dell’arte. Grazie ad una interfaccia elegante ed intuitiva, la nuova piattaforma si configura come un valido strumento per tutti coloro che operano in campo artistico ed è una ampia finestra sul mondo contemporaneo anche per tutti gli appassionati d’arte, desiderosi di rimanere sempre aggiornati sulle nuove tendenze del mercato.

La pluriennale esperienza della galleria MA-EC – che nei suoi progetti si avvale della consulenza di influenti personalità del mondo dell’arte, della cultura, dell’economia, e della collaborazione con importanti istituzioni pubbliche e private – fa della piattaforma WEPRESENTART un sicuro riferimento per la creazione di sinergie ed opportunità di lavoro a livello internazionale.

Sul sito verranno periodicamente presentate mostre virtuali. Inoltre gli artisti potranno chiedere consulenze anche per la realizzazione di progetti culturali in galleria o in altre sedi pubbliche e private.

WEPRESENTART propone anche servizi fotografici, video, video VR/AR e attività di promozione e ufficio stampa sui canali tradizionali e social. Grazie a strategie mirate e alla collaborazione con professionisti, siamo in grado di definire le migliori linee guida per ciascun progetto e per il raggiungimento dei vostri obiettivi.

WEPRESENTART desidera dare voce ai diversi linguaggi dell’arte e supporto agli operatori del settore, in un’ottica di promozione e valorizzazione.

Il sito www.wepresentart.com è online dal 1 luglio 2020.

Per informazioni staff@wepresentart.com

Chloe di Atom Egoyan è il nome scelto per il remake americano di Nathalie (2009), versione francese del 2003 scritta e diretta da Anne Fontaine.

La ginecologa Catherine Stewart, interpretata da un’eccezionale Julienne Moore, organizza una festa di compleanno a sorpresa per il marito David (Liam Neeson), un professore di musica.

Gli invitati sono arrivati e si attende solo l’arrivo del festeggiato ma la donna riceve una chiamata nella quale lui le comunica di aver perso l’aereo di ritorno.

Il giorno seguente Catherine trova sul cellulare del marito un messaggio inviatogli da una studentessa: “grazie per la bella serata, baci” e in allegato una foto in cui sono insieme in atteggiamenti amicali, cosa che inizia a far sospettare la donna su un presunto tradimento del marito.

Il figlio Michael (Maximillion Drake Thieriot) non fa che peggiorare la situazione: è schivo con la madre, ha un atteggiamento tipicamente adolescenziale, porta la fidanzata a casa di nascosto e infrange le regole di buona convivenza. In un dialogo tra Catherine e un amico si deduce che Michael in passato possa avere avuto qualche leggero problema a livello neurologico.

Una famiglia-modello acclamata e invidiata anche dalla stampa con un positivo equilibrio tra carriera e famiglia in realtà si sta disfacendo dentro quel loft curato davanti agli occhi impotenti della matriarca.

In una cena tra amici Catherine, entrata alla toilette, e sentendo piangere una ragazza le chiede se va tutto bene ed è lì che iniziano a parlare: un’interazione minima che per Chloe (Amanda Seyfried) sembra necessaria.

Finge infatti di aver trovato a terra una spilla per capelli e chiede a Catherine se fosse sua ma lei risponde di no. Allora la ragazza gliela porge regalandogliela ma la donna rifiuta gentilmente e torna dal marito in sala. Questa preziosa spilla sarà il simbolo di un legame tra le due donne che non è destinato a spezzarsi.

Chloe è una ragazzina di facili costumi e Catherine se ne accorge osservandola al tavolo con un uomo che sembra avere più anni di lei. Ha lo sguardo spento seppur gli occhi grandi esprimano un forte bisogno di attenzioni.

La moglie del professore intuisce di poter usare questo legame per scongiurare l’inclinazione al tradimento del marito.

Le due donne si accordano per vedersi e decidere le dinamiche di questa prova di fedeltà ma già al primo incontro tra Chloe e David le notizie non sono tranquillizzanti: la ragazza racconta a Catherine di averci flirtato fino a farlo cadere in tentazione.

Il piano continua così come gli presunti incontri tra i due amanti che vengono narrati minuziosamente alla moglie. Catherine sprofonda nelle sue stesse insicurezze fino al punto di vedere in Chloe un espediente per non rovinare definitivamente il suo matrimonio.

La ragazza dai lunghi capelli biondi diventerà lo specchio di quell’amore intenso che l’ha spinta a sposarsi: un amore carnale che adesso si alimenta attraverso il corpo di una terza persona.

Il filo rosso di questa tela fatta di sensazioni implose è lo sguardo, tutto il non detto è espresso magnificamente dalla capacità interpretativa degli attori. La conoscenza tra Cloe e Catherine inizia in un ristorante e finisce (almeno per quest’ultima) in un caffè.

