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TROY in televisione: recensione del film con Brad Pitt | MaSeDomani

Troy, diretto da Wolfgang Petersen, è un film epico/drammatico uscito nelle sale cinematografiche il 9 maggio 2004.

Un film ambientato in un’epoca antica, leggendaria e affascinante e che per questo ha riscosso un grande successo di pubblico e di critica confermato dai molti premi vinti tra cui il premio Oscar ai migliori costumi e l’MTV MOVIE AWARD al miglior combattimento e alla migliore performance (2005) per citarne alcuni.

L’opera di Omero, l‘Iliade, narra gli ultimi cinquantuno giorni della decennale Guerra di Troia, ed è da questa che David Benioff, sceneggiatore del film, si ispira per la realizzazione di Troy.

Il film narra infatti la famosa guerra svolta tra i Greci e i Troiani causata, secondo la mitologia omerica, dal rapimento di Elena da parte di Paride.

Il protagonista Achille, interpretato dal pluripremiato Brad Pitt, è l‘incarnazione della perfezione come dimostrano le caratteristiche che lo rendono così esemplare: bello, possente, audace e valoroso.

Ad emergere le due personalità contrastanti dei due fratelli: Ettore e Paride.

Troy - Film (2004)

Simbolo di forza e di coraggio il primo (Eric Bana), emblema di codardia il secondo (Orlando Bloom), come dimostra la sua fuga da Menelao, che nel poema di Omero spinge la dea Afrodite ad intervenire e a nasconderlo sulla torre di Troia.

Questo però non avviene nel film di Benioff il quale, volutamente, ha eliminato dalla trama l’elemento soprannaturale.

Manca infatti nel film la presenza di divinità, così come non è presente la morte epica di Achille: essa non avviene colpendo il tallone, ma la sua uccisione è totalmente “umana”.

Troy: recensione di una grande occasione persa - Cinematographe.it

Attraverso inquadrature di calibro elevato e ricche di effetti speciali Troy è riuscito nel suo intento, offrendosi come un vero e proprio capolavoro cinematografico.

Un film da riguardare perché coinvolgente e capace di suscitare emozioni, soprattutto nelle scene salienti ed iconiche, ma soprattutto un film riuscito nel tentativo di comunicare l’epica in modo originale ad un pubblico moderno.

Casano Giovanni Maria, 1 B Classico

Attack on Titan (TV Series 2013– ) - IMDb

Attack on Titan è un anime tratto dall’omonimo manga scritto da Hajime Isayama, manga Ka giapponese.

Esso è diviso in quattro stagioni, di cui l’ultima ancora in corso, ed è un genere shōnen, animato dal wit studio.

Dalla prima edizione, risalente al 2012, Attack on Titan ha ottenuto un successo strepitoso e attualmente è uno tra i manga e gli anime più popolari e apprezzati al mondo.

Il protagonista è Eren Jeager, uno dei tanti bambini a cui viene stravolta la vita a causa dello sfondamento, da parte del gigante diverso Il Colossale, di una delle tre cinte di mura che proteggono l’umanità.

La morte dei suoi genitori causata da questo attacco spinge Eren a fuggire assieme ad altri bambini grazie a un soldato, circostanza che permette al protagonista di coronare un grande sogno: arruolarsi nel Corpo di Ricerca.

Quest’ultimo è difatti l’unico a poter uscire dalle due mura rimaste e opporsi al dominio dei giganti. Ma le cose sembrano cambiare a suo sfavore quando i giganti diversi sfondano la loro unica protezione.

Come guardare Attack on Titan online: live streaming le ultime stagioni in  tutto il mondo - I giochi, i film, la tv che ami

Ormai cresciuti, Eren e i suoi compagni saranno in grado di cambiare il destino dell’umanità?

Ciò che appare certo dal racconto sono il mutamento della vicenda, i tradimenti, le lotte, ma anche le perdite, le quali suscitano nel pubblico un coinvolgimento non da poco.

Elemento quest’ultimo importante perché conferma il meritato successo di Isayama nella creazione di personaggi dotati di un proprio carattere.

La personalità di Eren ad esempio viene fuori per l’impulsività e la spensieratezza, ma anche per una psicologia complessa ed intrecciata; differenti sono invece gli amici del protagonista, Armin Arlert, poco abile in combattimento, ma con un’astuzia fuori dal comune, e Mikasa, abile combattente e amica protettiva nei confronti dei suoi cari.

