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Ho provato a guardarmi indietro

A esaltare il mio collo eretto,

le spalle da me stessa protette,

ho lodato l’oro dei miei pensieri

ma ho finito per fonderlo

con una orgiastica melodia […]

da Tutti maledetti
(Il tormento dei sibili)

Il tormento dei sibili (ebook, dicembre 2019) è una raccolta di trentacinque poesie scritte da Desirée Formica, giovane attrice e scrittrice siciliana, nonché collaboratrice de L’Artefatto.

Un titolo forte e affascinante che richiama alla mente qualcosa di incessantemente e prepotentemente presente nell’anima di tutti noi, il tormento, capace di distorcerci dalla serenità e da un apparente stato di calma interiore.

Una donna angosciata, trascinata da emozioni contrastanti che non fanno altro che manifestarsi nella richiesta d’aiuto aggrappandosi a ciò che la Formica definisce la “coperta divina”, è la protagonista del testo.

Tanto che, e non a caso, il tormento dei sibili era un metodo di tortura adottato tra il XV e il XVIII secolo che consisteva nel tenere delle cannucce tra le mani giunte in segno di preghiera.

Analogie non da poco che rimandano all’atto della preghiera, alla fede, all’uomo che spesso dimentica la propria appartenenza, le proprie origini, tranne che nel momento della disperazione, o semplicemente del bisogno.

Ma l’uomo è realmente un essere perfetto? Può definirsi davvero una creazione divina eccezionale? E se così fosse perché, da essere amorevole e speciale per natura, si trasforma in una figura a dir poco oppressa?

Ed ecco che entrano in scena, anche se tra le righe, teorie antiche, mitologiche direi, in cui gli dèi si facevano beffa degli uomini, creando per loro un destino movimentato, disperato, fatto appunto di tormento e di angoscia, divertendosi alle sue spalle.

E quando questo accadeva, ecco che l’uomo, che da creazione dipendeva dall’alto, si trasformava in devoto e passivamente servo del gioco degli dèi i quali, una volta stanchi, fornivano la “coperta divina” al proprio figlio.

Sentimenti perciò privi di intelletto poiché appartenenti a due facce della stessa medaglia, ma anche dotati di vitalità sono ciò che rendono vivo l’uomo, il suo status, ed è quando queste emozioni cessano di esistere che la vita diventa piatta e monotona.

Semplicemente vuota, bianca come un foglio che vuole essere riempito di inchiostro, così vacante da essere infernale, e così voglioso di raggiungere il paradiso che si sta lì ad attenderlo inermi.

Ed è subito tormento, ed è subito lotta interiore tra istinto e ragione, tra passione e pensiero. Una battaglia che unisce tutti noi, ma che ci separa dentro, spesso di notte, quando il buio riecheggia i ricordi, i momenti trascorsi, un passato che mai potrà tornare, ma che fa parte di noi.

La notte, che cancella il trucco, la maschera giornaliera e lucente, per riportare alla mente ciò che non esiste in realtà perché è l’altro che lo vuole, e che proprio per questo ti fa sentire in difetto, diverso, e perciò angoscioso e paranoico.

Attraverso una raccolta di poesie attuale, ma allo stesso tempo capace di riportare a galla tempi passati associando la figura umana a quella divina, la Formica riesce, con una scrittura intensa, scrollante, caparbia, a manifestare una realtà quotidiana.

Righe vere infatti, emozionanti, risonanti fanno riflettere su quanto piccoli in realtà siamo e su quanto pensieri e situazioni siano capaci di cambiare la nostra interiorità trasformandoci in altro, plasmando la nostra personalità e il nostro essere.

Ma è davvero segnato il nostro destino? O siamo noi a crearlo e a decidere di non modificarlo perché in fondo a noi, la vita vuota e bianca, magari piace?

Chiudo così questo articolo invitando i nostri lettori a leggere trentacinque poesie ammalianti perché capaci di porre interrogativi, ma anche di fornire risposte importanti.

Maria Pettinato

Una volta c’era l’avanguardia e rappresentava l’opposizione. Oggi essa è pienamente accettata ed ufficializzata, tanto da divenire una pratica comune e banale. Non se ne può più parlare poiché la violazione della regola è retorica ed il discorso intellettuale non si svolge più all’interno della dialettica tra avanguardia e tradizione, ma tra avanguardia e avanguardia, come dire tra tradizione e tradizione

G. Celant

DOPO E OLTRE L’ANIMA DEL FLUSSO

Cos’è il dopo Fluxus? Si può parlare e se sì, in quale termini, di un “dopo Fluxus ”, al di fuori naturalmente degli archivi storici (l’Archiv Sohm in Germania, The Tyringham Institute e l’Archive Jean Brouwn nel Massachussets, il Backworks a New York, ecc), dei singoli nomi eccellenti regalati alla Storia dell’Arte Contemporanea, dei pezzi-da-museo, dei pezzi-da-arte-fiera, delle fruttuose insicurezze di cui Fluxus ha pervaso, malgrado il sufficiente scetticismo dei denigratori, ogni singolo angolino della cultura post industriale?

A ben vedere l’influenza del “Fluxus spirito” si riscontra a chiare tracce in molto di ciò che è accaduto “dopo”, nell’ampio panorama del divenire artistico che si sia evoluto nel segno della libertà di espressione individuale quale unico modo pragmatico e forza motrice tramite cui l’Arte rinnova se stessa. In un’epoca esploratissima, osservata, sezionata, specificata, specializzata e funzionalizzata in tutti i suoi aspetti quale è quella che stiamo vivendo.

Se le radici del Flusso, come abbiamo visto, timidamente ma autorevolmente improvvisato nella seconda metà del secolo scorso, sono profonde e solidamente impiantate all’interno del più intenso sentire umano, difficilmente si potrà parlare di morte di Fluxus.

Si può invece ragionevolmente avvertire la naturale decadenza e successiva relativa fine di una fase enunciativa e fervida di creatività, accaduta, avvenuta in un certo momento della storia dell’uomo, nel quale l’impulso primario e originale dell’indeterminatezza, nell’espressione totale linguistico/comunicativa e sensoriale abbia investito il senso estetico delle cose, cercando di eliminare l’aspetto simbolistico quale meccanismo sintomatico di allontanamento inibitorio dal processo reale di comunicazione.

Pulsione a sua volta seguita da una progressiva reazione composita, contenente continuità e repulsione, nonché nuovamente destabilizzante, non importa se in senso positivo o negativo, e quindi estremamente utile all’ulteriore processo di rinnovamento del linguaggio.