I coniugi sono seduti a un tavolo e Catherine aspetta che arrivi Chloe che scappa fuori, David chiede a Catherine chi fosse quella ragazza ed è in questo momento che viene svelata la grande menzogna: Chloe non aveva mai incontrato né visto quell’uomo, quelle storie sui loro incontri erano false e servivano a Chloe affinché Catherine non sparisse dalla sua vita.

La ragazza sembra essersi legata così tanto alla ginecologa da sviluppare una sorta di dipendenza affettiva generatrice di vendetta. Approfitterà infatti del ritardo di Michael per creare un flirt e ledere così l’equilibrio della famiglia che la coppia di sposi aveva da poco ritrovato.

Desirée Formica

Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960, in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan”

da Middlesex di Jeffrey Eugenides

Questo è l’incipit di Middlesex, romanzo dello scrittore statunitense Jeffrey Eugenides, pubblicato nel 2002 e vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 2003.

Protagonista (nonché voce narrante) è Calliope Stephanides, un raro caso di ermafrodito che nasce e vive come ragazza e soltanto dopo un lungo e travagliato percorso interiore rinasce ad una nuova vita come Cal.

Dalla lettura emergono sempre più nitidi i turbamenti e le frustrazioni di Callie, consapevole fin da piccola di essere unica, diversa dalle proprie coetanee e per questo relegata ad una condizione di solitudine e marginalità.

L’interiorità della ragazza è indagata con acume e finezza psicologica; dettagliata è la descrizione della sua iniziazione sessuale a quattordici anni con una coetanea e quella del suo corpo che non si decide a farla sbocciare come donna, ma assume sembianze gradualmente sempre più mascoline.

Il gene impazzito nel suo DNA, responsabile di questa singolare condizione, viene interpretato come espiazione di una colpa primordiale che pende sulla sua famiglia, della quale è lei stessa a raccontarci la storia.

È così che l’autore riesce abilmente a coniugare il romanzo di formazione alla saga familiare: attraverso Calliope veniamo a conoscenza della storia degli Stephanides, il cui nucleo originario ritroviamo ad inizio ‘900 a Bitinio, un villaggio greco della Turchia.

Qui i fratelli Eleutherios (Lefty) e Desdemona, dopo un devastante incendio, decidono di migrare alla volta di più fortunati lidi.

Innamorati l’uno dell’altra, si sposano sulla nave che li conduce negli Stati Uniti, convinti di poter seppellire tra le onde del mare il segreto che li unisce e di poter vivere senza problemi nel nuovo continente la loro singolare condizione di sposi-fratelli.

Da questa unione incestuosa nascono due figli, Milton (padre di Callie) e Zoe. Ma la maternità è vissuta da Desdemona come una condizione di cui vergognarsi, un’onta terribile, esattamente come il sesso condiviso con il fratello-marito.

Teme che la punizione per questa unione “sbagliata” investirà le generazioni future, esattamente come lo schema di una tragedia greca. La donna emerge sicuramente in quanto uno dei personaggi più riusciti dell’opera, drammatica ma con tratti ironici e di comicità straordinari, come quando suole appoggiare un cucchiaio sulle pance delle donne in attesa per predire il sesso dei nascituri.

Ironia e drammaticità si ritrovano diligentemente coniugate dallo scrittore nell’intero universo dei personaggi, a tratti pittoreschi, che come un mosaico popolano le pagine del romanzo.

Tutti contribuiscono a restituire un’umanità eterogenea, il cui comune denominatore è la ricerca di una condizione di felicità e benessere individuale da vivere su questa Terra, ora e subito, a qualunque costo e al di là di qualunque barriera reale e mentale.

La rottura e lo scardinamento di ogni convenzione sociale e morale hanno la propria esemplificazione massima in Calliope: incapace di sottostare alla Medicina (che ne vorrebbe fare una cavia per studiarla) e ai genitori (che la vorrebbero ragazza per sempre, cancellando la parte maschile che coabita in lei), scappa da tutti e facendo l’autostop attraversa il suo Paese fino ad approdare in California.

L’esperienza variegata del viaggio la costringe a guardarsi dentro, ad ascoltare se stessa, inducendola, anche dopo la riconciliazione con i genitori ed il ritorno a casa, a diventare per sempre Cal.

Con questo (riuscitissimo) romanzo Jeffrey Eugenides affronta, attraverso la parabola di Callie/Cal, un tema attuale ed importante come la disforia di genere, trattandolo con una sensibilità estranea al pregiudizio ed evidenziando allo stesso tempo la volontà di essere artefici di se stessi, del proprio destino e del proprio corpo, in una società che ci relega sempre più in ruoli e categorie prestabilite.

