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Archivio tag: ECCELLENZE CINEMATOGRAFICHE

Il titolo della pellicola che si è guadagnata la duecentoventisettesima posizione nella classifica dei migliori film della storia secondo la rivista Empire è semplicemente un nome proprio di persona, Léon, film del regista francese Luc Besson uscito nelle sale cinematografiche nel 1994, anno del debutto del cult Pulp Fiction di Quentin Tarantino.

La prima immagine di questo capolavoro che affiora alla mente non può che essere quella della piccola, ma solo per statura, Natalie Portman che con il suo caschetto nero interpreta il ruolo di Mathilda, affiancata sul set dal candidato al premio Oscar Jean Reno nel ruolo del cinico sicario Léon.

La trama, irrobustita del genere “gangster all’americana” dal regista Besson, va ad accostare a omicidi e poliziotti corrotti la tenerezza di una lolita diseducata all’affetto.

Gli occhi di Mathilda, scuri come la notte e carichi di rancore a causa di un’infanzia rubata, si fanno spazio sul viso ricoperto di lividi provocati dalle percosse del padre. Cresciuta assieme al fratello minore nel degrado familiare ricondotto a molestie psicologiche e fisiche, ritiene quest’ultimo il solo meritevole di attenzioni e cure.

La famiglia di Mathilda, decimata per una questione di droga la trasforma così in una vera e propria responsabilità sia per Léon, che si è ritrovato in casa una minorenne di cui non sa che farsene, sia per il regista il quale ci mostra una preadolescente già provvista di un passato ingombrante e matura nelle sue intenzioni ed esigenze.

L’obiettivo che scandirà tutta la convivenza forzata tra il sicario e la ragazzina sarà infatti la determinazione di quest’ultima nell’imparare “a fare le pulizie”, e cioè a uccidere per vendicare l’omicidio del fratellino.

La crescita fisica e psicologica di Mathilda sembra così essersi affidata alle cure dello spettatore attento, oltre che a quelle di Léon, presentandoci un cambiamento talmente reale da sembrare che esso sia avvenuto nella stessa attrice oltre che nel personaggio da lei interpretato.

La Portman ha addirittura rilasciato un’intervista nella quale ha spiegato come questo film abbia esercitato in lei non poche ripercussioni psicologiche, tanto che da quel ruolo in poi ha deciso di scegliere con attenzione le parti da interpretare in altre pellicole.

E a confermare tutto ciò vi è la modifica del copione: nella prima stesura il legame tra i due protagonisti era sviluppato in maniera più fisica ed erotica, una scelta questa che venne scartata in quella definitiva, forse proprio per la difficoltà interpretativa dell’attrice.

Fondamentale è il ruolo di Léon, sicario schivo e sempre vestito di nero, così attento da rendersi conto di tutto nonostante la sua discrezione abbia il sopravvento sulla reazione.

La figura di un uomo che ha sempre inteso la vita come un percorso fatto di abitudini e disciplina, tutto necessariamente nascosto e calcolato, tranne che l’arrivo di Mathilda.

Due vite parallele e distratte che prendono forma senza che ci vengano mostrate sullo schermo le estreme conseguenze di una vita costellata di rancore e brutti ricordi, le ragioni del cuore rimangono velate fino a un exploit finale e a incidere con forza in questo è l’azzeccatissimo brano usato per i titoli di coda, Shape of my heart (La forma del mio cuore nella traduzione italiana) cantato da Sting.

Desirée Formica

In momenti come questo in cui il cinema, fermo per la prima volta dalla sua nascita e bloccato nella surrealità che ci ha travolto tutti come un turbine, è fondamentale sognare e lasciarsi intrattenere dai film.

Non sono poche le pellicole viste in questi giorni, ma comincerei a parlarvi di quello che maggiormente ha spiccato su gli altri aprendo così la rubrica dal titolo I Film della Quarantena.

È Il sommelier (Uncorked), film drammatico/commedia del regista e sceneggiatore Prentice Penny presente sulla piattaforma Netflix dal 27 marzo 2020.

Un debutto cinematografico mancato a causa del Covid-19, ma che grazie a Streaming è riuscito ugualmente a marcare il territorio garantendosi il successo sperato e direi meritato vista la sua presenza nella Top 10 dei film più visti.