Processo di progressione che del resto appare basilare e sistematico in un moto sinusoidale e binario quale è quello che regola il progredire del nostro intero universo e del suo modo di comunicare.

L’eclettismo ideologico, il non-avere-preconcetti, il non-creare-pre-concetti, l’agire in quanto tale per provocare l’evento, colloca di fatto il fenomeno Fluxus inteso globalmente, fuori dall’idea di rottura “avanguardistica”, oltre la lotta per la supremazia intellettuale o teorica delle “verità” o delle “ricerche”, lontano dalle contrapposizioni o dalle “sfide”, nell’arricchimento collettivo attraverso le esperienze dei singoli e viceversa.

“Continuità al posto della caratterizzazione”, anche se non sono mancati al suo interno prese di posizione o linee di condotta a volte contraddittorie o quanto meno in disaccordo tra loro, dolorosi distacchi, posizioni rigide e tentativi di imposizioni o sopraffazioni.

Qualcuno (Renè Block), riguardo ad esperienze artistiche posteriori o contemporanee agli eventi del flusso, ha parlato di Fluxismo per indicare: “al modo di…” o “seguendo le direttive di…”, ovvero per focalizzare situazioni comportamentali, sistemi di lavoro o impostazioni mentali che sarebbero direttamente derivate da un qualche “sistema fluxus” che però, come abbiamo varie volte sottolineato, non esiste e non può esistere essendo il moto fluxus caratterizzato proprio dall’assenza di un sistema, assenza di regole, assenza di sclerotizzazioni, quindi privo di ismi.

Il vero punto di riferimento al quale richiamare le varie implicazioni in altri discorsi artistici o linguistici è l’anima trasversale dell’energia del Flusso: l’indeterminatezza come vocazione dell’arte e l’apprendimento di esperienze-altre, di scoperte intime e minime come importanti vettori di cambiamento non soltanto delle idee ma anche del comportamento e dell’impostazione mentale incidente sull’intero proseguo storico.

Esperienze che derivano direttamente dalla realtà, dal vissuto e dal fare potenziale, che contemporaneamente ne desumano un paradosso semplice, senza altre sottintese implicazioni; chiamando in causa gli aspetti non-funzionali, immaginativi, estemporanei e transitori dell’evento.

Ponendo quindi in modo diverso i dati reali, semplici, di cui si fa uso e stimolando di rimando risposte diverse di fronte agli stessi dati, rompendo la banalizzazione e funzionalità del loro inserimento nell’accadimento.

L’assunto che appare interessante è la complessità e vastità di comportamenti che in tale contesto rientrano a pieno titolo all’interno della significante “Arte”.

E in questo senso l’apporto e le influenze che l’enorme mole di lavoro, di progetti, di performances, di elaborazioni Fluxus hanno avuto sulle nuove generazioni di artisti, è indiscutibile.

Artisti che consapevolmente o inconsapevolmente hanno attinto all’idea di “indeterminazione” come imput creativo per rendere reali gli specifici estetici presenti in campi di ricerca tra loro a volte molto lontani.

Così come l’uso dell’immagine pubblicitaria e del movimento cinematografico, la Mail-Art, la concezione dell’intercomunicabilità delle discipline hanno favorito e facilitato le aperture verso tendenze artistiche quali la Body-Art, la Land-Art, il Concettualismo, la Minimal-Art, l’Arte Povera e l’Arte digitale, emerse e consolidatesi durante gli anni di fine secolo e gli inizi del ventunesimo.

Il 9 maggio 1978 muore a New York George Maciunas, distrutto da un cancro al pancreas. Chiudendo questo lungo capitolo sulla storia di Fluxus non posso non tornare a ricordare, citando la sua morte, l’anima del Fluxus («George is impossibile. I love George», Milan Knizak), lo spirito libero che ha reso “tattile” la trasgressione, che ha “coagulato” la poesia, aprendo gli spazi della mente.

Cristina M.D. Belloni

La cultura è qualcosa di estremamente complesso, perché avere cultura può significare tante cose, così come insegnarla o semplicemente entrarvi a contatto.

Per qualcuno è un determinato modo di pensare, di vivere, di comunicare, ma per altri ciò potrebbe essere non condivisibile. Ciò che si può ritener certo è che essa, per quanto può essere differente da individuo a individuo, da popolo a popolo, significa “maniera d’essere”.

E per me cultura non è solo il benessere della mente, ma è anche benessere fisico. E come giungere a tale stato se non con una qualitativa alimentazione e con un sano allenamento?

Ci sono vari contesti di allenamento che garantiscono il raggiungimento del benessere fisico, ma non tutti possono a mio avviso inserirsi in un contesto culturale e soprattutto portare dentro chi li pratica il raggiungimento del benessere mentale e spirituale.

A riguardo è interessante individuarne uno che più di tutti può definirsi a mio avviso una cultura fisica e dell’anima prima di tutto: è il Pilates, disciplina fondata nella prima metà del ‘900 dal tedesco Joseph Hubertus Pilates, un metodo che ancora oggi a distanza di molti anni dalla sua nascita scaturisce attrazione e trasforma una lezione in palestra in qualcosa di più.

Joseph sin da piccolo soffriva di problematiche fisiche attualmente molto comuni come asma e rachitismo, ed è ciò che lo ha spinto a interessarsi alla medicina e a studi di tecniche di rilassamento orientale, che lo portarono ad attuare esercizi fisici e spirituali di grande importanza visto il miglioramento del suo stato di salute.

Ma ciò che lo ha reso così celebre è la codificazione della sua tecnica incentrata sul cosiddetto Mat Work, una serie di esercizi eseguiti a corpo libero che vanno a lavorare qualsiasi parte del corpo, dalla zona scheletrica a quella muscolare per concludere con quella interna, quindi organica e mentale.

Il Metodo Pilates è difatti incentrato sulla forza, sulla concentrazione, sulla determinazione, portando in tal modo la persona che pratica gli esercizi a ritrovare la propria serenità e ad attenuare problematiche che spesso sorgono dentro di sé a causa di difficoltà esterne.

Ciò è fondamentale perché oltre a essere un aiuto fisico in quanto modella il corpo tonificandolo e snellendolo con esercizi che richiamano lo yoga, la danza, la ginnastica, è un ottimo alleato nella vita di tutti i giorni.

L’autostima migliora, il livello di concentrazione, fondamentale per prendere decisioni razionalmente, aumenta decisamente, così come il benessere spirituale legato prevalentemente al respiro, che finalmente viene fuori nella sua essenza e nella sua importanza.