Francesca Mazzino

“L’arte degli affari sta

un gradino al di sopra dell’Arte”

Da A a B e ritorno. La filosofia di Andy Warhol
(1975, Andy Warhol)

Questa affermazione sintetizza coerentemente un capovolgimento nell’assunzione di valori, in atto semi-consapevolmente all’interno della società americana di quegli anni.

Presupponendo che la capacità di organizzare un rapporto di forze finanziariamente favorevole rispetto all’orientamento presente nella società in quel momento, costituisca una raffinatezza di grado superiore al valore reale del proprio contributo all’evolversi della società stessa.

Parafrasando ed estremizzando è come dire che l’arte di guadagnare con la guerra è un gradino più in alto della guerra.

Tutta la gamma possibile a cui adeguare questo rapporto di valenze tra opportunismo e abilità ha purtroppo, dal punto di vista pratico, innumerevoli esempi a suo favore, riscontrabili nella diffusa convinzione che l’idealismo non paghi, che sia il risultato economico il valore più alto a cui aspirare.

L’affermazione warholiana è un sintomo della tendenza alla corsa ad arrivare, avvertita in maniera crescente nel mondo dell’arte, che pretende naturalmente sconti molto alti tra cui la non partecipazione emotiva, una valutazione delle idee finalizzata al guadagno, un lasciarsi trascinare consensualmente o apaticamente dalla eco del “più forte” per poter cogliere i consistenti frutti promessi anche se molte volte marginali, dati, elargiti come premio alla propria accondiscendenza ideologica o alla propria sudditanza creativa.

Del resto molta parte della società americana degli anni 60/70 anestetizza l’angosciante dasein, “l’esserci” tedesco, il vivere qui e ora un presente incerto e oscuro, con l’accettazione conformistica e festosa delle regole vincenti produzione/consumo che in qualche modo sanciscono una superiorità se non altro economica del modello americano rispetto al vecchio modello europeo o al contrapposto modello socialista.

Il consumismo diventa emblema di uno stile di vita di successo finalmente tutto americano e quindi simbolo di un riscatto psicologico dal sentimento di inferiorità culturale vissuto nei confronti dell’Europa.

La Pop Art è Populary Art (Arte Popolare). Si esclude o autoesclude dal “colto” di stampo storico europeo, lo contesta da una posizione di inferiorità e diversità psicologica ma lo surclassa agilmente alimentata dal positivo riconoscere la supremazia, soprattutto dal punto di vista economico e comunicativo, dello stile di vita americano.

Il riscatto culturale della giovane, divoratrice America forgia i propri nuovi parametri espressivi con i mezzi che ha a disposizione: esaltando, ingrandendo, colorando le immagini degli stereotipi dei messaggi mediali dei simboli del consumo di massa, delle codificazioni, persino delle proprie paure e frustrazioni.

Contribuisce al tentativo di formare uno spirito coesivo in una società multirazziale espressa dall’aggregazione degli strati più poveri e marginali degli altri continenti, rendendola complice e partecipe della creazione dei propri miti culturali, della scoperta “dell’uguaglianza nel consumo”.

Elaborando una “Estetica della Banalità” facilmente recepita da tutti proprio perché prossima e cogente con i mezzi e le immagini delle sollecitazioni al desiderio insite nella comunicazione consumistica.

Il fattore commerciale trova in Andy Warhol la sottolineatura più eclatante. La sua Factory della 47° Rue Est nasce producendo idee e immagini pubblicitarie, utilizzate per vendere. E a sua volta si pone sul mercato vendendo idee e immagini da inserire nel circuito strettamente commerciale.

Immagini non considerate quindi per il loro valore in quanto spontanee risoluzioni di un pensiero artistico, ma quali mediatori grafici, di immediata assimilazione, di messaggi costruiti per incrementare l’induzione al consumo. Immagini studiate per “calzare” i modelli dello status, delle convenzioni mercantili e renderli desiderabili, persuasivi, confortanti.

Immagini non considerate quindi per il loro valore in quanto spontanee risoluzioni di un pensiero artistico, ma quali mediatori grafici, di immediata assimilazione, di messaggi costruiti per incrementare l’induzione al consumo.

Immagini studiate per “calzare” i modelli dello status, delle convenzioni mercantili e renderli desiderabili, persuasivi, confortanti.

Ma se un lavoro creativo finalizzato all’industria di per sé non può bastare a giustificare la mitizzazione di cui è stato oggetto, il vero successo della Factory e del suo Vate va ricercato nella promiscuità ideologica, nella mescolanza e cooperazione con tutte le correnti di pensiero presenti a New York in quel momento, che ne fa una sorta di sintesi esistenziale frequentata e proficua, della creatività metropolitana dell’epoca.