Un film incentrato sui sogni e su uno dei tanti piaceri della vita, la degustazione dei vini, che non è cosa da poco in quanto quello del sommelier può definirsi tutt’oggi uno dei pochi mestieri dotati di quell’eleganza e di quella raffinatezza che richiama alla mente tempi antichi e ricchi di valori.

La trama narra la storia di Elijah (Mamoudou Athie), un giovane ragazzo del Tennessee il cui sogno è quello di diventare un sommelier e il cui rapporto con il padre Louis (Courtney B. Vance), incentrato su grandi differenze generazionali, non è dei migliori proprio per le diverse idee riguardanti il futuro del figlio. Louis infatti lo vorrebbe alla guida dell’impresa a sua volta ereditata dal padre, non credendo in nessun modo all’aspirazione di Elijah definendola una perdita di tempo.

Dolcezza, conflittualità e passione emergono in un film degno di nota perché capace di far riflettere, di far comprendere quanto sia importante non perdersi mai, credere ai propri sogni nonostante sembra che il destino vi remi contro, così com’è importante avere accanto una famiglia amorevole e rapporti incentrati sulla stima e sull’ascolto reciproci.

Attraverso il colore, il sapore, l’odore del vino si ritrovano i momenti felici che si credeva essersi persi da tempo, tornando così ad apprezzare le cose che fanno della vita un dono, così prezioso e importante da permettere a un padre e un figlio di capirsi e instaurare quel rapporto che mancava ormai da tempo.

Maria Pettinato

“Ha rubato, per carità, però il suo prezzo lo ha pagato caro”, “Bettino Craxi?Un ladro! È morto come meritava”, “Ci è andato di mezzo solo lui, invece i veri colpevoli hanno vissuto da eroi.”

Quante volte abbiamo sentito queste frasi, noi generazioni nate negli anni Ottanta che quel periodo storico lo abbiamo vissuto, ma non lo ricordiamo.

E quante volte pensando a lui, a ciò che ha fatto, abbiamo compreso che in realtà quello era solo l’inizio di una lunga fase, attuale oggi più che mai, della nostra politica.

La politica delle “mani pulite”, di chi aveva tradito ma non lo ammetteva, di chi si eleggeva deputato leale ma in realtà poi non lo era, di chi parlava dicendo ciò che gli veniva suggerito, e di chi invece così… da un giorno all’altro era il solo colpevole, il solo ladro, il solo traditore.

Una verità che fa male, sbattuta in faccia da Gianni Amelio, regista e sceneggiatore di Hammamet, il quale decide di non presentarci un’opinione, ma semplicemente la storia di Bettino Craxi persona.

Una caduta la sua che già si presenta all’inizio del film nel massimo momento di gloria del socialista che, come gli altri personaggi del film, non viene mai chiamato per nome.

È il quarantacinquesimo Congresso del PSI, Craxi è dirompente, imperniato di egocentrismo e di quella persuasione comunicativa che rende la politica così bella e suadente per chiunque l’ascolta.

Ma già in quell’occasione qualcosa non quadra, la tragedia è negli occhi di Vincenzo-Sergio Moroni (Giuseppe Cederna), nelle bandiere rosse che cadono a terra e nei tulipani scoloriti, presagi di disfacimento.

E poi improvvisamente l’uomo anziano, non più altezzoso, non più giacca e cravatta, non più paroliere, ma semplicemente una persona, sola, dall’umore altalenante, malata, ridicolizzata da un sistema malsano, rassegnata al destino che con rammarico ha dovuto scegliere, l’esilio.

Una ricostruzione reale sui sentimenti vissuti da Bettino negli ultimi mesi della sua vita, conclusasi nel silenzio il 19 gennaio 2000 nella sua “fortezza” blindata ad Hammamet. Stati d’animo raccontati dall’amata figlia Anita-Stefania (Livia Rossi), rimasta con lui fino alla fine e dal cui sguardo si scorge ancora oggi il male fatto al padre.

Rabbia, incredulità, rassegnazione mista alla voglia di combattere, diligenza, ma anche tanta debolezza rivivono in un Pierfrancesco Favino reso perfettamente somigliante al “Ghino di Tacco”, come lo soprannominò nel 1986 l’allora direttore di Repubblica Eugenio Scalfari, dal make-up artist da premio Oscar Andrea Leanza.

La storia di un uomo. Lenta, silenziosa, crudele.