Imparare a respirare è infatti fondamentale per rilassare la nostra mente e il nostro corpo; è ciò che ci dà forza e l’energia necessarie per stare bene e per affrontare nel migliore dei modi le circostanze che si presentano nella vita di tutti i giorni.

Una pratica fisica che diventa così un modo di essere, di vivere e di pensare, oltre che un mezzo praticato per ottenere benefici fisici quali, come già sottolineato, la tonificazione, ma anche una postura corretta, una maggiore elasticità fisica e articolare, un rafforzamento muscolare.

Ne viene fuori, se praticata con costanza e volontà di cambiare, una qualità di vita importante, consigliata a uomini e donne di qualsiasi età.

Maria Pettinato

È dotata di un’originalità anomala, avulsa da qualsiasi altro registro stilistico e contenutistico, questa raccolta di María Ospina Pizano, docente di cinema e cultura latinoamericana negli Stati Uniti, al suo esordio come narratrice.

Con Gli azzardi del corpo crea un’entità unitaria, semplice, indivisibile come i sei racconti che la compongono, atomi legati l’uno all’altro dalle stesse protagoniste che spesso ritornano di narrazione in narrazione.

Minimo comune denominatore di tutte è il raccontarsi insistente attraverso la dimensione corporale, veicolo fondamentale di questa affabulazione intimista.

Sono corpi femminili diversi tra loro: atletico e muscoloso quello di Marcela, ex guerrigliera che ha lasciato le montagne e sta cercando di rifarsi una vita in città (Policarpa); esili, con i segni dell’incipiente pubertà ed inconsapevoli dell’avvenire quelli delle ragazze del collegio (Salvezza di signorine).

Ma c’è posto anche per il corpo rugoso e caduco di Mirla, che in un momento di estremo dolore ne antepone la cura a qualunque altra cosa, affidandolo all’amica estetista Martica (Gli azzardi del corpo).

La corporeità femminile trova una singolare espressione anche attraverso la descrizione scrupolosa e a tratti ossessiva di arti, tronchi e pupille di bambole, corpi smembrati descritti amorevolmente come esseri pulsanti di vita propria, ai quali Estefanía dedica tutta la propria passione nel negozio ereditato dalla propria famiglia (Collateral beauty).

Ad emergere in un caso è anche la sola sofferenza fisica di un corpo, dilaniato dai morsi delle pulci in ogni sua parte, come ne riferisce in prima persona sotto forma di metodica narrazione diaristica la protagonista (Fauna di ere).

Il corpo per raccontare una vita, che quasi sempre è quella sbagliata o non scelta, il corpo per raccontare la propria femminilità, il corpo per raccontare quella costellazione di affetti e legami che accomuna queste donne tra di loro, sorelle,figlie, nipoti, amiche, semplici conoscenti ma anche estranee, che intersecano le loro esistenze sullo sfondo di una Bogotà caotica ed eterogenea nella geografia delle ambientazioni.

Utilizzando una scrittura nitida, capace di andare al cuore delle emozioni e degli stati d’animo partendo anche dal particolare più insignificante, María Ospina Pizano (per la prima volta tradotta in italiano) riesce a trasmettere al lettore l’universo interiore delle protagoniste, contrapponendolo all’esteriorità (spesso dissidente) che le circonda.

Ne deriva un dualismo tra mondo interiore e mondo esteriore che è la cifra di maggior valore di questa scrittura, al servizio di un universo femminile fuori dall’ordinario.

Francesca Mazzino

Il titolo della pellicola che si è guadagnata la duecentoventisettesima posizione nella classifica dei migliori film della storia secondo la rivista Empire è semplicemente un nome proprio di persona, Léon, film del regista francese Luc Besson uscito nelle sale cinematografiche nel 1994, anno del debutto del cult Pulp Fiction di Quentin Tarantino.

La prima immagine di questo capolavoro che affiora alla mente non può che essere quella della piccola, ma solo per statura, Natalie Portman che con il suo caschetto nero interpreta il ruolo di Mathilda, affiancata sul set dal candidato al premio Oscar Jean Reno nel ruolo del cinico sicario Léon.

La trama, irrobustita del genere “gangster all’americana” dal regista Besson, va ad accostare a omicidi e poliziotti corrotti la tenerezza di una lolita diseducata all’affetto.

Gli occhi di Mathilda, scuri come la notte e carichi di rancore a causa di un’infanzia rubata, si fanno spazio sul viso ricoperto di lividi provocati dalle percosse del padre. Cresciuta assieme al fratello minore nel degrado familiare ricondotto a molestie psicologiche e fisiche, ritiene quest’ultimo il solo meritevole di attenzioni e cure.

La famiglia di Mathilda, decimata per una questione di droga la trasforma così in una vera e propria responsabilità sia per Léon, che si è ritrovato in casa una minorenne di cui non sa che farsene, sia per il regista il quale ci mostra una preadolescente già provvista di un passato ingombrante e matura nelle sue intenzioni ed esigenze.

L’obiettivo che scandirà tutta la convivenza forzata tra il sicario e la ragazzina sarà infatti la determinazione di quest’ultima nell’imparare “a fare le pulizie”, e cioè a uccidere per vendicare l’omicidio del fratellino.

La crescita fisica e psicologica di Mathilda sembra così essersi affidata alle cure dello spettatore attento, oltre che a quelle di Léon, presentandoci un cambiamento talmente reale da sembrare che esso sia avvenuto nella stessa attrice oltre che nel personaggio da lei interpretato.

La Portman ha addirittura rilasciato un’intervista nella quale ha spiegato come questo film abbia esercitato in lei non poche ripercussioni psicologiche, tanto che da quel ruolo in poi ha deciso di scegliere con attenzione le parti da interpretare in altre pellicole.

E a confermare tutto ciò vi è la modifica del copione: nella prima stesura il legame tra i due protagonisti era sviluppato in maniera più fisica ed erotica, una scelta questa che venne scartata in quella definitiva, forse proprio per la difficoltà interpretativa dell’attrice.

Fondamentale è il ruolo di Léon, sicario schivo e sempre vestito di nero, così attento da rendersi conto di tutto nonostante la sua discrezione abbia il sopravvento sulla reazione.

La figura di un uomo che ha sempre inteso la vita come un percorso fatto di abitudini e disciplina, tutto necessariamente nascosto e calcolato, tranne che l’arrivo di Mathilda.