La Factory, l’officina, la fabbrica prima maniera è un luogo aperto, ricettivo sgangherato, un po’ kitch; pronto ad assimilare senza filtri di nessun genere, qualsiasi impulso creativo che provenga dall’esterno e possa essere alimentato per la stessa esistenza della variegata fauna umana che anima il posto.

All’interno di esso circolano personaggi di ogni estrazione sociale, stravaganti figure dandy e prostitute dei due sessi, insieme agli esponenti del glamour internazionale e ad artisti affermati nei diversi campi dell’espressione: dalla musica alla fotografia, alla pittura.

Luogo di perdizione per eccellenza nell’immaginario newyorkese, era un esempio di quanto il denaro e la fama (ma non solo) potessero essere elementi di aggregazione tra “parassiti della peggior specie” e l’elite del bel mondo americano, tra culture sotterranee dell’arte, del sesso, della droga, delle perversioni e la ricca borghesia, i grandi mercanti d’arte, l’opulenza fastosa dei nuovi ricchi.

Un esempio insomma, di quella apparente democraticizzazione e uguaglianza auspicata per il nuovo pensiero americano. Tra le pareti rivestite di luccicante carta stagnola, nella vecchia officina riadattata a tempio-custode dello “spirito del tempo” si incontravano e intersecavano espressioni di ogni genere, attorno ad un abulico, apatico dio dal viso infantile e pallido dal quale si aspettava anche solo un cenno di approvazione.

La forza di Andy Warhol sta proprio nel suo lasciarsi trascinare quasi con indifferenza nei meandri profondi delle marginalità, evitando accuratamente il gorgo incandescente delle passioni umane.

L’alone di innocente, spaurito bambino terribile che si nutre di sequenze televisive e di Campbell’s Soup come ogni buon americano, invece che di reali sensazioni, riuscendo comunque a ricavarne fama e onori, legittima culturalmente il desiderio di successo del self-made-man e lo equipara ad ogni altro nobile sentimento umano.

L’arte degli affari si insinua al di sopra dell’Arte in una sorta di riscatto storico/mitico consacrato dalla diversa Estetica sua propria, da parte di quella disperata massa urbana e suburbana dell’ovvio, del banale, del convenzionale; ma anche dell’indigenza, della devianza, del vizio, della corruzione che scopre nella superficialità la chiave per catartizzare lo stato di macerazione e abbandono nelle proprie miserie ed anche una conquistata, o subita, soluzione di continuità culturale.

Si afferma un nuovo punto, apparentemente rassicurante, semplice e indolore, da cui costruire collettivamente altre “mappe” percettive con le quali esplorare i territori reali a cui si riferiscono, così vasti e terrificanti: la superficialità delle cose.

Il loro momento evanescente, frivolo, vacuo. La zona di confine esterna ed estrema; la microcellula temporale sfuggente e minimale, perennemente in bilico tra il profondo ed il nulla: che contiene in sé tutte le casuali macroscopiche da cui è stata generata.

Nello specchio variopinto e riflettente, sufficientemente estraneo e neutro al suo creatore -tanto da potersi caricare dell’emotività del fruitore- delle serigrafie, dei film, delle immagini di Andy Warhol, nella meccanica serialità delle ripetizioni ossessive, estremizzate, decorative, inespressive, nella superficialità fin troppo ostentata, ermetica nella sua banalità, sono incluse poesia della morte, allegria e angoscia, in una miscellanea ambigua, sottile, terribile.

Punto estremo dell’assunto duchampiano, sintomo di un disagio profondo di non facile soluzione, e segnale di un’inversione di tendenza nella ricerca artistica che andrà sempre più volgendo verso la rappresentazione didascalica e verso la costruzione di personaggi e miti mercenari anziché di vere sollecitazioni.

Cristina M. D. Belloni

Accadde una notte, traduzione dal titolo americano It happened one night è un film in bianco e nero del regista Frank Capra uscito nelle sale cinematografiche nel 1934 da inserire nel quadro epocale entro cui si muove il cinema americano di quegli anni.

Tra il 1927 e il 1933 il cinema stava maturando la sua evoluzione dal muto al sonoro, era cioè nella fase di transizione in cui veniva vagliato ogni pro e contro di questa nuova tecnologia che al contempo aveva generato una crisi quasi spirituale per gli addetti ai lavori.

L’opera di Capra sancisce definitivamente non solo l’avvento del sonoro al cinema ma avvia la teorizzazione sulla nascita dei generi, quelle categorie che per stile, per scelta del profilmico, per la narratività del racconto corrispondono a una precisa collocazione.

In questo caso si può parlare di screwball comedy, la commedia bizzarra oltreoceanica che vede come protagoniste coppiette litigiose da dove fa capolino quasi sempre la figura dell’ereditiera bisbetica.