Ebbene ce la presenta così Amelio, con estrema lentezza, come se ci volesse svelare una volta per tutte la verità. La sua verità, quella di Craxi. Ora la dice, ora la svela, ora la rivincita arriva pensiamo davanti allo schermo!

E invece no, nemmeno alla fine, nemmeno quando Fausto (Luca Filippi), che ha ucciso suo padre trasformando il ladro in martire come piace a noi italiani, la videocassetta della verità la tira fuori.

Eh no! Questo non accade, alla consegna segue infatti la fuga. Semplicemente perché la verità noi la conoscevamo, anzi la conosciamo.

Anche oggi. Anche quando ce la sbattono in faccia tutti i giorni. Perché noi siamo i furbi italiani di allora, quelli che un colpevole sul quale puntare il dito per coprirsi gli occhi, lo trovano sempre.

Maria Pettinato

Un errore giudiziario, un potere corrotto, in cui a perdere è il più debole, colui che è stereotipato dallo stesso sistema che per vincere è capace di tutto, perfino di uccidere.

Caratteristiche di un thriller politico da considerarsi a dir poco perfetto, J’accuse (L’ufficiale e la spia) di Roman Polanski, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Harris.

Gennaio 1895, il capitano dell’esercito Alfred Dreyfus (Louis Garrel) viene accusato di aver fornito informazioni segrete ai nemici tedeschi e per questo condannato all’esilio nell’Isola del Diavolo. Elemento ancora più degradante per il condannato è il fatto di essere ebreo in una Francia di fine Ottocento in cui sempre più accentuato è l’antisemitismo e che spinge quindi il popolo a non credere assolutamente all’innocenza professata dall’imputato.

A smascherare l’ingranaggio di bugie che muove l’intero esercito è il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), un uomo razionale, anch’esso legato alla normalità dell’antisemitismo galoppante e ai concetti retrogradi dell’epoca, ma amante comunque della verità, così tanto da rinunciare al suo ruolo e da andare contro tutto e tutti pur di riaprire un processo che si era rivelato fantomatico sin dall’inizio.

Ed ecco che Polanski ricostruisce il primo errore giudiziario della storia, l’Affaire Dreyfus, dal punto di vista di Picquart, ripercorrendone gli anni di emarginazione, di accuse e di solitudine in una Francia incapace di vedere l’oggettività, totalmente nascosta dietro a concetti razzisti che non fanno altro che richiamare nella mente dello spettatore la futura Germania nazista.

Un film che offre una riflessione importante sulla lotta tra realtà e menzogna, presente da sempre, confermata dai fatti reali che Polanski ci presenta, e mai come oggi così attuale, come attesta il futuristico mondo mediatico, capace di cambiare gli eventi e di trasformare chiunque in un nemico.

E viene fuori la descrizione di un sistema corrotto che ha sempre attanagliato i più deboli, ma anche i più veri, coloro che vivendo il proprio lavoro come missione hanno creduto e credono tuttora che le cose possano cambiare a discapito dei falsi, e a favore del mondo.

Uomini come Picquart, allontanato dall’esercito e da Parigi, Èmile Zola, accusato di calunnia per aver pubblicato l’editoriale J’accuse, una lettera al presidente della Repubblica in cui veniva spiegata l’oggettiva verità del colonnello, e condannato per questo a un anno di reclusione, e l’avvocato Fernand Labori, ucciso in un attentato poco prima della sentenza.

Un thriller perfetto dal punto di vista cinematografico, non solo per l’accurata descrizione di fatti storici, non sempre semplici da mettere in scena, ma anche per un film che di per sé è girato e studiato dettagliatamente, come dimostrano le favolose inquadrature che lo compongono, caratterizzate peraltro da uno straordinario livello cromatico.

Particolari importanti infatti emergono inevitabilmente, come l’impeccabile piano sequenza iniziale o la palese ricostruzione della belle époque francese in molte scene del film.

Un fattore quest’ultimo non da poco come dimostrano le scene raffiguranti la colazione sull’erba o le strade e i momenti di vita parigina, le quali riportano immediatamente alla mente gli omonimi quadri impressionisti di Claude Monet, o l’istantaneità di Gustave Caillebotte.