Due vite parallele e distratte che prendono forma senza che ci vengano mostrate sullo schermo le estreme conseguenze di una vita costellata di rancore e brutti ricordi, le ragioni del cuore rimangono velate fino a un exploit finale e a incidere con forza in questo è l’azzeccatissimo brano usato per i titoli di coda, Shape of my heart (La forma del mio cuore nella traduzione italiana) cantato da Sting.

Desirée Formica

In momenti come questo in cui il cinema, fermo per la prima volta dalla sua nascita e bloccato nella surrealità che ci ha travolto tutti come un turbine, è fondamentale sognare e lasciarsi intrattenere dai film.

Non sono poche le pellicole viste in questi giorni, ma comincerei a parlarvi di quello che maggiormente ha spiccato su gli altri aprendo così la rubrica dal titolo I Film della Quarantena.

È Il sommelier (Uncorked), film drammatico/commedia del regista e sceneggiatore Prentice Penny presente sulla piattaforma Netflix dal 27 marzo 2020.

Un debutto cinematografico mancato a causa del Covid-19, ma che grazie a Streaming è riuscito ugualmente a marcare il territorio garantendosi il successo sperato e direi meritato vista la sua presenza nella Top 10 dei film più visti.

Un film incentrato sui sogni e su uno dei tanti piaceri della vita, la degustazione dei vini, che non è cosa da poco in quanto quello del sommelier può definirsi tutt’oggi uno dei pochi mestieri dotati di quell’eleganza e di quella raffinatezza che richiama alla mente tempi antichi e ricchi di valori.

La trama narra la storia di Elijah (Mamoudou Athie), un giovane ragazzo del Tennessee il cui sogno è quello di diventare un sommelier e il cui rapporto con il padre Louis (Courtney B. Vance), incentrato su grandi differenze generazionali, non è dei migliori proprio per le diverse idee riguardanti il futuro del figlio. Louis infatti lo vorrebbe alla guida dell’impresa a sua volta ereditata dal padre, non credendo in nessun modo all’aspirazione di Elijah definendola una perdita di tempo.

Dolcezza, conflittualità e passione emergono in un film degno di nota perché capace di far riflettere, di far comprendere quanto sia importante non perdersi mai, credere ai propri sogni nonostante sembra che il destino vi remi contro, così com’è importante avere accanto una famiglia amorevole e rapporti incentrati sulla stima e sull’ascolto reciproci.

Attraverso il colore, il sapore, l’odore del vino si ritrovano i momenti felici che si credeva essersi persi da tempo, tornando così ad apprezzare le cose che fanno della vita un dono, così prezioso e importante da permettere a un padre e un figlio di capirsi e instaurare quel rapporto che mancava ormai da tempo.

Maria Pettinato

LA SOCIETÀ POST-INDUSTRIALE

Il modo Fluxus di porsi dinnanzi alla realtà non si schematizza in “situazioni” statiche. L’analisi e la sintesi si animano dall’evento, senza per nulla snaturarlo o scontrarsi reciprocamente.

Così il discorso di amplia enormemente coinvolgendo gli atti della vita, la loro modalità intrinseca di sviluppo, la poesia spontanea, la capacità di saturazione del momento in qualsiasi direzione. Poiché non è nelle finalità che si indirizza l’attenzione, ma nell’accadere stesso dell’evento.

Ciò spiega in parte il dilatarsi e dilagare negli ambienti artistici della filosofia e del modus vivendi Fluxus, che verso la fine degli anni ’60 riesce ad essere voce autorevole all’interno dei movimenti di rottura giovanili che si ispirano ad una liberazione dei sensi e delle idee, di chiara matrice orientale.

In questo periodo il “movimento” poteva contare su una rete organizzativa e di contatti sparsa in tutto il mondo, alla quale facevano capo alcuni membri storici, suddivisi, per così dire, per situazioni geografiche. Senza contare le collaborazioni con vari gruppi che si erano via via create sia in Europa che in America e in Giappone, come il gruppo Zaj in Spagna, il gruppo cecoslovacco Aktual, il gruppo ECBS in California, nonché varie collaborazioni con singoli artisti, sporadiche o continuative.

Se da una parte le attività del Fluxus convergono e si fondono con gli avvenimenti del malessere studentesco e le nascenti filosofie beatnik prima e hippies successivamente, dall’altra paradossalmente tuttavia, la spinta creativa e vitale del movimento soffre gradualmente di una certa stanchezza.

Maciunas impegnato nei vari tentativi di creare cooperative – dopo le dure lotte newyorkesi che lo vedono escogitare stratagemmi per sfuggire brillantemente alle ricerche della forza pubblica che vuole impedire le indebite occupazioni degli immobili, ma non altrettanto brillantemente alla mafia che in un agguato lo ferisce gravemente -, tenta ora la possibilità di trasferire una “colonia” Fluxus nella piccola isola Ginger nelle Isole Vergini Britanniche, tentativo che purtroppo andrà a vuoto per l’improvvisa morte, prima della firma del contratto di vendita, del proprietario dei terreni.

Altri membri si staccano dalle attività del gruppo proprio nei momenti di successo personale, poiché, come nota Ken Freidman «molti si identificano più fortemente con Fluxus quando le loro carriere stagnano e meno fortemente quando le loro carriere si innalzano. Ciò è causato dal fatto che nello spazio giornalistico individuale dato agli artisti nei momenti di “alta”, raramente essi pongono l’accento sulla loro affiliazione al gruppo, il che è dovuto al generale fenomeno sociologico dell’identità di gruppo come servizio prestato a coloro le cui identità non sono ancora chiaramente definite, o le cui identità in punti trasformativi della carriera sono sottoposte ad una rivalutazione della loro situazione. Ciò vale per la maggior parte dei gruppi e non è meno valida per Fluxus, tranne che per quei membri il cui senso del contatto sociale ed il cui senso di Fluxus in quanto istituzione per un cambiamento sociale, furono sempre forti».

Lo stesso Friedman intraprende, agli inizi del decennio successivo, frequenti viaggi in tutti gli Stati Uniti che diedero eccellenti risultati in nuovi progetti, pubblicazioni, festivals ed azioni Fluxus.

Il primo tentativo di organizzare una mostra retrospettiva delle attività che il gruppo aveva portato avanti nell’arco di più di un decennio è merito della Koelnischer Kunstverein che incarica Herald Szeemann di raccogliere tutto il materiale che fosse possibile reperire sia in Europa che in America, per l’allestimento di una grande mostra che doveva venire ospitata nei vari musei europei.