Lo stile americano classico predilige il cosiddetto montaggio continuo orientato al racconto in una composizione leggibile ove il “problema” passa dal “conflitto” alla “risoluzione” che sfocia irrimediabilmente in un lieto fine.

Tale tecnica esalta lo sguardo dei personaggi come si riscontra appunto in Accadde una notte in cui i due protagonisti si guardano raramente negli occhi come a voler rafforzare l’idea di un distacco e una diversità non solo a livello di ceto sociale ma anche umano e valoriale.

Caratteristica che spiega perché lo spettatore viene solo di rado coinvolto emotivamente nei pensieri intimi che si alternano nelle menti dei protagonisti.

Nasce inoltre in questo periodo ciò che comunemente viene chiamato Star System, lo “sfruttamento commerciale” dei divi hollywoodiani.

Se un attore piaceva ed era richiesto dal pubblico veniva ingaggiato per lavorare in un determinato film e lo spettatore “affezionato” sarebbe andato a vederlo non tanto per la storia ma per rivedere l’attore amato sul grande schermo.

Perciò si ha la sensazione di non essere coinvolti dalla sceneggiatura del film, la quale passa in secondo piano rispetto alla comparsa dell’icona cinematografica.

Il divo qui in oggetto è Clark Gable nel ruolo di Peter, giornalista dalla facciata dura e cinica che non vedremo nelle prime inquadrature della pellicola, secondo il classico trucco adottato per far crescere l’attesa nello spettatore: posticipare la sua entrata nel racconto filmico.

Conosciamo però già dalle prime sequenze l’attrice Claudette Colbert nel ruolo della giovane ereditiera Ellie intenta a discutere con il padre – ricco banchiere incapace di imporsi ai capricci della ragazza – a bordo di una nave.

Il clima è particolarmente confuso: Ellie vuole sposare l’aviatore King, decisione alla quale il padre si contrappone, ma al culmine di quella che apparentemente sembrerebbe la solita lite familiare, la giovane scappa gettandosi in mare.

Raggiunta la riva trova la stazione più vicina facendo attenzione a non lasciare tracce con l’intento di arrivare a New York e sposare l’amato, non sapendo che nel frattempo il padre ha allertato le forze dell’ordine e la stampa giornalistica fissando una ricompensa per chi fosse riuscito a portare indietro sua figlia.

Ed ecco che entra in scena l’insensibile giornalista Peter che Ellie incontra nel tragitto per New York e che sin da subito progetterà un piano per firmare l’articolo di un ghiottissimo scoop relativo al ritrovamento della ragazza.

La viziata ereditiera, inizialmente indisponente verso chiunque osi rivolgerle la parola, sarà costretta, visto il mondo poco magnanimo che le si pone davanti, a fidarsi di Peter, l’unico sembrerebbe in grado di tenerle testa.

Interessante è l’evoluzione psicologica di due personaggi apparentemente superficiali.

Peter, che incarna la figura del tuttologo, del sapiente conoscitore di ogni qualsivoglia materia di discussione agli occhi di Ellie, in realtà manifesta infatti nel corso della commedia di Capra una sorta di trasformazione morale, presentandosi sotto una veste diversa, quella dell’uomo gentile e di qualità.

Un cambiamento che riscontriamo ancor di più nel personaggio femminile, che da ricca ereditiera, bambina viziata si direbbe, evolve diventando una semplice donna in una America straziata dalla Grande Depressione che l’ha colpita.

Evoluzioni non da poco se si tiene conto del mutamento che trasmettono gli stessi dialoghi tra i due: dai botta e risposta pungenti e senza esclusione di colpi nella stanza di un hotel della grande mela, in cui una tovaglia da tavola fa da divisorio tra i due (le mura di Gerico), si giunge a congetture sentimentali e al raggiungimento di un amore bello perché semplice.

Semplice come la sceneggiatura di una commedia romantica, leggera, ma per questo non banale e mai debordante in tratti volgari e nel facile sentimentalismo nei quali spesso si può inciampare.

Una pellicola capace di far sognare lo spettatore, intrisa di genuinità e di valori, in cui il messaggio predominante è che la felicità non è così difficile da conquistare se si è dotati di onestà e principi positivi.

Qualità non da poco attestate dal grande successo di pubblico riscosso, così come dagli Oscar ricevuti facendo di Accadde una notte il primo film nella storia ad aver vinto le cinque migliori statuette ambite (miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior regia, miglior attore e attrice protagonista).

Desirée Formica

Lo scorso 29 aprile l’insidiosa pandemia di Covid 19 ha stroncato la vita di uno dei protagonisti più attivi e discussi del mondo dell’Arte.

Germano Celant, critico, teorico, spirito libero e divulgatore attento della produzione artistica soprattutto italiana nel contesto mondiale, ci ha lasciati all’età di ottant’anni.