Colazione sull’erba (1895),
Claude Monet
Una strada di Parigi; tempo di pioggia (1877),
Gustave Caillebotte

Una cura per il dettaglio da sempre legata alla personalità registica di Polanski e che, non a caso, gli ha permesso di essere elogiato di molti riconoscimenti tra cui, per J’accuse, del Leone d’argento, Gran premio della giuria alla 76° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.

Elogi degni di un pilastro portante del cinema, come attestano opere di grande ricerca espressiva ed è ciò che a noi spettatori interessa, anche se Polanski con questo film, forse, ha voluto toccare un tasto bollente, l’accusa di violenza sessuale a suo discapito, e inviare un messaggio, che è appunto la lotta tra realtà e menzogna.

Maria Pettinato

La forza dell’amore è il tema centrale di un film dal quale apparentemente traspare complicità per le tematiche affrontate, Tutto il mio folle amore diretto dal premio Oscar Gabriele Salvatores.

In realtà di complicato non ha nulla, perché non c’è niente di più semplice che il naturale legame tra genitore e figlio. Così puro e genuino che a volte ci si commuove solo a immaginarselo, figuriamoci a viverselo.

È la storia di Vincent (Giulio Pranno), un ragazzo autistico cresciuto con la madre Elena (Valeria Golino) e il padre adottivo Mario (Diego Abatantuono). Una famiglia tenuta in piedi da un fragile equilibrio, che però si rompe quando Will (Claudio Santamaria), padre biologico del ragazzo, chiede di poterlo incontrare.

Una richiesta alla quale segue l’ira di una donna che è stata abbandonata sedici anni prima da un uomo che amava e dalla fuga del loro figlio il quale, a insaputa dei tre, si nasconde nel furgone del famoso cantante nei Balcani.

Ed ecco che un ragazzo “strano” comincia il suo viaggio con un uomo altrettanto “strano”, un padre che non odia perché lui, Vincent, è diverso da tutti gli altri, lui ama davvero, lui non prova rancore. Non sa cosa sia e perciò chiede solo amore.

Un amore folle. Perché la follia è ciò che lo muove, nella sua genuinità, nella sua verità.

E strano è un viaggio dal quale emergono assieme ai sentimenti, gli aspri paesaggi sloveni e croati che mano a mano si addolciscono lasciando il posto alla dolcezza e alla calma del mare. Metafora di un cambiamento che tocca il cuore di tutti i personaggi del film.

Tema caro a Salvatores che, in un certo senso, Mediterraneo ce lo vuole ricordare qua e là riprendendo con la macchina da presa i valori genuini e la purezza insiti nelle piccole cose offerte dalla vita, da un semplice tramonto a un matrimonio gitano, dal vento sulla faccia allo sguardo di un cavallo salvatore.

La vera musica della nostra esistenza, ciò che la movimenta, la diversità. Centrale perché è ciò che diffonde note di colore.

E quando Elena – madre arrabbiata con la vita perché questa l’ha colpita violentemente punendola dei suoi errori – si accorge che la bellezza è proprio in quelle cose, ecco che, finalmente, si perdona e comincia a vivere.

E lo fa nella diversità di suo figlio, in quella di Will, in quella di un popolo che ha vissuto la sofferenza ma che ne è uscito con gioia, in quella di un marito che l’ha salvata, ma soprattutto e consapevolmente nella sua.

Una pellicola tratta dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Flavio Ervas, nato a sua volta da una storia vera e proprio per questo reale, forte a volte, ma unica nella sua semplicità. Perché è famiglia e come tale è bonaria.

Figlia di un film da definirsi perfetto dal punto di vista critico, non solo per quanto riguarda il ritorno sul podio di Salvatores, regista nostrano e perciò artigiano come ormai pochi rimasti, ma anche quando si parla degli attori che lo hanno reso così speciale, da una malinconica e combattente Golino a un equilibrato Abatantuono che, ancora una volta, ha trionfato.

Degna di nota è l’emblematica interpretazione di Giulio Pranno, per la prima volta nelle vesti di attore. Un ruolo, quello di Vincent, non semplice da mettere in scena, ma a dir poco riuscito.

Così come eccezionale è quella di Claudio Santamaria, il cui carisma ancora una volta traspare nel ruolo di un personaggio debole e perciò vittima dei suoi stessi errori, ma allo stesso tempo voglioso di farcela, di dimostrare a se stesso e a Vincent di essere padre prima di tutto.