Personaggi di spicco quindi emergono in un lavoro di grande riuscita!

Santomauro Giulia, 1B Classico

Arriva 'Io sono l'abisso' di Donato Carrisi - Libri - ANSA

Thriller psicologico dalla narrazione pluriprospettica e dalla trama complessa è il nuovo romanzo di Donato Carrisi, Io sono l’abisso, edito da Longanesi Editore nel 2020.

La trama, apparentemente tranquilla all’inizio, si trasforma in una storia travolgente e ricca di suspense.

È il compleanno del figlio di Vera il giorno in cui quest’ultima decide di insegnargli a nuotare. L’euforia del piccolo però scompare quando, assieme alla madre, giunge in una piscina diversa da quella immaginata.

Essa si presenta infatti sporca e viscida anticipando in questo modo il clima inquietante che da lì a poco colpirà il lettore. Vera infatti lascerà in balia del terrore il figlio nella putrida piscina, sperando così nella sua morte.

In realtà essa non avviene in quanto il piccolo abbandonato dalla madre riesce a salvarsi e a diventare un uomo, anzi si direbbe “l’uomo”, il netturbino dalla duplice personalità, colui che, senza nome, di giorno pulisce di vie della città e di notte si trasforma in Mike, l’assassino metodico.

Ma è realmente la malvagità del netturbino a venire fuori o in lui si nasconde un briciolo di umanità che lo trasformerà in una sorta di angelo custode?

Donato Carrisi: su molestie e violenze, indignarsi non è abbastanza - Life  - D.it Repubblica

Il romanzo di Carrisi fornisce numerose incognite durante la lettura, le cui risposte si presentano nella tensione che arricchisce le pagine scorrevoli e coinvolgenti.

L’autore utilizza infatti la tecnica della focalizzazione interna in terza persona, ovvero descrive i fatti prendendo come punto di vista quello di un determinato personaggio ed è così che nel corso della lettura siamo “un assassino” che si riscopre umano, “una ragazzina” costretta a crescere troppo in fretta, “un’ispettrice” bloccata nel passato, “un bambino” sottomesso dalla violenza.

Il tema della violenza e dei suoi aspetti più occulti vengono trattati da Carrisi il quale abbatte stereotipi e analizza un comportamento umano ahimè comune.

Degna di nota è l’analisi della psicologia umana che rende il romanzo ricco di spunti di riflessione e capace di trasmettere al lettore il brivido della tensione che lo rende così emozionante e avvincente.

Ardissone Maria Bianca, 1B Classico

Poster A un Metro da Te

Il film A un metro da te, prodotto e diretto da Justin Baldoni nel 2019, è dedicato alla youtuber e attivista Claire Wineland, morta di fibrosi cistica, malattia genetica degli apparati respiratorio e digerente, intorno alla quale ruota l’intera trama.

Affetta da questa malattia è la protagonista Stella Grant (Haley Lu Richardson), ragazza forte, capace di vivere la sua malattia con spensieratezza, cogliendo ogni lato positivo della vita e cercando così di mantenere il sorriso in ogni situazione.

Ed è in ospedale, il luogo in cui passa la maggior parte del suo tempo, che conosce Will Newman (Cole Sprouse), ricoverato anche lui per la stessa problematica.

Tra i due nasce quasi da subito un fortissimo legame, che poi diventerà d’amore, anche se sono costretti a viversi a un metro di distanza l’uno dall’altra per evitare il rischio di infezioni batteriche.

Ne viene fuori un film toccante e commovente, capace di trattare un tema piuttosto profondo visto dagli occhi di un’adolescente come tante, ma che non può vivere come le altre.

Nonostante il tema possa risultare pesante, è interessante come esso sia alleggerito dal sentimento dell’amore che supera qualsiasi barriera e abbatte ogni ostacolo.

Un tema attuale si direbbe, in quanto le distanze fanno parte della nostra quotidianità a causa del covid-19 da ormai un anno.

Assolutamente consigliata è la visione di un film in grado di suscitare nello spettatore una profonda riflessione non solo sulla situazione delle persone che convivono con questa malattia, ma anche e soprattutto sull’importanza delle piccole cose quotidiane, che vanno apprezzate sempre e comunque.

Camilla Riva, 1 B Classico

The Breakfast Club (1985) - IMDb

The Breakfast Club è una commedia drammatica diretta dal regista John Hughes, produttore tra i tanti, di film popolari come Sixteen Caudles, Pretty Pink e Day Off.