L’occasione si presta per riunire nuovamente molti artisti che avevano fatto o fanno parte del “Flusso”, a riesumare progetti e fatti e a dare nuova spinta a pubblicazioni ed eventi particolarmente curati da David Major, che in Inghilterra ha dato vita a Fluxshoe.

L’entusiasmo e la partecipazione alla costruzione di questa mostra determina però un’enormità di interventi e apporti, tanto da “spaventare” i musei che dovevano ospitarla, sia per l’informalità del gruppo, che per “l’indeterminatezza e sregolatezza” degli interventi stessi, da spegnerla dopo il secondo raduno.

Nei modi, nel particolare momento storico e nelle motivazioni culturali con cui Fluxus apre un nuovo – o antico che dir si voglia – modo di scoprire la vita e l’Arte, si aprono naturalmente altre strade e altre interpretazioni che, durante gli anni ’70, fanno sì che avvenga un proliferare di fatti non necessariamente legati al fenomeno Fluxus in senso stretto, forse più circoscritti o selettivi, ma che comunque devono al movimento la spinta iniziale se non addirittura l’idea.

Diverso è per il Wiener Aktionismus, l’azionismo viennese, già attivo con Gunter Brus, Hermann Nitsch e Schwarzkogler agli inizi degli anni ’60. Autocoscienza e misticismo si intrecciano nei lavori del gruppo austriaco ad una sorta di “esistenzialismo” drammatico, nel quale la vita stessa assume toni parossistici, nel tentativo di liberarla dai pesanti tabù culturali e psicologici e dalle rigidezze di una cultura decadente e fragile.

Nel teatro di Herman Nitsch, teatro “orgiastico e mistico”, come viene definito, l’azione avviene tramite oggetti reali, nell’estensione sensoriale dell’evento che diviene esperienza sensoriale a tutti i livelli, coinvolgendo la partecipazione fisico-sensorea del pubblico e dei partecipanti, ma anche soprattutto la dimensione emotiva che viene qui stimolata nei drammatici e crudi interventi.

Oggetti e simboli sono usati nel loro reale significato come elementi che appartengono ad una realtà spesso rimossa, accantonata o coperta da tabù e qui messa a nudo, nell’immediatezza dell’avvenimento.

«Il toccare ed l’annusare viscere tiepide, carne, sangue, il rumore dell’orchestra che aumenta sino a provocare sensazioni dolorose, l’eccessivo vuotare e spruzzare diversi liquidi procurano dirette impressioni sensuali di vissuto, con una corrispondente risposta psichica.»

Questa in sintesi la filosofia di Nitsch e del gruppo viennese in generale. C’è in questa una espressione di violenza repressa, di disperazione ed entropia che rappresenta il limite estremo del discorso liberatorio e cosciente presente nel Fluxus.

La drammaticità della scena viennese ripropone ancora una volta il dilemma secolare esistente tra realtà e finzione, tra coscienza e metafora e in quali limiti sia attuabile un discorso coerente per esprimere in senso artistico esperienze e pulsioni.

L’intransigenza austriaca si presenta in termini di esasperazione e negatività dell’esperienza umana e di conseguenza artistica l’idea che, comunque, anche se in senso estremizzato, non cozza per nulla con la concezione di arte, né con il senso fluido della vita stessa: l’idea si apre a raggiera, toccando tutti i punti, tutte le possibilità.

Ma accade che più si vuole staccare con un atto di “violenza” l’Arte dal “simulacro della rappresentazione”, per farle assumere identità più vicine possibili ad un reale rimosso in questo caso negativo, più essa si inscrive con forza e tenacia nel simbolico, nella rappresentazione di un “sacro” intimamente personale e nascosto, quando il termine “sacro” sia inteso come essenza stessa del tabù che si vuole rimuovere e che con tale azione non si sradica, ma paradossalmente si enfatizza.

(to be continued)

Cristina M.D. Belloni

L’immaginazione è un dono che pochi possiedono in età adulta. È una caratteristica che ci accomuna da bambini donandoci gioie immense, perché è ciò che ci rende unici facendoci sognare e provare stupende emozioni.

Da un luogo, un momento, una parola, nasce, o meglio si esprime, la fantasia che è dentro ognuno di noi ed è così che improvvisamente si ci ritrova ad abbracciare un sole a forma di cuore o seduti sotto un albero stellato o rilassati sopra ad una nuvola.

Momenti speciali perché esternano stati d’animo interiori straordinari, situazioni che a volte si dimenticano appena varcata l’età adulta immersa nella confusione di tutti i giorni, in uno stato di stress alienante e destabilizzante.

Immagina di essere… un bambino su una NUVOLA (Il Ciliegio Edizioni, per leggere la recensione de L’Artefatto clicca qui) tali emozioni le presenta in tutta la sua unicità attraverso il disegno, ma anche i colori e la felicità della quattordicenne Elena Arcella, coautrice insieme alla madre Nadia Forte del libro di meditazioni illustrate che mai come oggi possono fornirci l’occasione per ritrovare la gioia e la serenità di tempi passati, appunto quelli della nostra infanzia, e il cui scopo «è quello di aiutare più persone possibili ad entrare nel rilassamento, nell’ascolto interiore e a riscoprire i propri talenti, la propria unicità», come ha spiegato la nostra Elena.

Aveva dodici anni quando ha avviato i disegni che ornano il testo e la cui ispirazione è nata proprio dal rilassamento interiore provato durante le meditazioni svolte assieme alla Forte: «stavo attraversando un momento di crisi sia a livello scolastico, che familiare. Mia madre mi chiese se volessi fare delle meditazioni scritte da lei, una volta al mese, per rilassarmi».

«Da quel momento è come se la meditazione si fosse trasformata nell’occasione per esternare il mio stato d’animo», una sorta di apertura interiore si direbbe caratterizzata dall’allentamento delle tensioni come spiega l’illustratrice. «Dalla prima volta, dopo la meditazione, mi venne la voglia di disegnare ciò che avevo sentito e immaginato durante il rilassamento e fu così che le mie emozioni, anche con il sostegno dell’illustratrice Michela Gastaldi, sono emerse con determinazione».

Colori, pagine bianche, fantasia diventarono improvvisamente gli ingredienti capaci di trasformare la parola in armonia, felicità, condivisione, curiosità, ma anche unione, in quanto questo è anche il libro del rapporto madre-figlia, così forte ed intenso da essere capace di diventare arte dotata di purezza e di amore, tanto che alla domanda cosa rappresentasse per Elena Immagina di essere…, la risposta è stata ovviamente la seguente: «un’unione con mia madre».