Ma anche uomo, e non più solo il Modugno della Dalmazia. Soprannome-omaggio al cantante pugliese che emerge non solo nello stile e nelle canzoni offerte dal personaggio durante il suo tour nei Balcani, come Nel blu, dipinto di blu o Tu si na cosa grande, ma anche nel titolo stesso del film, Tutto il mio folle amore, verso della canzone Cosa sono le nuvole.

Musica non da poco, confermata peraltro dalla scelta di usare come colonne sonore le autorevoli e azzeccate Vincent di Don Mc Lean e Next to me degli Imagine Dragons.

Maria Pettinato

Siamo abituati a pensare a Joker come la nemesi di Batman, il genio del male, un criminale psicopatico amante di omicidi.

Questa volta è qualcosa di più. Il Joker di Todd Phillips, Leone d’oro al Festival di Venezia 2019, è un personaggio studiato nel dettaglio, la raffigurazione della disuguaglianza e del degrado sociale, nonché la rabbia dei giorni nostri.

È il 1981. Arthur Fleck è un clown affetto da un disturbo psichico che gli provoca incontrollabili attacchi di risate in momenti di tensione. Vive con l’anziana madre Penny a Ghotam City e ha un sogno: diventare un comico di successo.

Lotta con educazione e in punta di piedi per raggiungere il suo progetto, senza però ottenere nulla di concreto rimanendo lo zimbello da prendere in giro e bullizzare.

Fino a che non si trasforma ne “l’assassino dei ricchi”, in una sorta di “eroe della follia” per la massa degradata che abita nei quartieri altrettanto deteriorati di Ghotam e che come lui non ha possibilità di emergere in un sistema in cui solo il potente privo di valori e indifferente verso il prossimo ha la meglio.

La stessa folla che fino a poco prima non aveva considerato Arthur o al massimo lo aveva emarginato.

Si assiste dunque alla trasformazione di Fleck in Joker e della sua vita che “da tragedia diventa commedia”. Un cambiamento che rende sempre più evidenti i suoi disturbi della personalità, legati a un’infanzia abusata da una madre altrettanto malata.

Ed è così che viene fuori la storia di Joker per quella che è, raccontata da un punto di vista inusuale e assolutamente originale, diretta da un regista che aveva in mente un personaggio differente dalle precedenti versioni cinematografiche.

Un thriller psicologico in cui il protagonista è nato da un progetto a quattro mani avviato assieme all’attore che lo ha interpretato, Joacquin Phoenix, il quale è decisamente entrato nella psiche di Joker per poterla rappresentare al meglio.

Un ruolo degno di Oscar, non facile da mettere in atto, ma riuscito positivamente, come se Phoenix si fosse oggettivamente trasformato in Arthur/Joker.

E lo abbia fatto non solo dal punto di vista psichico ed emotivo, ma anche fisico come dimostrano i 23 kg in meno dovuti a una dieta ferrea, le inquietanti espressioni del viso e gli angoscianti movimenti del corpo che lo rendono meno umano e sempre più grottesco, ma anche più leggero ed elegante ricordando per certi aspetti le maschere della tragedia greca e della commedia dell’arte.

Nel raffigurare il disagio di Arthur, Phillips non ha fatto altro che portare a galla ciò che è la società attuale, apatica e priva di senso comune, ma soprattutto di riferimenti reali e perciò portata all’anarchia da assassini e criminali.

Ghotam è quindi il mondo di oggi in cui c’è chi emerge facendo buon viso a cattivo gioco come Murray Franklin, presentatore di talk show che contribuisce al crollo psichico di Joker, interpretato da Robert De Niro che, dal punto di vista attoriale, definisce il suo ruolo nel film un omaggio al Re per una notte (1983) di Martin Scorsese.

Non mancano infine chiari riferimenti a Charlie Chaplin che si ritrovano esplicitamente nella canzone Smile, da lui composta per Modern Times, o nelle scene che lo raffigurano, ma anche nella sua visione tragica sui “tempi moderni”, direi azzeccata oggi come allora.

Maria Pettinato

Film atteso, criticato, anche apprezzato, ma soprattutto inaspettato è C’era una volta a… Hollywood (Once upon a time in Hollywood) di Quentin Tarantino.

Se ne è dette di ogni, il pubblico deluso per un film che poco ha a che fare con l’azione tipicamente tarantiniana, la critica sorpresa e affascinata da ciò che le è stato mostrato.