Girato negli Stati Uniti del 1985 e ambientato in un quartiere immaginario di Chicago (già presente in altri film di Hughes), parla di cinque ragazzi: Claire, Andy, John, Brian e Allison.

Molto diversi tra loro si ritrovano tutti in punizione un sabato pomeriggio con il compito di scrivere un tema affidato loro dal preside Vermon, la cui traccia è la seguente: “chi sono io?”.

Ed è così che gli adolescenti si scoprono per quello che sono, con i propri pregi e difetti e i propri problemi.

Ad emergere sono infatti le vere personalità dei protagonisti:

Breakfast Club (film) - Wikipedia

da Claire (Molly Ringwald), la classica “principessina” invidiata e apparentemente superficiale, che in realtà nasconde dietro alla sua corazza una grande sofferenza per il divorzio dei genitori a Allison (Ally Sheedy), la ragazza eccentrica e sola, emarginata dai suoi compagni e dalla sua famiglia.

E poi ci sono Andy (Emilio Estevez), l’atleta più dotato dalla scuola, sofferente perché pressato dal padre e Brian (Anthony Michael Hall), anche lui sempre sull’attenti, sempre perfetto, tanto da tentare il suicidio per le continue sollecitazioni e infine John (Judd Nelson), il classico cattivo ragazzo, vittima della violenza del padre.

Un gruppo di giovani diversi tra loro, ma che si scopre unito da una profonda amicizia e da una sintonia quasi fraterna.

Ne viene fuori una commedia – a tratti drammatica – piacevole, e allo stesso tempo ricca di spunti di riflessione.

15 Most Memorable Quotes From The Breakfast Club | ScreenRant

Emergono infatti problemi molto comuni tra gli adolescenti dell’epoca e di oggi come l’oppressione genitoriale, la paura dell’abbandono, la pressione sociale, la sensazione di non conoscere se stessi e la violenza domestica fisica e psicologica.

Un film capace di toccare le anime di molte generazioni e che, per questo, si è valso di importanti premi come l’MTV Movie e Tv Awards nel 2005 e il National Film Preservation Board Usa nel 2016, per citarne solo alcuni.

E siamo sicure che ne vincerà tanti altri, anzi glielo auguriamo!

Gazzano Alessia e Quaranta Chiara, 1 A Classico

Red Hot Chili Peppers - Californication, il video che anticipò GTA

Californication, brano dei Red Hot Chili Peppers pubblicato l’8 Giugno 1999 in collaborazione con la casa discografica Warner Records, appartiene all’omonimo album Californication.

Un pezzo molto apprezzato in tutto il mondo per la sua musicalità e per il suo essere completamente privo di filtri.

Nel giro di pochissimo tempo ha infatti raggiunto più di un milione di vendite, vincendo il Disco di platino in Italia e il Disco d’oro in ben tre paesi: gli USA, la Danimarca e il Regno Unito.

Da un punto di vista musicale, il pezzo è classificabile come funky alternative rock presentando un ritmo e un metronomo relativamente lenti se comparati ad altri pezzi degli stessi autori come Can’t Stop, o Scar Tissue.

Buy "Californication" - Red Hot Chili Peppers - Microsoft Store

Tuttavia, se combinato con il video musicale, acquisisce il sound funky tipico dei Red Hot, con una chitarra accattivante e una coordinazione del basso elettrico che sviluppa la sua parte principalmente in arpeggi di accordi con la batteria unica i quali, verso la fine del brano, hanno persino il loro spazio da “solisti”, per quanto non facciano improvvisazioni come nel vero jazz.

In generale, il pezzo è perfettamente a metà tra jazz e pop, ed è a parer nostro il vero capolavoro del suo album.

Emerge inoltre un significato implicito molto profondo e interessante da frasi come It’s the edge of the world and all of Western civilization o The sun may rise in the East at least it’s settled in a final location, per citarne solo alcune.

Tutte frasi che sembrano indicare uno stesso concetto: l’occidentalizzazione del mondo che sta avvenendo sempre più velocemente e la conseguente perdita del valore dell’autenticità.

Il testo lascia intendere come ormai la cultura americana sia “il sole del mondo” , come ogni altra cultura stia prendendo spunto da essa e come il mondo intero stia perciò acquisendo un ritmo sempre più serrato, cadendo in una spirale di falsi sogni e fantasie irrealizzabili.