La spontaneità e l’entusiasmo emergono con estrema naturalezza dalle illustrazioni sorte con la disinvoltura e la ricchezza di talento caratteristiche dei bambini, accompagnate dalla sensibilità dell’Arcella, dotata di quella ricchezza d’animo che pochi possiedono e che sicuramente le offrirà l’opportunità di trasformare i suoi sogni in realtà, di cui per ora non sveliamo nulla.

Anche se sicuramente, e di questo ne sono certa, la nostra piccola grande Elena, la rivedremo molto presto!

Maria Pettinato

EUROPA

La trasferta europea del gruppo storico di Fluxus aveva creato nuovi contatti, che daranno in seguito il loro contributo, con realtà molto diverse da quella americana, crogiolo di moltissime esperienze che lì si incontravano.

Il clima sociale europeo si presenta più “ristretto” in tradizionalismi radicati e chiuso negli angusti ambiti nazionalistici, ma per certi versi è più “rilassato” di quello d’oltreoceano, anche se non tarderanno a maturare i frutti di scompensi ideologici e sociali profondi legati ai veloci cambiamenti dell’industrializzazione.

L’Europa occidentale sta attraversando un periodo economico “felicemente consumistico”, pur tra forti divisioni politiche nelle strategie nazionaliste che tuttavia registrano ora le prime aperture. Lo spauracchio del socialismo reale viene vissuto da vicino quindi con più realismo rispetto all’isteria collettiva che il confronto ideologico provoca nel lontano continente americano.

L’Europa orientale è chiusa strettamente nelle maglie dei regimi comunisti, di conseguenza anche le espressioni artistiche vengono strumentalizzate alla logica partitocratrica. L’eredità delle Avanguardie storiche è raccolta solo da alcune, per altro fertili, sacche di dissidenza costretta ad operare clandestinamente e che tuttavia riescono a mantenere i contatti con gli ambienti culturali d’oltre cortina.

Le posizioni della critica ufficiale e degli studiosi nell’Europa dell’era industriale sono ancora attestate in roccaforti dove la richiesta di continuità nel prodotto ideologico e artistico di un mezzo secolo già ricco di contraddizioni e stimolanti eventi, è ovviamente di difficile soddisfazione. Per cui il rifugio logico rimane una sterile rilettura del “glorioso passato”, con infruttuosi evacui tentativi di “recuperi selettivi”.

In questo contesto tuttavia gli ambienti artistici non solo sono pronti a ricevere quei messaggi pregnanti dell’indeterminatezza che avvolgono il fare nel “Flusso”, ma già hanno creato premesse linguistiche molto vicine alle intenzionalità insite in slogan come: “l’Arte è facile” o “tutto è Arte, tutti possono farla”.

Se infatti, come abbiamo già avuto modo di constatare, le istanze dada sono state alla base dell’evoluzione Fluxus, ancora prima esistevano i presupposti per una trasformazione radicale dell’Arte nel suo senso etico ed esistenziale.

Umberto Boccioni nelle teorizzazioni sul “tempo nuovo” dell’Arte, in Estetica e Arte futuriste dichiarava: «Verrà un tempo forse, in cui il quadro non basterà più […]Altri valori sorgeranno, altre valutazioni, altre sensibilità di cui non concepiamo l’audacia […]Usciamo forse dai concetti tradizionali di pittura e scultura che imperano da quando il mondo ha una storia? Giungiamo alla distruzione dell’Arte come è stata intesa sino ad oggi? Forse! Non lo so! Non è importante saperlo».

Il rapporto multimediale, i collegamenti tra prodotto artistico -o più propriamente prodotto di pensiero- e vita, e quotidianità del pensiero stesso, azione ed oggettualità trovano negli anni ’40 e ’50 risposte che, pur partendo da posizioni filosofiche diverse, con motivazioni e per molti aspetti risoluzioni diverse, approdano ad una tipologia comportamentale analoga all’imprinting del Fluxus.

Inoltre il “collettivo” nell’azione del movimento americano si fondava sulla valorizzazione e collaborazione del “individuale”, per cui non precludeva nessuna diversità di espressione, aumentando anzi il suo aspetto di sintesi globale del pensiero di un’intera epoca.

Esperimenti di coinvolgimento del pubblico nell’azione scenica, di teorizzazione di una “estetica alternativa” (Isidore Isou), di progettazione di “opere in progress” vengono compiuti in questo periodo da movimenti come il lettrismo, i cobra, che nel ’49 presentano “oggetti semplici” in una mostra (L’object à travers les ages) tenuta a Bruxelles, l’Internazionale Situazionista e altri, come pure da parte di singoli ricercatori come Piero Manzoni, Lucio Fontana, Heiz Marck, Otto Piene, nonché da tutta l’area della Poesia Visuale italiana, che sviluppa l’aspetto fonetico ed i legami tra immagine e concetto tra suono e scrittura.

Situazioni artistiche eterogenee, complesse e costituite concettualmente secondo criteri di espansione dello specifico dell’arte e del ruolo dell’artista, contribuiscono alla formazione di quei personaggi che agiranno poi attivamente per coinvolgere la cultura europea nello spirito di Fluxus, ma anche alla individuazione delle diversità sia pragmatiche che intellettuali esistenti.

Già a Colonia abbiamo visto svilupparsi un fitto tessuto di ricerca, da cui emergono varie personalità ed anche divergenti posizioni. L’assunto musica-azione che costituisce il perno della costituzione del gruppo tedesco, non soddisfa pienamente Wolf Voistell, il quale vede nell’azione l’elemento di importanza primaria che sviluppa poi nei suoi decoll/ages e TV decoll/ages, sperimentando metodi di divulgazione elettronica dell’immagine.

Parallelamente artisti come Joseph Boys trovano nella sofferta creazione oggettuale, nella parafrasi simbolistica risposte concrete al bisogno di trascesa catartica insito nella scelta di vita che l’Arte comporta.

Anche per il francese Ben Vautier, vicino alle teorizzazioni lettriste, di cui ammette le influenze esercitate sul suo lavoro, ma dalle quali presto si staccherà, il binomio arte-vita è inscindibile. E di questo binomio è parte concreta l’oggetto. L’oggetto che però esista già, l’oggetto di consumo o di recupero, attraverso cui confrontare la propria singolarità di artista all’interno della vita stessa.