In questo ha influito e non poco la decisione del regista di non svelare nulla sulla trama, creando così lo stupore necessario per affrontare un finale “diverso” rispetto a quanto ci si aspettava, ma anche una trama poco movimentata, in cui sono i personaggi questa volta a venire fuori con il proprio essere e non l’azione in sé.

Protagonista è il cinema, è Hollywood 1969 e tutto ciò a essa legato. A emergere sono i manifesti pubblicitari, le locandine, il drive-in, i cinema, i set western, il cibo in scatola in serie alla Andy Warhol e la pubblicità che prende il sopravvento.

“C’era una volta” che ha il significato di una favola, di come Tarantino immagina Hollywood e il “finale”, diverso rispetto a come sono andate le cose in realtà il 9 agosto 1969 a Cielo Drive quando Charles Manson e la sua “family” hanno ucciso la moglie del regista Roman Polanski, l’attrice Sharon Tate, incinta di otto mesi, e i suoi tre amici, compiendo una vera e propria strage.

Un fatto realmente accaduto inserito dal regista come sfondo in un film che vede come personaggi principali, oltre alla Tate interpretata egregiamente da Margot Robbie, Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), suo vicino di casa, e Cliff Booth (Brad Pitt).

Rispettivamente attore acclamato, ma sul viale del tramonto e perciò depresso a causa dell’avvento della televisione e di una nuova Hollywood, che è appunto quella di Roman e Sharon, e la sua controfigura, leggera e leale.

Citazioni e omaggi sono la risposta di Tarantino alla domanda “cos’è per te il cinema?” e sono il motore su cui ruota questo capolavoro cinematografico. Non sono poche infatti le curiosità legate a esso.

Una di queste è l’omaggio al regista nostrano Sergio Leone, riscontrabile nel titolo C’era una volta a… Hollywood che ricorda decisamente C’era una volta il west (1968) e C’era una volta in America (1984), capolavori indiscutibili dello “spaghetti western”.

Menzione al nostro genere riscontrabile anche quando viene nominato un altro maestro, Sergio Corbucci che è il regista con il quale Dalton lavora in Italia per Nebraska Jim, una pellicola di pura invenzione tarantiniana.

Ma anche “c’era una volta” come i film di Walt Disney, citato dalla bambina-attrice Trudi-Mirabella Lancer (Julia Butters), che peraltro nella geniale spiegazione del lavoro dell’attore nomina tra le righe Il lavoro dell’attore sul personaggio di Sergeevič Stanislavskij.

“C’era una volta Hollywood”, diversa, talentuosa, ora un ricordo di Dalton, divo indimenticabile, ma ormai passato di moda. E poi “c’era una volta” Bruce Lee, che appare in due scene in un’ironica presa in giro.

Cast stellare voluto espressamente dal regista, omaggiando il cinema anche in questo modo, che è quello di oggi, diverso sì, ma assolutamente degno di qualità.

Così come non poteva mancare a riguardo il richiamo a film come Pulp Fiction, Kill Bill e Bastardi senza gloria, che immancabilmente ci tornano alla mente.

Oltre alla coppia Di Caprio-Pitt, senza dubbio dotata di egregio talento, non mancano, per citarne alcuni, Al Pacino nel ruolo dell’agente di Rick Dalton, Luke Perry nella sua ultima apparizione, Bruce Dern nel ruolo di George Spann, proprietario del runch che ha ospitato Charles Manson, interpretato da Damon Herriman, e la “family” negli anni Sessanta.

Nono film, penultimo secondo quanto dichiarato da Tarantino già agli albori della sua carriera, il quale ha sempre affermato di volerne realizzare dieci e poi ritirarsi, tanto che il titolo iniziale da lui pensato era appunto Numero nove.

Detto ciò “C’era una volta a… Hollywood” è da definirsi una pellicola dotata di qualità cinematografiche tipicamente di genere, come d’altronde è il cinema di Tarantino, ma questa volta ha uno scopo ben preciso, quello di comunicare il cinema nella sua essenza, farlo vedere per quello che è dal punto di vista della sensibilità attoriale, registica e di produzione.

Un film forse proprio per questo diverso dai precedenti almeno fino a quando si arriva a un finale a sorpresa, in cui le scene sanguinolente alla Tarantino vengono fuori, con tanto di lanciafiamme e strilla strazianti e in cui la coppia Dalton-Booth si trasforma da attoriale a salvifica, perché la favola ha un inizio che è il “c’era una volta”, ma anche una conclusione, che è sempre lieta.