La canzone inoltre insiste su una similitudine: l’industria dei film, quindi Hollywood, nota località nel cuore di Los Angeles (California), sta ad indicare come gli Stati Uniti siano la terra delle Meraviglie per tutti, tranne che per chi ci vive.

Riguardo al video musicale ciò che salta di più all’occhio è sicuramente l’ambientazione in cui i quattro membri del gruppo sono inseriti, la quale è palesemente ispirata a videogames come il celeberrimo Grand Theft Auto.

Il video infatti si apre con l’inquadratura su un menu di selezione dei personaggi che riprende quelli tipici dei videogiochi anni ‘90. Il chitarrista John è il primo ad apparire, correndo per la famosa Walk of Fame di Hollywood; la sua sequenza, come tutte le altre, si conclude quando afferra il logo dei Red Hot Chili Peppers.

Dopo un breve intermezzo dove il gruppo in carne ed ossa suona in cima ad una collina, intento a fare snowbard si presenta Chad, il batterista del gruppo, il quale però, cadendo da un burrone, si ritrova ad atterrare su un treno in corsa.

Il terzo, in una tipica ambientazione surreale è il cantante Anthony, riprso mentre nuota in mezzo a degli squali. Completa il cerchio in corsa Flea, il bassista, intento a tirare pugni a persone, alberi e orsi.

La scelta in pieno stile videogame chiaramente legata al tema della canzone. I membri della band infatti compiono azioni totalmente impensabili e irrealistiche, azioni che, nell’immaginario collettiv, sono irrealizzabili dovunque… meno che in America.

Amoretti Francesco, Barberis Francesco Marcos e Ramoino Eleonora, 2 A Classico

Partiamo dal presupposto che non è mai stata una mia prerogativa elencare concretamente la tessitura narrativa di un film. Ciò che più mi preme è infatti dare l’idea, a grandi linee, del contorno che fa di ogni singola pellicola visionata, un insieme di elementi degni di nota.

Questa volta però voglio fare un’eccezione raccontandovi un horror in pieno stile europeo…

Kadaver, diretto dal regista Jarand Herdal e distribuito su Netflix il 23 ottobre 2020 è ambientato in una città distrutta da un’esplosione nucleare.

Le ambizioni dei pochi sopravvissuti vengono spazzate via dalla fame, dall’indigenza e dal freddo, insieme a quel briciolo di empatia che sono stati costretti a mettere da parte per far fronte all’abituale – e direi forzata – convivenza con gente morta.

Leonor (Gitte Witte) e Jacob (Thomas Gullestad) sono i genitori di una bambina di nome Alice (Tuva Olivia Remman) e sperano soltanto di proteggerla il più possibile da quella drammatica situazione cercando soluzioni per nutrirsi, vista la mancanza di risorse.

La madre, prima dell’esplosione, era una famosa attrice di teatro, ma nessun tipo di soddisfazione lavorativa poteva adesso risollevare lo status di quella famiglia come di tutte le altre rimaste in quel luogo.

Le cose sembrano però cambiare il giorno in cui Leonor sente l’annuncio di un uomo ben vestito che declamava l’invito a teatro per uno spettacolo esclusivo in cui sarebbe anche stato offerto gratuitamente del cibo.

Dopo un primo momento di scetticismo, la famiglia decide di recarsi a teatro, certa di poter finalmente mangiare, ma ecco che le sorti dei protagonisti vengono però decretate da una sfarzosa scatola mortale capace di fondere la cruda realtà alla finzione teatrale.

Da una visione rivelatasi immediatamente suggestiva emerge la diffusione brillante di luci ed ombre che prende spunto dallo stile teatrale melodrammatico nella scelta e nell’uso del colore.

La ripresa in punti di vista sovvertiti ma geometricamente perfetti dà infatti soddisfazione alla vista ed eleva la consistenza del soggetto realizzato sospendendo l’attenzione dello spettatore fra la trama e il paesaggio freddo e spettrale entro cui è immersa.

Si nota un’applicazione quasi accademica nelle caratteristiche della ripresa cinematografica utilizzata, nella contaminazione tra lo stile neorealista italiano del dopoguerra, la nouvelle vague e le trasgressioni sul montaggio.

Il tutto è giustificato da un andamento che, nonostante la varietà della struttura filmica, è fedele all’impostazione classica americana.

Una produzione norvegese capace di regalare allo spettatore una grande qualità di girato che si rispecchia nella suggestiva ambientazione e nella costruzione del set così che chi guarda non venga scosso improvvisamente dal colpo di scena ma “accompagnato” nel tempo del film e nella sua rappresentazione.