Nato a Genova, dove ha saputo negli ultimi decenni del ventesimo secolo proporre mostre ed eventi culturali “spiazzanti”, fuori dal comune sentire e dagli schemi ristretti della provincia, ha ottenuto nel corso del tempo i dovuti riconoscimenti per il suo instancabile lavoro di curatore e talent scout, in molti contesti internazionali.

Un “pensiero laterale” che gli permette di ricercare quei linguaggi artistici che siano all’avanguardia rispetto alla riduzione dell’opera d’arte a “mercificazione di lusso” per alimentare il mercato del collezionismo. Riuscendo eppure, paradossalmente, a influenzare autorevolmente quello stesso mercato.

Nel 1997 viene chiamato a dirigere la 47ª Biennale d’Arte di Venezia; dal 1995 è il curatore della Fondazione Prada nelle sedi sia veneziane che milanesi.

Sarà curatore senior del Guggenheim Museum di New York dal 1988 al 2008, dove peraltro contribuirà alla divulgazione dell’arte italiana. In particolare con la grande esposizione Italian Metamorphosis del 1994 , nella quale presenterà opere dell’ingegno italiano dal 1943 al 1968.

Arte, design, architettura, cinema, moda, fotografia, per un totale di 850 lavori che hanno testimoniato il grande cambiamento italiano dallo sbarco americano dell’ultima guerra sino alla allora contemporaneità. «Un’invasione al contrario» come l’ha definita lo stesso Germano Celant.

Vorrei qui fare un omaggio alla sua attività ricordando una delle più belle ed esaustive esposizioni che ha organizzato proprio a Genova nel 1981 sull’Inespressionismo Americano.

Il gergo inquieto – Inespressionismo Americano

Parlare dell’Impressionismo americano significa addentrarsi in quanto di più ostico ci sia per la mentalità ancora per molti versi tardo-romantica europea e italiana in particolare.

Eppure alcune delle basi filosofiche sono state pensate ed enunciate proprio qui, in Europa, e anche lo spiazzamento psicologico che costituisce il substrato fertile e principale del filone inespressionista, sviluppatosi nell’America post-industriale degli anni Settanta e Ottanta, ha molto a che vedere con il rapporto tra modi di vedere differenti come quello americano e quello europeo.

Ma anche con la rottura di continuità culturale venutasi a creare all’interno della promiscuità etnologica del “mondo nuovo” nelle generazioni successive alla grande ondata di immigrazioni della prima metà del secolo.

È il “Dasein”, “l’esserci heideggeriano” che nella pronuncia tedesca assume foneticamente tutta la profondità che vuole esprimere: l’inquietudine esistenziale espressione di un nuovo vuoto di certezze aprioristiche nel rapporto tra l’uomo e la sua esistenza come “immediatezza non oggettivabile”.

All’interno del coinvolgimento nel quale lo scorrere del tempo e gli eventi avviluppano materialmente e senza possibilità di trascendenza l’osservatore che rimane “dentro” agli eventi stessi e ineluttabilmente li subisce ma anche modifica con la sua presenza.

Ciò ben si attaglia alla situazione di crisi e di messa in discussione della produzione artistica in relazione con il sociale e con il significato stesso del fare arte che in America e a New York in particolare sviluppa un linguaggio estremizzante volto verso un’apparente superficialità, assenza intellettuale, non-espressione e non-definizione, e un certo tipo di “conformismo contenutistico”.

Infatti i cosiddetti movimenti di avanguardia che vanno dell’Espressionismo Astratto degli anni Cinquanta, alle fluidità di Fluxus, alla Pop Art, alla Body Art e così via, oltre ad avere notevolmente ampliato la gamma dei comportamenti concernenti l’attività del fare arte, aprendo un varco verso la totalità comprensiva delle situazioni che determinano nell’essere Uomo un rapporto con il proprio Sé analogico, hanno anche aperto il vaso di Pandora della questione di dove in definitiva siano i limiti di questa libertà espressiva e quanto il fattore etico abbia a che fare con questi limiti o meno.

D’altro canto il venirsi a creare all’interno del mercato dell’arte, di una penuria di oggettivazioni artistiche, dei prodotti commerciabili, peculiari dell’arte stessa, dovuta alla concettualizzazione, alla progressiva e sempre più radicale astrazione fattiva da parte delle ricerche condotte nel campo, ha prodotto un “correre ai ripari” degli operatori interessati: galleristi, critici d’arte, e mercanti.

E a un prendere piede ai fini “mercantili”, ma non solo, della teoria di una possibile “democratizzazione dell’arte”, di un’arte cioè che servendosi di tutti i mezzi tecnologici che la comunicazione di massa e le moderne tecniche di conquista del mercato mettevano a disposizione.