Maria Pettinato

Che lo si voglia o no la stagione estiva è conclusa cedendo il posto all’autunno con la sua brezza di malinconia e di serena tranquillità.

È la stagione in cui cadono le foglie offrendo un’occasione di rinascita e i cui colori caldi rappresentano l’appoggio necessario per provare a rinascere. Come se ti dicessero “ci sono io a tenerti, cadi e poi, appena sei pronto, vivi ancora”.

E se non va rimane comunque la possibilità di rilassarsi su un comodo divano, sotto un’attraente copertina davanti a un buon libro o a un film strappalacrime.

L’autunno è infatti il periodo dei film impegnativi, commoventi al punto giusto e decisivi per lasciarsi andare allo sfrenato relax. Uno di quei film, consigliato da L’Artefatto, è decisamente Sweet november (Dolce novembre), pellicola del 2001 diretta da Pat O’Connor.

Trama passionale, ma allo stesso tempo così triste da lasciare l’amaro in bocca allo spettatore, soprattutto quando si arriva al finale inaspettato.

Peter (Keanu Reeves) è un dirigente pubblicitario ossessionato dal lavoro, Sara (Charlize Theron) è sinonimo di libertà, follia, voglia di vivere giorno per giorno.

I due si incontrano per puro caso e decidono, pazzi l’uno per l’altra dal primo istante, di avviare un rapporto di passione per tutta la durata di novembre a casa di lei. Decisione assolutamente stravolgente per un uomo come Peter, impostato e materialista, ma normale per Sara che, decisa a non volere per nessuna ragione al mondo complicazioni sentimentali, è specializzata nella cosa.

Trenta giorni di passione, ma soprattutto, appunto, di dolcezza che altro non è che amore allo stato puro. Sentimento che viene fuori quando Peter scopre la malattia terminale della donna e decide comunque di rimanerle accanto chiedendole di sposarlo, ma soprattutto quando lei decide di non farlo soffrire e per questo di mandarlo via pur amandolo immensamente.

È la storia di due persone che si incontrano semplicemente perché devono cambiare, perché è il destino a volerlo. Malvagio sì, ma fondamentale per permettere a lui di diventare un uomo migliore, amante della vita, affascinato da ciò che essa può dare, e offrire a lei un ultimo dono.

E quale mese, se non novembre, quale stagione, se non l’autunno perché questo avvenga. La stagione in cui tutto muore garantendo qualcosa di ancora più bello, ancora più vivo, proprio come le foglie calde che sfiorano con dolcezza il terreno gracile, ma forte perché capace di sostenerle.

Non può non esserci commozione, non si può non provare emozioni, davanti a un film che è nato proprio per suscitarle. E speriamo che fuori piove per assaporarle ancora di più queste emozioni, magari sotto all’attraente copertina e su un comodo divano.

Maria Pettinato

Viale del tramonto (1950), Billy Wilder.
Protagonista: Gloria Swanson

Il cinema può definirsi l’espressione della vita, la sua rappresentazione. Ha infatti la capacità di trasmettere attraverso i suoi film, le sue scene, le sue inquadrature, i suoi fotogrammi ciò che noi viviamo quotidianamente, da un gesto a un’abitudine, da una sensazione a un’emozione.

Quante volte capita di ritrovarsi in un film, in una trama o semplicemente di rivedere in quella scena montata con quella determinata musica un momento vissuto o una persona o un luogo. O magari è un colore ad attrarci, una parola, un paesaggio. Ed ecco che viene fuori appunto l’essenza cinematografica.

Ma, come in tutti i film che si rispettano c’è chi colpisce più di altri, c’è il personaggio che fa sognare, che fa pensare, che semplicemente affascina: il/la protagonista. Ma pensateci, questo non accade anche nella nostra quotidianità?

Pretty woman (1990), Garry Marshall.
Protagonista: Julia Roberts

Ebbene sì, perché nella vita di tutti i giorni la nostra attenzione è palesemente orientata, oggi più che mai, verso chi emerge, chi trasmette qualcosa nel bene o nel male e che ci riesce proprio perché dotato di autenticità.