Desirée Formica

Il treno dei bambini (Einaudi editore, 2019), romanzo di Viola Ardone, ruota attorno a una vicenda storica poco nota del nostro più recente passato: l’invio di migliaia di giovanissime vite al Nord e al Centro Italia, su iniziativa del Partito Comunista italiano, per strapparle alla fame e alla miseria maturate in conseguenza all’ultimo conflitto mondiale.

Protagonista della storia è Amerigo, un bambino napoletano sveglio e vivace, figlio di una ragazza madre, Antonietta, che gli racconta sempre di quel padre non conosciuto partito per l’America in cerca di fortuna e che chissà quando tornerà per strappare entrambi dalla miseria.

La miseria di una quotidianità fatta di bassi chiassosi, sfogliatelle calde divise a metà con l’amico del cuore Tommasino, tra una scorribanda e l’altra, ed il sugo “alla genovese” dei giorni di festa.

Lungo quei binari si compie il destino del bambino, che sale sul treno diretto al Nord, inconsapevole che quel viaggio cambierà per sempre il corso della sua esistenza.

A Modena viene accolto da Derna e dalla sua famiglia, proprio lui che una famiglia vera non l’aveva mai conosciuta. Per la prima volta non deve più “faticare”, ma soltanto andare a scuola e giocare.

Ora può vivere con la spensieratezza che appartiene all’infanzia, lontano dai doveri oppressivi di una realtà in cui si cresce troppo in fretta e dove non si è abbastanza piccoli per non lavorare.

Attraverso una scrittura originale che filtra la realtà attraverso il punto di vista del bambino su cose e persone, l’autrice si lascia andare ad una scrittura ingenuamente pura, innocente e semplice ma intrisa di emozione e di sentimento.

Grazie ad essa abbiamo modo di assistere al percorso interiore di Amerigo, a quei dissidi dell’anima che lo rendono combattuto tra la vita che si sta lasciando alle spalle e quella nuova che il destino gli offre di trasformare in qualcosa più di una semplice possibilità.

A tutti gli effetti quello della Ardone può legittimamente rientrare nel filone del romanzo di formazione: ripercorre infatti l’infanzia e poi la maturità del protagonista, sempre in viaggio sui binari che la vita gli offrirà di percorre durante la sua ineluttabile corsa.

Segue la sua dimensione emotiva, giustifica e legittima il maturare di certe scelte.

Solo lui potrà decidere quali treni aspettare e su quali binari, divenendo in questo modo l’uomo che sarà, mai immemore delle proprie radici e di quel cappotto lanciato dal finestrino verso la madre nell’inverno del 1946.

Quel bambino senza cappotto con le scarpe troppo piccole lo porterà per sempre con sé, nell’intimità più profonda del suo Io.

Francesca Mazzino

Viola Ardone (Napoli 1974) è laureata in Lettere e ha lavorato per alcuni anni nell’editoria. Autrice di varie pubblicazioni, insegna latino e italiano nei licei. Fra i suoi romanzi, oltre a Il treno dei bambini, ricordiamo: La ricetta del cuore in subbuglio (2013) e Una rivoluzione sentimentale (2016) entrambi editi da Salani.

Si dice che ci sia un tempo per ogni cosa e, per Richard Gere, gli “anta” sono tempi assai fortunati.

Nell’immagine collettiva, probabilmente, ci si ricorda dell’attore in età matura più che in gioventù, un attore nato “buono” che ha molto spesso interpretato ruoli da innamorato con gli occhi a cuoricino in commedie rosa o drammatiche.

In Autumn in New York, pellicola del 2000 diretta dalla regista Joan Chen, Gere viene mostrato meno romantico del solito.

Nel film si allude ad un altro cliché, quello che presenta la borghesia americana come custode di vizi.

Il protagonista Will Keane (Richard Gere) è un famosissimo chef e anche un inguaribile dongiovanni (certo, mi direte, fino a quando non incontra l’amore vero) e non è facile per lui riconoscere un sentimento importante tra le mille donne che gli passano sotto il naso.

E il lieto fine? Non funziona sempre tutto come in Pretty Woman.

Quella che apparentemente si presenta come una commedia romantica da guardare sul divano per alleggerire un po’ l’atmosfera cambia registro prima di tutto sulla base del confronto tra la diversità caratteriale della protagonista femminile, Charlotte, interpretata da Winona Ryder e le cattive abitudini di Will.