Un arte che riuscisse a coinvolgere un pubblico più vasto e meno elitario, a divenire serigrafia, a produrre non ideologie ma di nuovo immagini che fossero più vicine al gusto delle grandi masse a cui dovevano essere dirette.

Le due grosse questioni enunciate hanno avuto un peso molto rilevante nel determinarsi della inevitabile crisi venutasi a creare.

Questa è una crisi ideologica generalizzata a tutto il tessuto culturale e a tutt’oggi presente e viva nel contesto; la causa della quale va ricercata paradossalmente proprio nell’avvenuta liberazione dell’esperienza artistica da schemi e metodologie specifiche, perché si muovesse verso quella comunicazione a-tutto-tondo sovrastante l’arte stessa.

Liberazione e comunicazione dunque, ispirate a una crescita evolutiva e sociale potenzialmente dilagante, a una analisi sempre più capillare delle possibilità della percezione umana di affinarsi, caratterizzanti il ventennio precedente, che sul finire degli anni Settanta vengono a scontrarsi con la messa in discussione delle loro stesse prerogative di avanguardia, nelle aspirazioni giudicate “puriste e moralistiche” e come tali ulteriori “prigioni linguistiche e processuali”.

Lo spiazzamento che ne deriva è enorme, epocale: per la prima volta a essere messa in discussione è la spinta trascendente dell’arte, è il legame tra Etica ed Estetica rimasto inviolato dall’Antica Grecia sino alle espressioni più dissacranti della cosiddetta Avanguardia.

E del resto, come abbiamo già detto, un piazzamento di ordine esistenziale che coinvolge l’intera società, specialmente quella americana così svincolata da legami storici a cui riferirsi e letteralmente bombardata da notizie e immagini dell’era della comunicazione.

Quell’esserci, essere in questo mondo non per scelta, dal quale però non si può prescindere, che accomuna nelle stesse, sottilmente avvertite, inconsapevolezza e impotenza, milioni di persone.

“L’essere in”, in cui l’orientamento artistico non è che lo specchio ancora una volta opaco e incerto ma a cui si chiedono autorevoli conferme culturali: si chiede di essere l’esteriorizzazione estetica di una superficiale estraneità che funge da scudo, tentativo di trasformazione poetica di una “stranianza” che vuol ridurre l’imput della carica emotiva dell’evento vissuto a scena televisiva.

Un volersi a tutti i costi difendere dall’aggressione della vita riportando scene minimali o filtrate oltremodo.

«La vocazione a mettere in discussione i processi quando la procedura del fare arte si spegne e il ritratto della cultura mostra l’espressione terrorizzata di chi attende dietro il bancone la richiesta, un vero e proprio comando, di cosa servire […]», così descrive la situazione Celant nel suo saggio sull’Inespressionismo Americano pubblicato a Genova nel 1981 in occasione della grande rassegna dedicata a questo tema.

Il superamento dell’idea di “capolavoro” come unità linguistica, punta estrema nell’ordine di merito del contesto artistico, la scoperta gioiosa di un modo molto più semplice di concepire la funzione dell’arte nella crescita umana, innesca meccanismi liberatori che però, oltrepassando i limiti consacrati della “grandezza” dell’arte stessa, aprono baratri di incertezze ancora maggiori.

L’immagine seriale, quella televisiva o filmica, soggetta a iterate ripetizioni nell’ingranaggio pubblicitario, a remake di episodi noti.

Sicure reinvenzioni di altre immagini appartenenti al passato, al già visto o al lontanissimo nel tempo e nello spazio quindi già interpretate e assimilate, rassicurano sia l’autore che il fruitore di quelle incertezze incombenti.

La non-espressione dunque, il ritratto riflesso dello stereotipo, del banale, del kitch acquista valore simbolico di per se stesso, ma al tempo stesso intrappola una nuova analisi dell’immagine: un isolamento dal contesto storicistico e continuativo, una sorta di archetipo interposto tra l’azione già avvenuta e l’interpretazione emotiva.

Così nei lavori di Robert Longo, siano essi disegni, rilievi, sculture o performances, l’aspetto scenico preponderante è fissato nel singolo movimento fermato in un qualsiasi istante.

Un istante non importante che mantiene tuttavia la tensione dell’ipotetico racconto-evento da cui sembra essere tratto.

Anche nelle fotografie di Cindy Sherman le donne ritratte sembrano uscire da azioni più articolate. Volutamente costruisce le immagini, le ambientazioni e le pose perché appaiano come facenti parte di episodi più vasti, mentre in realtà sono fatti a sé stanti, finalizzati alla sola realizzazione di singole fotografie.

La “non-significanza”, questa sorta di copiatura di gesti e pose della finzione cinematografica e televisiva, o addirittura la riproduzione stessa di scene o fotografie di altri, come avviene per Richard Prince e Sherrie Levine, interpretano un volontario allontanamento da una realtà enigmatica e “crudele” di cui si accettano solo responsabilità edulcorate da un mezzo contrapposto e pietosamente distaccante.