Quindi «appropriarsene, firmando tutto quanto già non lo sia stato», in un “fagocitare” e rendere poi come proprio un concetto, un prodotto, il nulla. Il rapporto “casuale”, l’appropriazione della casualità fermata in un momento qualunque del suo manifestarsi e riproposta come “opera” in quanto tale, è alla base del lavoro di Daniel Spoerri, presentato per la prima volta a Parigi nel 1960 in occasione del Festival d’Avan-Gard.

Sul fronte italiano è ancora la musica a legare le esperienze. È il caso della “mutica” di Gian Emilio Simonetti, consistente in “percorsi” casuali su spartiti musicali; o per le ricerche musicali di Giuseppe Chiari, la “musica senza contrappunto”, per “scoprire l’intima qualità formale e musicale degli oggetti”. Ma avremo modo in seguito di puntualizzare meglio l’apporto di ogni singolarità artistica all’interno di questo eterogeneo gruppo costituente il Fluxus.

L’esperienza europea porterà Maciunas ad organizzare, dopo il suo ritorno in America, una vera e propria rete di divulgazione, autogestita e divisa in settori, dove Fluxus nord sarà Per Kirkebi a Copenhagen, Fluxus sud: Ben Vautier a Nizza, Fluxus est: Milan Knizak a Praga, Fluxus ovest: Ken Friedman in California e lo stesso Gorge Maciunas nella sede di New York. Contemporaneamente ha inizio la terza fase del fenomeno Fluxus, che sarà la fase della produzione e divulgazione di oggetti, di multipli e di films.

AMERICA

La straordinaria dinamica dell’assunto “associazionistico” di Fluxus, del tutto scevra di rigidità, caratterizzata da una costante e totale, anzi determinante diversità, si pone in senso sociologico oltre le istanze storiche che, seguendo cronologicamente, segneranno indelebilmente la sfera del sociale.

Se infatti i grandi movimenti di massa come il Beat, l’Hippysmo, il Femminismo ecc., che conferiscono attivamente corpo e voce al malessere sociale non più contenibile sul finire degli anni ’60, hanno come tendenza ideologica nella ricerca di una libertà tanto agonista, quanto effimera, “l’indipendenza” di Fluxus si pone al di là degli eventi contingenti pur facendone parte, in un’ottica di accettazione e confronto costruttivo con la “diversità” che, creando i suoi spazi ed intervenendo come “media” parallelo diviene modo per accedere ad una unità ed insieme libertà molto più ampie.

Queste caratteristiche che solo oggi vengono espresse e riconosciute ampiamente, hanno tuttavia comportato per l’ambito Fluxus un crescente scontro con istituzioni ed autorità poco inclini ad accogliere le sempre più pressanti istanze sociali.

Nel 1964 Maciunas assume la direzione esecutiva dell’A.A.C.I., ufficio per l’azione contro la cultura imperialista, che si prefigge si svolgere azioni di denunzia e di disturbo pacifico contro tutte quelle manifestazioni promosse dalla cultura ufficiale e tese alla conferma e celebrazione dello status per cui l’Arte rimaneva un fenomeno elitario, difficile, serioso, non contaminato da influenze impure, da gerghi marginali.

La seconda azione dell’A.A.C.I. viene espressa l’8 settembre di quello stesso anno con un picchetto davanti al Judson Hall di New York in cui doveva venire eseguito Originale di Karlheinze Stockhausen.

Al compositore tedesco si contestavano le sue posizioni denigratorie nei confronti del jazz, ritenuto da lui, durante una conferenza tenuta ad Harward nel 1958, un’espressione musicale inferiore in quanto incolta e troppo viscerale; nonché il suo inserimento all’interno della cultura ufficiale della Germania Occidentale come «elemento decorativo dell’elitismo reazionario», secondo quanto sosteneva Henry Flint.

In questo periodo Fluxus, pur tra enormi difficoltà di rapporti con le strutture di potere, sembra aver acquistato una certa stabilità organizzativa. Dal 1963 al 359 di Canal Street in New York, si costituisce la Fluxus-Hall in cui, malgrado la ristrettezza dello spazio, vengono svolte le performances, si riunisce il gruppo teorico, si dà vita a rappresentazioni, si costruiscono oggetti Fluxus, si elaborano pubblicazioni e films.

George Maciunas produce la maggior parte dei progetti portati a compimento e anche se quelli realizzati costituiscono solo una piccola parte delle idee espresse, la mole di lavoro è enorme.

Fatti a mano uno per uno da Maciunas stesso sono poi distribuiti a chi ne fa richiesta o fatti circolare gratuitamente durante le performances. Fluxus arriva anche ad avere una carta intestata dove sono enunciate le “diramazioni geografiche”dell’organizzazione.

Dick Higgins fonda la Something Else Press, destinata in seguito, dopo il distacco da Fluxus, a diventare una grossa impresa nel campo editoriale e divulgativo, fino a quando non si scioglieranno nel 1974.

Ma non tutto è così semplice come sembra all’interno del gruppo, infatti le discussioni e gli scontri non cessano mai di vivacizzare l’ambiente. Del resto accettati come dibattiti in ogni caso costruttivi, anche quando avranno conclusioni di distacco, come avviene proprio in occasione di Originale di Stockhausen: Nam June Paik e Dick Higgins vi parteciperanno, lasciando Flint, Maciunas, Takako Saito, Conrad e Ben Patterson a portare a termine la protesta.

Le “ambiguità ed energie divergenti” di Fluxus fanno parte del gioco non stereotipato e duttile ribadito dal movimento, gioco che deve contribuire alla non fossilizzazione delle personalità individuali, alla coscienza delle semplicità quotidiane come espressioni poliedriche e costante del divenire, il quale attraverso di esse può imparare a conoscersi ed insieme interpretare l’universalità dei bisogni e degli aspetti dell’intera Umanità, quale summa di individui, quindi l’universalità dell’Arte come “scoperta”, presa di coscienza “dell’Umanitudine”.

L’individuo è punto focale, perno centrale, non come nella concezione capitalistica di individuo forte contrapposto alle masse, ma come punto di partenza conoscitivo nelle sue semplicità e complessità per arrivare all’apertura globale.

In questo senso posso essere compresi sia l’aspetto arte-gioco che l’aspetto più propriamente sociale dell’operato di Maciunas, che costituiscono due capacità interagenti in questa interpretazione attiva del ruolo dell’arte. L’instancabile Gorge si assume l’arduo compito di coordinare le numerose attività di Fluxus a New York nei loro diversi aspetti: creativi, divulgativi e sociali.