Charlotte è una giovanissima ragazza di ventidue anni che sembra essere cresciuta in un batuffolo di neve: vive con la nonna tra perline e cappellini artigianali, ma sotto il suo sorriso smaliziato e due occhioni scuri qualcosa rende viva e tangibile ogni sua parola.

Nessuna chioma fluente e sensuale ma un nerissimo pixie cut fa risaltare la sua pelle diafana e la sua figura corporea fragile e minuta. La sincerità, nella voglia di mangiarsi il mondo, è il risultato di una grave malattia incurabile che presto la porterà via dal mondo terreno.

La giovane è un filo sottile tra il presente e il passato dello scapolo più ambito di New York.; la sua presenza porterà a galla fantasmi che Will aveva sedato e riposto nel dimenticatoio e adesso tornati per una resa dei conti senza esclusione di colpi.

Ma cosa sono i vizi se non malattie dell’anima? Will lo sa bene e ci convive
tradendo la fiducia di chi diceva di amare e per la quale affermava di essere
cambiato confermando quella sensazione di tragedia annunciata a cui lo
spettatore incredulo sperava di non dover assistere.

Le donne intorno a Will sono troppe e pretenziose, ma non tutte rivendicano la stessa ragione. L’atmosfera tipica dell’autunno newyorkese, i colori caldi e brillanti, riscaldano la prima parte del girato per poi raffreddarsi e schiarirsi nella neve man mano che avanza l’inverno.

Un naturale cambio di stagione che allude a quel ciclo vitale che noncurante del nostro permesso sopravvive.

Desirée Formica

Il film Azzurrina del regista Giacomo Franciosa, girato nel leggendario Castello di Montebello, è un lungometraggio horror la cui lavorazione è stata sospesa molte volte in circostanze misteriose. Finalmente, grazie a un accordo siglato, l’opera sarà completata e distribuita.

Nel corso del MIA Market (il mercato dei film de La Festa del Cinema di Roma) Evoque Art House S.r.l., la Regione Abruzzo e l’Agenzia di Sviluppo (Azienda Speciale della CCIAA di Chieti Pescara), hanno collaborato assiduamente per la promozione del cinema abruzzese e non solo.

Durante l’evento, grazie a un importante lavoro di meeting e co-working, Mauro John Capece, CEO di Evoque Art House e Giacomo Franciosa, nipote del noto attore hollywoodiano Anthony Franciosa, hanno siglato un accordo su diversi titoli, sia per la produzione associata che per la distribuzione.

Tra questi emerge il film Azzurrina e il relativo documentario Il Castello di Azzurrina, in cui verranno rivelati gli accadimenti avvenuti durante la lavorazione del film.

Il lungometraggio, avvolto da un’aura di mistero e paranormale, racconta la leggenda di Azzurrina, la bambina scomparsa improvvisamente e mai più ritrovata, nel 1365, nella vecchia fortezza di Montebello.

Mauro John Capece dichiara in merito: «Avevo già avuto modo di conoscere professionalmente Franciosa e sapevo di questo lungometraggio e dei suoi documentari ed è stato bello intercettare uno dei suoi sales al MIA.

Ignoravo che il percorso di questo film si fosse fermato in post-produzione per diverse ragioni (più burocratiche che tecniche) che risolveremo certamente nel migliore dei modi. È un film molto adatto alle piattaforme, con un cast di tutto rispetto. Spiccano tra tutti Matilda Lutz e Paolo Stella. La fotografia è del talentuoso Ugo Lo Pinto. Sono sicuro che questo film darà a entrambi molte soddisfazioni dato che, tra l’altro, è attesissimo dal pubblico. Devo ringraziare gli enti proponenti che mi hanno esortato a collaborare attivamente assieme a loro durante il MIA».

Il regista Giacomo Franciosa aggiunge: «Credo e ho creduto molto sia in Azzurrina che negli altri film che ho diretto. Di Azzurrina si è parlato molto in televisione e sono stato ospite di tante trasmissioni, dunque, sui motivi del ritardo di questa uscita ho davvero poco da dire dato che è tutto visibile online. Sono molto contento di aver stretto questo accordo perché so che finalmente ora il film sarà completato e distribuito e nel miglior modo possibile. Sarà un film di successo, ne sono certo. Valuteremo anche lo sviluppo di altri progetti in cui le nostre società potrebbero avere una sinergia italo-spagnola importante».

Comunicato stampa di Miriam Bocchino, L’Altrove Ufficio Stampa