Corrispondono però anche una presa d’atto di malesseri interiori profondamente sconosciuti o del tutto nuovi, interagenti fattivamente nella formazione dell’intera società della comunicazione ad essa relativa.

A tal proposito Andy Warhol intende la ripetibilità dell’opera, il suo inserimento nel sistema mercantile come un’ulteriore demistificazione e non-partecipazione.

Ciò che è importante è la sufficiente superficialità e vendibilità del prodotto, ripetuto e ripetuto per svuotarlo di ogni originario significato, per ribadire l’assoluta assenza di diversità emotiva tra un’immagine e un’altra: tra la scena di lamiere contorte di un incidente mortale, il dolore di Jackie e la Campbell’s Soup.

Nell’intento di neutralizzare i sentimenti, di appiattirli abbastanza da essere contenuti in un’immagine moltiplicata all’infinito. Così facendo Warhol crea di fatto nuovi miti, nuove valenze simboliche precritiche, nuovi esorcismi per una società spiazzata e confusa.

Cristina M.D. Belloni

7 ore per farti innamorare, commedia romantica del neo regista Giampaolo Morelli, si è garantita un ottimo successo di pubblico come si può constatare dal numero di ascolti che la pellicola ha riscosso nonostante il film, anziché essere trasmesso sul grande schermo, ce lo siamo visti comodamente seduti sul nostro divano in visione On demand.

Un esperimento rischioso, ma necessario per salvare il cinema e l’intrattenimento che mai come oggi non possono fermarsi!

E direi riuscitissimo e trionfante, non solo perché ci consente di non perdere le ultime uscite cinematografiche, ma anche perché al costo di circa e soli direi 8 euro possiamo gustarci un film in compagnia direttamente a casa propria.

Una commedia leggera, divertente quella di Morelli che, accanto a Serena Rossi, ne è anche il protagonista maschile interpretando, nella bellissima e scenografica Napoli, Giulio Manfredi, giornalista di economica fidanzato con Giorgia (Diana del Bufalo) la quale, in prossimità delle nozze, lo lascia per il vicedirettore del giornale per cui il fidanzato lavora e con cui ha una storia da tempo.

Due dettagli non da poco, in quanto Giulio perde in un solo colpo il lavoro, la fidanzata, ma anche le proprie convinzioni sul mondo giornalistico, in quanto, essendo troppo qualificato, viene “scartato” da qualsiasi testata alla quale invia il proprio curriculum, fino a che non si ritrova a essere assunto dalla “banale” Machoman, rivista maschile online, specializzata in chirurgia estetica, moda e gossip di vario genere.

Ma che nonostante ciò si presenta come un’occasione importante per un uomo come Giulio, mediocre, monotono si direbbe, privo di progetti personali, nonostante le grandi abilità in campo lavorativo.

Gli consente infatti di conoscere Valeria (Serena Rossi), “esperta del rimorchio”, convinta che l’attrazione fisica altro non sia che questione di chimica e che può scaturire solo rispettando determinate regole consentendo così a qualsiasi uomo di conquistare qualsiasi donna abbia di fronte, anche uno come Giulio che decide di seguire, assieme a un gruppo di uomini insicuri come lui, le lezioni dell’esperta per riconquistare Giorgia.

Ma è realmente così? Una donna può essere davvero conquistata attraverso delle regole? Con una determinata frase, uno sguardo, l’abito giusto?

Chissà… la commedia romantica di Morelli poco garantisce a riguardo perché è in realtà l’unicità di ognuno di noi ad attrarre e a farsi attrarre, caratteristica fondamentale capace di rendere leggero e divertente anche l’omonimo romanzo dal quale essa è tratta (7 ore per farti innamorare, Giampaolo Morelli, Ed.Piemme, 2019).

Regole ferree, rigide, alle quali poco ci crede chi le consiglia sono difatti le protagoniste di un film che pone al centro i sentimenti e le emozioni.

Una commedia che offre la descrizione di un sistema come il nostro, in cui si ha paura di lasciarsi andare, di essere se stessi per non soffrire e che ci impone, per nostra stessa convinzione, di essere qualcun altro.

Se pur manifestando inizialmente un po’ di lentezza e poco spirito innovativo, degna di nota è la capacità di Morelli di trasformare la trama in qualcosa di diverso da quelle americane, alle quali spesso il film è associato.

L’originalità sta infatti non solo nella naturale comicità tipicamente napoletana, ma anche nella qualità attoriale di Serena Rossi e dello stesso Giampaolo, coppia che ha manifestato caratteri spontanei e partenopei nel modo di recitare, un feeling non spesso facile da riscontrare.

Maria Pettinato