Proprio nell’intento divulgativo per meglio far conoscere le posizioni di protesta contro “l’ufficialità” competitiva ed arrivistica del modus vigente di interpretare la Cultura, Flint e Maciunas elaborano nel 1965 la pubblicazione I Comunisti devono dare una leadership rivoluzionaria alla Cultura in cui tra l’altro si esprime come “la manipolazione di Stato delle Arti non possa trasformare una situazione per altri aspetti regressiva in una rivoluzionaria”, e come “in una situazione rivoluzionaria divenga primaria la rivoluzione spontanea in seno alla Cultura, in quanto la manipolazione di Stato della Cultura è un uso errato dell’autorità esecutiva”.

Qui si fa riferimento anche al metodo: «impadronirsi non solo dei mezzi di produzione ma anche del sistema di distribuzione del mondo dell’arte» e socialmente «distribuzione di date risorse di consumo al maggior numero di atti di consumo (trasformando in ricchezza gli uso-valori disponibili), all’intera popolazione».

Maciunas stesso si interessa attivamente alla “pianificazione sociale del consumo”, sia teoricamente, mettendo a punto un progetto di case prefabbricate che dovevano avere la caratteristica di combinare i bassi costi di produzione con una migliore qualità della vita (progetto che non avrà mai un seguito fattivo, né in Unione Sovietica per la quale era stato pensato, né negli Stati Uniti perché non conveniente alla logica di mercato), sia praticamente quando, tra il 1967 ed il 1968, organizza in Soho sette cooperative immobiliari per restaurare i grandi depositi dalle strutture in ghisa (Cast Iron Buildings), bellissimi esempi dell’Architettura Funzionalistica.

L’impegno è enorme, tanto da far sfiorare la morte a Maciunas che si salva a stento da un’aggressione ma perde irrimediabilmente l’uso di un occhio.

La gestione cooperativa degli immobili consente di limitare notevolmente le spese individuali e di mettere in atto altre idee. Sorge all’80 di Wooster Street la filmmaccher’s film library diretta da Jonas Mekas, grande spazio, luogo Fluxus di pubblico incontro dove vengono presentati nuovi spettacoli come: Orgien Mysterien Theater di Hermann Nitsch, uno dei maggiori rappresentanti del tormentato Viener Aktionismus austriaco, o i primi spettacoli di Ontological-Hysteric Theater di Foreman.

Vengono prodotti e pubblicati films e video con il corposo contributo di Shigeko Kubota, soprattutto quando lo spazio nel 1974 cambierà nome assumendo quello di Anthology Film Archivies.

(to be continued)

Cristina M.D. Belloni

In queste giornate particolari, in cui il coronavirus ha sconvolto le nostre esistenze e abitudini, catapultandoci in una realtà dai toni quasi surreali, trovo significativa e consigliata la lettura di Cecità, oggetto di spunti e riflessioni interessanti.

Pubblicato nel 1995 con il titolo originale Ensaio sobre a Cegueira (Saggio sulla cecità), l’opera è valsa il premio Nobel allo scrittore portoghese Josè Saramago (1922-2010).

In uno scenario distopico e ai limiti dell’irrealtà, una città senza nome, pullulante di personaggi altrettanto anonimi, è colpita da una singolare epidemia: gradualmente tutti gli abitanti si accorgono di diventare ciechi o meglio, di ritrovarsi avvolti in una nebbia lattiginosa che impedisce il normale prosieguo della propria quotidianità.

Il libro si apre con un automobilista fermo al semaforo: è lui la prima vittima di questa strana malattia, (successivamente verrà chiamato “il primo cieco”) che fa vedere tutto bianco anziché il buio assoluto.

Tornato a casa con l’aiuto di un altro uomo racconta l’accaduto alla moglie ed insieme decidono di recarsi da un oculista, nello studio del quale troveranno altri “contaminati” e futuri personaggi del libro: un “vecchio con la benda nera” su un occhio, una “ragazza dagli occhiali scuri” e una donna in compagnia di un “ragazzino strabico”.

Il medico non ha alcuna spiegazione scientifica da fornire dinnanzi a quella che sta prendendo le proporzioni di una vera e propria pandemia, capace di coinvolgere ogni individuo appartenente a quel particolare tessuto urbano tranne “la moglie del medico”, l’unica alla quale inspiegabilmente il Caso preserverà la vista.

A questo punto l’inquietudine ed il senso di angoscia si fanno incalzanti, soprattutto quando il governo decide di mettere gli ammalati in isolamento forzato in alcuni edifici per evitare il contagio, garantendo rifornimenti di cibo operati dall’esercito.

Proprio in questa situazione claustrofobica, di forzata convivenza con l’estraneo ed incertezza circa quanto potrà accadere, emergono gli istinti più bestiali e primordiali dell’uomo, disposto a tutto pur di sopravvivere, anche a danno dei suoi stessi simili.

Straordinario è il modo in cui l’autore riesce a descrivere l’efferatezza e la degradazione morale dei cosiddetti “ciechi malvagi”, colpevoli di creare, con modalità dittatoriali, una sorta di governo oligarchico all’interno dell’edificio, sottraendo il cibo agli altri individui e compiendo atti di prepotenza culminanti con stupri di gruppo.

Sovvertiti i normali schemi alla base della convivenza civile, in un clima di piena anarchia e amoralità, ogni singolo istante si riduce ad una mera lotta per la sopravvivenza personale e la sopraffazione sul più debole, esplicitata al meglio da una scrittura che scorre e travolge il lettore come un fiume in piena, priva delle regole della punteggiatura tradizionale.

Saramago vuole evidenziare come queste inclinazioni primitive siano assopite in ogni essere pensante e che situazioni di particolare pericolo possano risvegliarle in qualunque frangente.

La Cecità è solo il culmine di una situazione antropologica negativa, a monte della quale l’autore evidenzia l’indifferenza per il prossimo, comune denominatore delle nostre odierne città, in cui siamo sempre più monadi solitarie e sempre meno membri di una collettività, alieni ai diritti e i doveri che questa condizione comporta.

«Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che, pur vedendo, non vedono», parole queste, pronunciate nel libro dalla “moglie del medico”, che esprimono perfettamente il punto di vista dell’autore, il quale rimarcherà questa mancanza di solidarietà ed empatia verso il prossimo anche durante il discorso per la premiazione al Nobel.

Solitudine, egoismo, incapacità di vedere al di là del proprio orizzonte, chiusura mentale: sono soltanto alcuni dei temi affrontati in questo straordinario romanzo, in grado di scuoterci riga dopo riga e d’interrogarci su quante volte anche noi, consapevolmente o meno, siamo stati ciechi.

Francesca Mazzino