Noi quel qualcuno, propriamente detto protagonista, lo giudichiamo positivamente o negativamente, ma eccome se questo giudizio è figlio di pensiero ed emozione.

Johnny Stecchino (1991), Roberto Benigni.
Protagonista: Roberto Benigni

Questo avviene nel quotidiano come in un film in cui le azioni del personaggio principale sono osservate, assorbite, giudicate dallo spettatore e accade perché esso è dotato di qualità che pochi possiedono.

Esterna una magia unica, straordinariamente semplice e così forte da colpire non solo chi ha vicino, ma anche chi per puro caso si imbatte in lui/lei.

Io sono leggenda (2008), Francis Lawrence.
Protagonista: Will Smith

Pensate a una Julia Roberts o a un Will Smith ad esempio? Ce li vedreste nei panni di un personaggio secondario? Credo proprio di no.

Oscurerebbero attraverso movenze, espressioni, modi di fare e di comunicare l’attore/attrice di turno.

Moulin rouge (2001), Baz Luhrmann.
Protagonista: Nicole Kidman

Sono poche le personalità che affascinano oggettivamente e il cinema, dotato di occhio e consapevolezza tecnica, ne estrapola le peculiarità e le trasmette poi al pubblico, dotandosi di attori/attrici che palesemente e naturalmente sono i protagonisti.

Maria Pettinato

Il Festival di Venezia 2019, o meglio la 76° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, sta per concludersi e anche quest’anno ha garantito l’occasione per esporre le proprie creazioni filmiche, ma anche e soprattutto per esporsi.

Perché è ormai chiaro a tutti il fatto che il Festival di Venezia in realtà non sia solo e semplicemente un evento culturale, un momento di dibattito intellettuale, la Manifestazione cinematografica con la “M” maiuscola, organizzata con passione e competenza dalla rinomata Biennale di Venezia.

Eh no, cari miei! Venezia a fine estate è il Festival, è la Rassegna, è l’Occasione tanto attesa per pubblicizzarsi, presentarsi, mostrarsi tra tanti e tante.

Ma in realtà ahimè, a emergere dalla passerella rossa, nella massa di attori, fashion blogger (o presunte tali!), influencer e tutti i nuovi personaggi di questi disastrosi anni (e spero che rimarranno solo anni!), aleggia aria di talento ed eleganza molto raramente.

E dalla famosa pedana a distinguersi dalle altre, perché dotata di inconfondibili finezza, sensualità, talento e unica bellezza c’è Penélope Cruz, in concorso a Venezia con il film Wasp network di Olivier Assayas, thriller politico nel quale la vediamo nei panni di Olga, moglie di René Gonzalez, dissidente anti-castrista fuggito in Florida, “moglie del traditore” in pieno regime a Cuba 1990.

Olga (Penélope Cruz) in Wasp network di Olivier Assayas in concorso alla 76° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia

Conosciuta nel mondo per le sue capacità attoriali, oltre che per la sua bellezza, la Cruz è esempio di determinazione, riuscita e riservatezza.

Ma a contraddistinguerla vi è il sacrificio, come ha dimostrato il periodo delle porte sbattute in faccia, degli incontri con persone sbagliate, di rinunce, che si è trasformato poi nel periodo dello studio, della determinazione, delle conoscenze positive come quella avvenuta con il maestro e amico Pedro Almodòvar, che ha creduto in lei contribuendo così alla trasformazione di Penélope ne “La Madonna di Madrid” prima e di icona mondiale poi.

Momenti belli e brutti, ma fondamentali perché è anche grazie a essi che lei oggi è ciò che è, una donna umile, portatrice di valori, una di Noi, la ragazza della porta accanto che ce l’ha fatta, che proviene da una famiglia altrettanto umile.

Diva “raggiungibile”, amata e innamorata del suo pubblico come attesta la passione impressa nei suoi occhi, la dolcezza del suo sorriso, l’ironia tipicamente spagnola, la volontà di tenere fuori dai riflettori la sua vita privata.

Qualità così vere da toccare i presenti che solo a guardarla in una foto pubblicata sui social de L’Artefatto decidono di votare lei preferendola alle altre che, pur dotate di fascino e qualità come dimostrano Monica Bellucci, Alessandra Mastronardi e Cristiana Capotondi – tutte presenti sul red carpet veneziano – spicca diffondendo “luce propria”.

Maria Pettinato